15/12/08

Gian Paolo Ragnoli, JANIS, ME & BOBBY MCGEE


[This is not a rock guitar. Foto di Marzia Poerio]


Era l’una e mezza di notte, eravamo a S.Francisco in un garage riadattato a studio di registrazione. Janis stava provando un pezzo nuovo ma non riusciva a trovare il feeling giusto, era un pezzo country, scritto da un amico, non aveva
nulla a che fare col suo blues e neppure col rock psichedelico (ma allora dicevamo acid-rock) che faceva coi Big Brother.

Avevo conosciuto Janis da poco ma ero amico di Bobby da un sacco di tempo e questo significava qualcosa per lei.

La prima sera ero ancora un po’ imbarazzato, seduto su un divano accanto ad un mito, lei mi prese amabilmente in giro citando i versi di Leonard Cohen che la riguardavano, come fossero rivolti a me, dicendomi “in genere preferisco i bei ragazzi, ma per te farò un’eccezione”.

Le risposi al volo “non c’è problema, non saremo belli ma abbiamo la musica dentro”. Una delle più belle canzoni che io abbia mai sentito, CHELSEA HOTEL N. 2, e quella sera la cantò Janis, solo per noi, accompagnandosi con la vecchia Martin di Bobby. L’avessi registrata probabilmente vivrei di rendita…

La rivoluzione era finita, e non avevamo vinto noi. La mia storia con She si era esaurita e avevo bisogno di cambiare aria per un po’. Bobby mi invitò a stare da loro, Janis stava iniziando a lavorare a un disco nuovo e Bobby fu così gentile da dirmi che avrei potuto essere utile.

In realtà il pezzo che scrissi per lei, ALL OF MY TOMORROWS, alla fine fu lasciato fuori dall’album, non si riusciva a mixarlo decentemente e così rimase a prender polvere in archivio per anni, finchè un giorno non lo ritirai fuori, diedi una sistemata al testo e lo registrai coi Syds.

Comunque ero lì, dietro al mixer con la cuffia in testa, a far finta di sapere quello che stavo facendo, che a pensarci bene è quello che so far meglio nella vita.

“La chitarra è bassa. Lo so che non sto suonando benissimo, ma mi piacerebbe comunque riuscire a sentirmi. Capisci quello che sto dicendo?”
“Ok Janis, proviamo così. Ti va?”
“No, adesso è troppo alta. Non riesco a suonar bene stanotte. Ma secondo te quando canto si sente l’accento texano?”
“Lo spero bene”.
“Beh, sai Ted, l’ho sempre avuto, ogni volta che mi riascolto è la prima cosa che sento”.
“Se sei pronta faccio partire il nastro… TAKE 5”.
“Dio mio, devo cominciare subito! Sono pronta, e tu?”
“Ti seguo, baby…”

In studio c’eravamo solo noi tre. Janis cantava e suonava la chitarra, Bobby era all’armonica e io registravo il tutto. Janis questa volta lasciò perdere la Gibson semiacustica con cui aveva finora provato il pezzo e tirò fuori la Martin di Bobby.

Ci mettemmo dieci minuti a sistemare il microfono ma furono spesi bene, la TAKE 5 era quella giusta. Janis cantò il pezzo con tutta l’anima ma senza esagerare, trattenendo un po’ l’emotività per farla risaltare ancora meglio, la Martin e l’armonica di Bobby in sottofondo accompagnavano con delicatezza il cantato, non c’era bisogno di nient’altro, era tutto lì, di fronte a noi.

Il sogno di un’altra vita, di un’altra America, quel sogno da cui ci avevano bruscamente svegliato i tin soldiers di Nixon riviveva, anche solo per tre minuti, in quella canzone.

Magari conta poco, ma cosa volete di più da una canzone?

A un certo punto mi accorsi che qualcosa di mio ci sarebbe stato comunque nell’album: verso la fine Janis infilò nel testo un verso preso dalla mia canzone e ci stava benissimo, sembrava fosse stato scritto esattamente per quello che voleva esprimere lei, mentre invece, come immaginerete, l’avevo scritto pensando alle barricate di Parigi e alla fine della storia con She, ma Janis con il talento dell’istinto l’aveva improvvisamente “sentito” lì. Ed
aveva ragione lei.

Qualche mese dopo Janis morì di overdose, Bobby se ne andò in Mexico e non lo vidi mai più, il disco uscì solo dopo la sua morte e schizzò come un missile fino al numero 1.

Io me ne tornai a Nomansland e cominciai a rimettere insieme i pezzi sparsi della mia vita. “But I’d trade all of my tomorrows for one single yesterday”…