11/12/08

Claudia Borghetti, DAL BALCONE


[Blurred vision of the next balcony. Foto di Marzia Poerio]


Mi sono innamorato di lei forse da subito. Quella sera era stanca e pensierosa ma sembrava avere grandi cose per la testa e tutta l’energia e la buona volontà che mancavano a me. Mi colpirono gli occhi piccoli e lontani, parlava parlava ma non potevo capirla. Ascoltavo il tono della sua voce invece, e m’immaginavo l’odore della sua casa, il tocco delle sue mani grandi e lo spazio che avrei occupato nella sua vita. Lei le decisioni le prende alla svelta, senza troppo pensare e di lì a pochi giorni mi trasferii da lei.

Passò tutto il giorno a pulire e spostare i mobili perché avessi i miei spazi. Pioveva, io aspettavo sul balcone che lei finisse e ascoltavo la sua musica in silenzio. Di tanto in tanto veniva a sedersi anche lei fuori e mi accarezzava e guardava oltre la balaustra, oltre la ferrovia, laggiù verso i colli e il cielo. Quel giorno strano è stato il più bello della mia vita.

Sono stato felice forse per un mese. A lei gli entusiasmi passano veloci e io non lo sapevo e se anche l’avessi saputo non avrei fatto un bel niente. Non posso rimproverarla in fondo, in fondo sono un gatto. Il caso, o forse una donna vecchia con la scopa in mano, mi ha spazzato via nella vita e sono un gatto. E lei invece gli dei l’hanno voluta donna e bella per potersela guardare da lassù.

Anch’io, come loro, la guardo e non la posso amare. Siamo troppo diversi noi due. Ho tentato tante volte di raggiungere un compromesso con lei e, per un certo periodo di tempo, anche lei, lo so, ha provato a vivere con me i miei silenzi come se fossero le stanze di una casa tutta nostra. Erano i giorni di un’estate passata sul letto a dormicchiare. Lei leggeva e si assopiva con gli occhiali e io, acciambellato ai suoi piedi, appoggiavo la testa sulle dita e le facevo il solletico. Mi piaceva il suo odore forte che sapeva di strada e gente e estate in città quando tutti sono al mare. La sera mangiavamo in cucina, soli, e la notte ce ne stavamo sul balcone a guardare le stelle o le lucciole e a fare le fusa alla luna. Sono arrivato in un giorno d’estate in treno nella mia gabbia blu e lei ha stravolto la sua vita per avermi con sé.

Faceva caldo e le tapparelle erano sempre giù per non fare entrare l’afa e perché i vicini non curiosassero dentro che ancora non c’erano le tende o erano a lavare, non me lo ricordo. Di notte m’infilavo di soppiatto sotto le sue lenzuola e lei sorrideva morbida nel sonno e mi lasciava fare anche se aveva caldo e io non aiutavo; i miei peli le si attaccavano addosso sulla pelle sudata. E io le facevo compagnia in quel letto sempre vuoto d’abbracci e lei ogni tanto me lo diceva anche “sei l’unico uomo della mia vita!” ma rideva triste e io mi sentivo gatto e basta.

Poi arrivò l’autunno. Lei chiudeva la porta del balcone e ricominciava il suo tran tran. Ancora caldo dell’estate bella passata insieme, all’inizio non ci feci caso. Ma lei usciva di casa la mattina presto e non tornava per pranzo, talvolta rientrava solo dopo cena. Una volta sparì per tre giorni e io aspettai carico d’angoscia che tornasse da me. La sognavo e tremavo al risveglio per paura che non tornasse più. Pensavo al colmo della disperazione che forse si era innamorata di qualcuno e me la immaginavo sorridente in posti che non avevo mai visti e che mi sembravano tanto più belli e luminosi della nostra stanza con balcone. Poi mi dicevo che l’importante era che tornasse, che se anche avesse portato un uomo con sé avrei sopportato, che pur di averla a casa mi sarei fatto piccolo piccolo quasi invisibile.

Quella volta tornò, mi disse bisbigliando all’orecchio che le ero mancato e io la perdonai. Non avrei mai voluto darle quella soddisfazione, ma mi partirono le fusa.

L’amavo con dedizione assoluta. Il tonfo secco del portone giù a livello della strada, i suoi passi pesanti per le scale e il giro di chiave erano la mia felicità. Il resto era passatempo. Con lei erano gioie violente e brevi che lasciavano uno strascico malinconico fino a sfinirmi. Desideravo la sua presenza in ogni istante, il tocco delle sue mani, il rumore dei suoi gesti per casa, anche gli insulti di quando la facevo arrabbiare. Ero drogato, malato, e non volevo ammetterlo a me stesso. La gelosia mi prendeva lo stomaco e piangevo di rabbia ossessionato da quel mondo che sentivo rumoroso e spaventoso fuori. Non capivo cosa di quel chiasso l’attraesse tanto, perché preferisse quel terribile intruglio di rumori alla dolce quiete delle nostre cose.

Io sono gatto e vado bene per le domeniche di pioggia quando c’è da vedere una videocassetta o nei momenti di malinconia che nessuno può consolare. Servo quando è il momento di riposarsi dopo tanta confusione. Sono il gatto più bello del mondo nei ritagli di tempo e per il resto un affetto costante, scontato e pure ingombrante quando c’è da prendere la valigia e andare lontano. Lei è donna e conosce l’inquietudine, il fuori e il dentro delle cose, legge i libri e fa i confronti. Ma si illude: la sua prigione è solo un po’ più grande della mia.

Ho pensato di farla soffrire, di riconquistarla o dimenticarla.

Un giorno sono caduto giù dal balcone, mi ero distratto a guardare uno stormo di rondini. Lei è accorsa in lacrime a soccorrermi giù in strada. Mi ha tenuto tutto il giorno sulle ginocchia e mi baciava e rideva e ripeteva che ero vivo, che non mi ero fatto niente, che ero la cosa più importante della sua vita. Io avevo appena preso una paura terribile ma ne era valsa la pena. E ridevo sotto i baffi della sua paura che sembrava dieci volte la mia.

Un altro giorno sono scappato. Era un periodo che andava e veniva e mi urtava correndo veloce da una stanza all’altra presa da non so bene cosa. E io come al solito, che stupido, la seguivo come un’ombra e le chiedevo solo un gesto d’amore, una parolina buona che desse pace alla mia fame! Uscì di casa e io con un balzo, per vendetta, scappai fuori prima che richiudesse la porta dietro di sé. Non mi ero mai chiesto se volevo uscire e cosa avrei mai potuto fare fuori. Se c’era lei con me, il fuori non c’era. Fuori per me era solo la sua assenza. Lei provò ad afferrarmi, mi divincolai e corsi da qualche parte sulla sinistra lasciandomi dietro la sua voce che urlava il mio nome. Il suo fuori è una vertigine di odori e suoni che esplodono a ogni passo e si accavallano e stordiscono. Mi infilai nel buco di una rete e, una volta dall’altra parte, mi arrampicai su un albero. La tenevo in pugno. Lei era lì sotto che implorava e piangeva e pronunciava il mio nome in un modo dolcissimo, struggente. Si era dimenticata il suo impegno per me, per me stava lì piccola piccola ai piedi di un albero e scuoteva la rete e protendeva le braccia.

Non l’abbracciai. In quel momento capii che mi amava, che non mentiva e non aveva mai mentito. Ma mi assalì un dolore nuovo e terribile. Avevo la certezza che mi amasse. Avrei dovuto esultare, stringermi a lei, affondare nel suo odore. Lei mi amava, sì, ma in un modo tutto sbagliato, capriccioso e volubile. L’amore come lo intendo io è stare insieme, accudirsi e sapere che l’altro c’è, solo per te, ogni volta che ne hai bisogno. L’amore è passare il tempo insieme, ridere e giocare e essere complici alla faccia del mondo.

Sono un gatto e non posso insegnarle l’amore dei gatti. Scesi dall’albero e lei mi prese in un abbraccio soffocante che non sentivo. Ero solo. Non potevo, io, un gatto, insegnarle come avrei voluto essere amato. Che diritto ne avevo? Lei è donna, mi dicevo. Mi piace così, ma così ho la certezza che non potrò mai averla, mi dicevo. E intanto lei era più premurosa che mai e si affaccendava per dimostrarmi tutto il suo sentimento e mi parlava e riscaldava il latte e mi guardava con occhi che ferivano da quanto erano sinceri. Essere gatti è una maledizione. L’amore è una maledizione, mi dicevo.

Da quel giorno smisi di contare i suoi passi, presi a dormire in cucina, quando lei era in casa passavo la maggior parte del tempo sul balcone. Miagolavo davanti alla porta chiusa, lei apriva e richiudeva per non far raffreddare la stanza. Quando volevo rientrare bastava che grattassi alla porta.

Prendevo le distanze da lei. Ne soffriva e mi chiamava la notte dal letto sperando che la raggiungessi. Un po’ ci godevo: “E no bellina, non sto più lì a leccarti i piedi” pensavo, ma subito dopo me ne vergognavo. Rimanevo fermo nel mio silenzio. Non avevo altra possibilità.

Dal balcone guardavo l’albero e la rete, le uniche cose che conoscevo del fuori e mi prendeva la nostalgia di quel giorno d’estate in cui lei guardava i colli e il cielo e io non capivo. Ognuno ha il suo fuori, per me è solo un albero vicino a una rete, per lei forse qualcosa che si nasconde dietro l’orizzonte. Chissà. Faceva freddo d’autunno sul balcone ma mi piaceva guardare le donne scuotere i tappeti e il bambino dei vicini giocare a palla. Mi piacevano soprattutto le rondini che si tenevano strette l’una all’altra per sfidare in una nuvola nera le nuvole in corsa.

Un giorno, mentre ero lì che guardavo in su, sentii un rumore assordante e qualcosa che faceva aria forte vicino a me. Mi spaventai e corsi verso la porta per cercare rifugio dentro. Era chiusa, come al solito. Allora miagolai di paura, chiusi gli occhi e mi rannicchiai a ridosso del muro. Quando li riaprii, una rondine si era posata sul filo per i panni e mi guardava. Era elegante e aveva lo sguardo intelligente e mi fissava curiosa. La porta si aprì, lei si spaventò e volò via.

Quella notte dormii con lei e fu strano perché, invece di vegliare sul suo sonno, mi addormentai quasi subito pensando a quella bella rondine lì fuori.

Il giorno seguente le rondini erano agitate, si stavano preparando alla grande partenza e forse litigavano per chi dovesse stare in testa. Io le guardavo e cercavo la mia rondine chiedendomi se l’avrei mai riconosciuta. Fu lei a venire a cercarmi e fu rilassante sentire di nuovo l’aria delle sue ali sul mio pelo. Non parlammo, nessuno dei due poteva, ma il suo occhio capiva tutto.

Venne ogni giorno da me, bastava che uscissi sul balcone per vederla staccarsi dallo stormo e volteggiare in una danza leggera che presto capii faceva solo per me. Piano piano divenne veramente la mia rondine e io mi stupivo che venisse sempre al balcone lei che poteva starsene fuori e raggiungere i colli e il cielo. Lei preferiva me. Forse il suo fuori ero io.

Quel settembre mite finì in un ottobre freddo per davvero e lo stormo si decise a partire. La vedevo inquieta, non allargava più le ali per farsi rimirare tutta bella da me e non intesseva più ricami buffi nel cielo per farmi ridere, mi guardava con l’occhio umido e io tremavo per la paura di perderla. Ma il suo dolore silenzioso mi rincuorava. Il suo era un amore che non si poteva urlare ma c’era sempre ed era tenace e calmo e fiducioso.

Una mattina mi svegliai che le rondini erano partite. Tutte, tranne lei, la mia rondine paziente che mi aspettava sul balcone.