31/10/08

CARTE ALLINEATE. Numero 22, Ottobre 2008 / Issue 22, October 2008

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INDICE ALFABETICO / INDEX

Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.

- ARRIGO, Nino, IL FANCIULLO DIVINO. Riflessione, 11-10-08.
- AUSTER, Paul, MAN IN THE DARK. Note di lettura, 19-10-08.
- AVATI, Pupi, IL PAPÀ DI GIOVANNA. Storie di libri e di film: Marianna ORSI, 9-10-08.
- BALESTRINI, Nanni, SANDOKAN. STORIA DI CAMORRA. Note di letturaI, 31-10-08.
- BONOMO, Annalisa, TRADURRE LA FANTASIA RIMANENDO IN PIEDI: PER UNO SPINOSO PROBLEMA DELLA TRADUZIONE. Riflessione, 25-10-08
- FALL. Fotografia e versi di Marzia POERIO, con commento, 1-10-08.
- FRISA, Lucetta, PASSEGGIATA. Testo, 23-10-08
- HIPKINS, Danielle, CONTEMPORARY WOMEN WRITERS AND TRACES OF THE FANTASTIC. THE CREATION OF LITERARY SPACE. Note di lettura di Vilma DE GASPERIN, 7-10-08.
- JUNG, Carl Gustav, CONSIDERAZIONI GENERALI SULLA PSICOLOGIA DEL SOGNO. Rilettura, 13-10-08
- KUMAI, Kei, UMI WA MITEITA (The Sea is Watching). Storie di film di Renato PERSÒLI, 29-10-08
- MONTOBBIO, Santiago, L’IO, DIO, L'AMORE, LA NOTTE, LA FAVOLA (FABULA). Testi originali con traduzioni di Piera MATTEI, 3-10-08.
- MUGNAINI, Ivano, GLI OCCHI DEL BUIO. Testo, 15-10-08
- R.K. NARAYAN, THE GUIDE. Rilettura, 5-10-08.
- SHA, Bharat, DEVDAS. Storie di film di Renato PERSÒLI, 17-10-08.
- TREVISAN, Eros, TIEPIDI RAGGI. Note di lettura di Rosa PIERNO, 17-10-08.
- YOUNG, Augustus, THE MUSICAL EROTIC: KIERKEGAARD AT THE OPERA. Riflessione, 21-10-08

Nanni Balestrini, SANDOKAN. STORIA DI CAMORRA

Torino, Einaudi, 2004.


"Non tornerò mai più al mio paese", conclude la voce narrante di questo racconto documentario, un ragazzo della zona di Casale, nel Casertano, testimone delle vicende di camorra che hanno visto verifcarsi il conflitto per il potere e il controllo da parte del clan Bardellino, che sconfissero inizialmente i Cutolo, e poi venne sostituito dal caln Schiavone, di cui Sandokan (soprannome di Francesco Schiavone) è rappresentante.

Balestrini rende la complessità dei fatti e delle vicende con chiarezza e lucidità: la situazione del paese degradata e caratterizzata dalla violenza e dalla sopraffazione; la vita quotidiana scossa; l'apparente inesistenza delle convenzioni comuni del vivere civile; il crescere degli affari della criminalità organizzata dall'intermediazione sociale degli anni Cinquanta, al contrabbando e alla droga degli anni Settanta, alla crescita su scala internazionale degli ultimi decenni con introiti depositiati in Giamaica, accordi con mafia siciliana e criminalità estera, espansione dei traffici.

L'ottica consueta dello scrittore milanese, con capoversi incasellati di seguito come strofe di un componimento in prosa, senza segni di interpunzione, qui è, più che un'eredità della sperimentazione degli anni Sessanta, una mimesi del parlato che dà autenticità al racconto, lo organizza in modo logico e attendibile. È tale strategia compositiva a consentire una maggiore partecipazione nel lettore che si trova di fronte una testimonianza credibile sebbene fittizia su fatti invece realmente accaduti.

Si veda infine su questo libro una recensione accompagnata da un'intervista di Roberto Saviano all'autore col titolo SANDOKAN EROE A CASO.


[Rberto Bertoni]

29/10/08

Kei Kumai, UMI WA MITEITA


[Elaboration of a picture of a bench in an Irish railway station - as symmetrical as a Japanese interior. Foto di Marzia Poerio]


2002. Titolo in inglese: THE SEA IS WATCHING. Esecuzione di una sceneggiatura di Akira Kurosawa basata su un romanzo di Shugoro Yamamoto. Con Masatoshi Nagase, Misa Shimizu, Nagiko Tono, Idetaka Yoshioka.


Ambientato nell’Ottocento in una casa di piacere di un paese in riva al mare, rivela un Kurosawa attento più che all’epica a quella nota familiare e sentimentale di altri suoi film dell’ultimo e del primo periodo.

Oshin lavora nella casa alle dipendenze di Kilkuno, dama oculata che per reagire al dolore della professione ha inventato un’ascendenza nobile che alla fine del film confesserà essere menzognera. Oshin, come le altre ragazze, proviene da background delle classi inferiori, ma tutte hanno un senso della dignità personale, della solidarietà, dell’amicizia e sono questi i valori che si impongono oltre a un’umanità scoperta e fragile, disposta a rischiare per seguire il miraggio della felicità.

Quando il samurai Fusanosuke cerca rifugio nella casa per avere usato la spada in una taverna in stato di ubriachezza, Oshin lo accoglie e si innamora di lui; parrebbe ricambiata e sembrerebbe che l’aristocratico la voglia sposare scavalcando le convenzioni della differenza di casta, ma quando la propria crisi si risolve, in un penoso incontro le rivela di essere in procinto di recarsi alle proprie nozze. A cosa sono serviti gli sforzi di Oshin per redimersi dalla professione? A che è valso l’altruismo (forse paradossale) delle colleghe che si sobbarcano i clienti di Oshin devolvendo a lei il denaro siccome quel matrimonio ventilato era come il simbolo per tutte di una liberazione che non ci sarà?

Dalla caduta nel dolore, Oshin risale dopo tempo, mentre si apre la seconda parte del film, in cui la giovane un altro uomo, Ryosuke, un disperato come lei, più adatto, più solidale e più retto dato che la difende e non l’abbandona, anzi si interessa dei casi anche delle colleghe e salva Kikuno dalla violenza di un suo pretendente brutale mentre nel finale la piena del fiume e susseguente la marea montante sommergono il villaggio in cui sono restate non riuscendo a fuggire Oshin e Kikuno. Ryosuke con una barca può porre in salvo solo Oshin e Kikuno decide di lasciarsi morire.

Pur portando i tratti del melodramma, questa pellicola non cade nella pesantezza a causa della recitazione sorridente e geniale delle attrici, degli alleggerimenti dovuti ai quadri umoristici che si frappongono di quando in quando e della colonna sonora lieve di tipo occidentale, utilizzata con discrezione e con ironia.

È un bel film.


[Renato Persòli]

27/10/08

Eros Trevisan, TIEPIDI RAGGI


[Shadows looking at each other under the lookwarm rays of the northern sun. Foto di Marzia Poerio]


Eros Trevisan, TIEPIDI RAGGI. Venezia, Litostampa Veneta, 2007

Non è un’immediata facile sonorità a costituire l’ambiente in cui il lettore si trova immerso fin dalla lettura delle prime righe di TIEPIDI RAGGI di Eros Trevisan, poiché è una componente da rincorrere, che resta difficile da individuare essendo rifrazione visiva in primis, anziché immediatamente sonora.

Il lettore si trova, infatti, in un ambiente anfibio, paludoso, tra terra e acqua dove non è ravvisabile un preciso confine. Particolari definiti, colti da un microscopio si direbbe, emergono da uno sfondo non percettibile, alone più che materia: “lineamenti / d’erba Alati / nel nebbioso ondeggio / l’Acuirsi / l’istanza (temporale / co-plana”.

Della poesia vengono sviscerate le potenzialità attraverso una modalità mai estratta come idea manifesta, mai inchiodata come farfalla da spilli. È, dunque, la poesia di Eros Trevisan anche universo ambiguo, di trasmutazione di materie che trapassano dal liquido all’aereo, dall’intreccio vegetale a alla cristallizzazione minerale, giungendo a tessere le immagini attraverso un’inusuale forzatura delle parole.

Utilizzando nuove parole-utensili, la poesia di Eros manifesta il suo vigore, la sua volontà di ricostruire il mondo a partire da ineffabili, imprecise apparenze. Ciò che si vede è diverso da ciò che si costruisce con le parole. È il lavoro materico sulle parole, effettuato attraverso il suono e il senso, che giunge a filtrare l’oro mescolato alla rena, che fa coagulare la parola in immagine.

È così che Eros Trevisan costruisce una poesia che sgorga da una felicissima vena, ma ribattuta e forgiata in ogni più piccolo aspetto! Lì dove, dapprima, si penserebbe a una restituzione delle percezioni effettuata attraverso la sinestesia, si scopre un pullulare di parole organiche che si dividono e si uniscono con regole inusitate, che sfidano persino la consuetudine istituita dal percetto: “libera”, “tra-pinne”, “divarca”, “rivisti”, “riecano”, “cielo / cielo” “brattee”.

Parole che si appropriano anche degli spazi che separano le parole, riorganizzando il senso in relazione a uno spazio visivo o che “selvagge / acque_forme / sabbiose”, legandosi in sequenze impreviste di aminoacidi, vanno a formare nuove combinazioni.

Così il paesaggio che pre-esiste alle poesie di Eros non coincide col paesaggio del tutto innaturale che la sua poesia ci restituisce. Paradossale poetica creazione, di sonora visibilità.


[Rosa Pierno]

25/10/08

Annalisa Bonomo, TRADURRE LA FANTASIA RIMANENDO IN PIEDI: PER UNO SPINOSO PROBLEMA DELLA TRADUZIONE

“Poco si è scritto finora sulla traduzione della letteratura infantile. Per questo non possiamo che invitare gli specialisti a parlarcene [1].”

Con queste parole George Mounin nell’ormai lontano 1965 concludeva il suo breve capitolo (di sole due pagine) dedicato alla traduzione dei libri per bambini, contenuto in TEORIA E STORIA DELLA TRADUZIONE.

Rilevando come, in effetti, parlare di traduzioni per i bambini sia: “pieno di problemi specifici e di insospettabili difficoltà” [2], Mounin inaugurava, in realtà, un dibattito che non si è per nulla attenuato e che fa del tradurre la fantasia ed in genere ogni tipo di opera di stampo fantastico, uno spinoso problema intimamente collegato al ruolo educativo di qualunque testo letterario, a volte specificatamente, altre meno, diretto ad un pubblico giovane.

La difficile risoluzione di un problema che vede fronteggiarsi sempre nuovi “apocalittici” e “integrati” (per saccheggiare ancora una volta una terminologia cara a Umberto Eco) favorevoli e contrari alle potenzialità dell’atto traduttivo, risiede, con ogni probabilità, nell’impossibilità di delimitarne lo spazio, specie in relazione agli scritti diretti ai ragazzi, costantemente in bilico tra lingua scritta e lingua parlata, parole e segni, immagini e illustrazioni, luci e colori, verità e finzione.

Mai come in questo caso il problema delle definizioni si è fatto così imponente e a tratti fuorviante. Scrivevano Jenny Williams e Andrew Chesterman a tale proposito:

“Are you dealing with literature (designed to be) read by children or to children? What age group(s) do you mean? Does ‘literature’ include only books or could it also include TV programmes, films and softwares? Children’s literature spans many genres – from poems and fairytales to fiction and scientific writing. It is also expected to fulfill a number of different functions, e.g. entertainment, socialization, language development as well as general education” [3].

La ricerca di tali definizioni si complica nello stesso momento in cui il testo letterario generalmente indirizzato ai più giovani viene messo in relazione con un campo di studi sempre più vasto ed intricato come quello dei Translation Studies.

In effetti, da Cicerone, Orazio e San Girolamo, per continuare con la traduzione sacra di William Tyndale (del 1525) e quella poetica di George Chapman (traduttore di Omero), sino all’ormai proverbiale metafora di John Dryden e del suo traduttore-pittore ritrattista, alle “aggiunte” johnsoniane, alla creazione mistica tipica dei romantici, alla “sottolingua” di Schleiermacher, allo specialismo di Matthew Arnold, per approdare alla Babele steineriana del XX secolo, i riferimenti alle discipline coinvolte in un processo tanto antico come quello traduttivo, costantemente mossosi all’insegna della distinzione: “between word for word translation and sense for sense (or figure for figure) translation” [4], sono inevitabilmente cresciuti, registrando il passaggio da una prominenza della linguistica ad un vero e proprio embodiment di aspetti culturali ed ideologici che hanno abbracciato la traduzione da sempre diverse angolazioni.

Ne vien fuori, quindi, un vero e proprio guazzabuglio di stimoli e di sollecitazioni atti a escludere ogni tentativo tassonomico definitivo.

Nonostante ciò, la collocazione periferica della letteratura fantastica ed infantile in particolare, rimette in discussione nella sua controparte tradotta, le costanti problematiche legate alla questione del “canone”.

Notava Susan Bassnett in proposito:

“For there is no universal canon according to which texts may be assessed. There are whole sets of canons that shift and change and each text is involved in a continuing dialectical relationship with those sets. There can no more be the ultimate translation than there can be the ultimate poem or the ultimate novel, and any assessment of a translation can only be made by taking into account the process of creating it and its function in a given context” [5].

Le parole “libertà” e “tradimento” acquisiscono quindi nuove valenze e significati scientifici, dei quali i moderni traduttori devono essere pienamente consapevoli.

È al centro di un gioco così complesso come quello delle connotazioni, delle metafore e dei neologismi che spesso si colloca la produzione di un tipo di letteratura diretta all’infanzia, ma è altrettanto vero che:

“The people who translate science fiction and fantasy, first of all, know these genres and they also need to know the special vocabulary related to science and technology, mainly to astronomy. This is, again, still not enough. They also have to be the exceptionally creative ones, as these books are full of names for things that do not exist in reality, as they are only the product of a writer’s imagination. They deal with everything from food names to names belonging to different life forms, places, objects, military ranks or even names of drinks or institutions” [6].

Già Gote Klingberg, nel 1986, nel tentativo di analizzare “la letteratura per l’infanzia nelle mani dei traduttori”, suggeriva la medesima prospettiva, proponendone una possibile risoluzione in quella che lo stesso definì “cultural context adaptation”; è di tale ampliamento del concetto stesso di “adaptation” che lo studioso svedese individua dieci possibili categorie, tra le quali spiccano i riferimenti letterari, le lingue straniere all’interno del TS, i riferimenti alla mitologia e alla ritualità popolare, per continuare poi con i contesti politici, storici e religiosi, con i cibi, gli usi e costumi, i giochi, la flora e la fauna, i nomi personali e quelli geografici, i nomi di animali e di cose, sino a considerare le unità di peso e di misura [7].

Posta la variabilità di un procedimento traduttivo come quello teorizzato da Klingberg, nel quale trovano ampia applicazione concetti come rewording, explanatory translation, footnotes, simplification, substitution, sino ai più drastici casi di deletions e di localizations, i recenti studi sulla traduzione, che hanno visto i paesi finnici ricoprire (e allo stesso modo finanziare) spesso un ruolo primario in seno alla ricerca scientifica in argomento, hanno in qualche modo registrato uno spostamento verso direttive maggiormente descrittive.

Si pensi tra tutti, allo studio portato a termine nel 2000 da Riitta Oittinen, dal titolo TRANSLATING FOR CHILDREN [8].

Già nel suo I AM ME – I AM OTHER: ON THE DIALOGICS OF TRANSLATING FOR CHILDREN, del 1993, Oittinen inaugurava una prospettiva dichiaratamente dialogica (di matrice bachtiniana) all’interno della quale la traduzione per l’infanzia guadagnava a buon diritto uno spazio all’interno delle intricate teorie polisistemiche. È a partire dai numerosi elementi para e meta testuali di cui il ritmo finale dei testi risente inesorabilmente che è possibile ruotare intorno alla ridefinizione, o meglio, ad una “contestualizzazione” del concetto di adaptation, dal quale quasi ogni studio sulla letteratura infantile e sulla traduzione non riesce a prescindere.

Verosimilmente “influenzata” e in qualche modo “rassicurata” da una precisa fascia d’età alla quale la sua ricerca si rivolge (quella dei bambini intorno ai sette anni e alla letteratura loro indirizzata), l’analisi di Oittinen condivide in parte, alcune delle posizioni manifestate da Klingberg, quali ad esempio, la necessità di palesare le eventuali abbreviazioni del testo originale, ma ne diverge, allo stesso tempo, in merito alla presunta invisibilità del traduttore, auspicata, invece, dallo stesso Klingberg.

Secondo la studiosa finlandese, insomma: “Klingberg seems to assert that translators must be visible when adapting, when abridging, but invisible when translating” [9]. Con tali affermazioni, Klingberg sembra effettivamente condannare il traduttore al silenzio, sebbene consideri necessario palesare, ove possibile, al lettore le sensazioni e la conoscenza di un’esperienza straniera, di un incontro internazionale, dei quale la traduzione diventa la manifestazione oggettiva.

La posizione di Oittinen affonda, invece, le sue radici più intime, all’interno di un’intelligente rivalutazione dell’immagine stessa del bambino, contemporaneamente soggetto e oggetto di una possibile critica ermeneutica, alla stessa maniera di quanto accaduto a Zohar-Shavit, anch’essa notevolmente interessata alla comprensione della letteratura infantile: “not as an assemblage of elements existing in a vacuum but as an integral part of the literary polysystem” [10].

Proprio in proposito all’immagine del bambino, Oittinen scrive: “Child image is a very complex issue: on the one hand, it is something unique, based on each individual’s personal history; on the other hand, it is something collectivized in all society [11]”.

È in qualche maniera intorno alla questione della “manipolazione” che si muove anche lo studio di Zohar Shavit, del quale Oittinen risente con ogni probabilità, e che quest’ultima prende particolarmente in considerazione, specie in relazione alla comparazione delle due differenti versioni di CAPPUCCETTO ROSSO per mano di Perrault (nel 1697 con il titolo LE PETIT CHAPERON ROUGE) e dei fratelli Grimm (nel 1857 con il titolo RATKÄPPCHEN) condotta proprio dalla studiosa israeliana.

Uno degli snodi più interessanti dello studio di Shavit ruota, infatti, intorno al tentativo di contestualizzare il concetto di adaptation all’interno di un’analisi della traduzione che tenga conto della costante presenza di veri e propri taboos all’interno della narrativa per ragazzi, in funzione dei quali il traduttore opererà le scelte di maggiore importanza.

Ma facciamo un esempio. Shavit si è spesso addentrata nello studio dei taboos linguistici e di contenuto, presenti in numerosi testi, divenuti solo in seguito, in qualche modo child-oriented, ed è allo studio dell’opera di Swift, ad esempio, che dedica alcune riflessioni molto interessanti. Leggiamo:

“As an example, note the scene of Gulliver saving the place from the fire by urinating on it. In the original text, the scene of extinguishing the fire is used to advance the plot as well as to integrate satire into the story. The Lilliputians reveal their ingratitude by not thanking Gulliver for saving the palace. On the contrary, they blame him for breaking the law of the kingdom and later use it as an excuse for sending him away. The whole scene is clearly used in order to realize the arbitrariness of the laws and the ingratitude of the people. However, most translations could neither cope with Gulliver extinguishing the fire by urinating on it (an acceptable scenario in a children’s book) nor with the satire of the kingdom and its laws” [12].

Shavit continua, poi, l’analisi dell’episodio dell’urina, facendo menzione di alcune tra le scelte alternative all’intera soppressione della scena, che hanno visto una ben più tradizionale acqua o un grosso soffio di fiato sostituire la certamente più divertente urina di Gulliver.

Qualcosa rischia, quindi, di “perdersi” lungo la strada, in favore di un mantenimento d’integrità del plot che non sempre coincide con quello che potremmo definire d’“integralità”. La condizione illustrata dalla studiosa israeliana ben si inserisce nella sempre più intricata questione della censura, o meglio ancora di quello che Judith Saltman in un articolo del 1998 definiva: “censoring the imagination” [13], e Oittinen invece: “censoring children’s experience of literature” [14].

Seppure in ognuno degli studi da noi sopracitati (tanto in quello di Klingberg e ancor più in quelli di Shavit e Oittinen) la tematica strettamente connessa al taboo sia ampiamente presa in analisi, è altresì necessario constatare il moderno mutamento di standards di riferimento in relazione ad ogni tradizione fiabesca. I comuni episodi di sesso, violenza, defecazione, orinazione, cattive maniere e così via, hanno lasciato ormai spazio a nuovi scenari. Un esempio tra tutti, la recentissima pubblicazione di MY BEAUTIFUL MOMMY, del Dr. Michael Salzhauer, chirurgo plastico americano che ha fatto della chirurgia estetica il nuovo terreno di un’avventura, in qualche modo, fantastica, distribuita e indirizzata specificamente a quelli che in America sono ormai definiti botox-babies e freeze-face generation [15], ovvero un’intera generazione di minorenni o di appena ventenni, schiavi di collagene e dermoabrasioni.

È evidente, quindi, come ogni moderno débat inerente i rapporti tra censura, adattamento, manipolazione, ricomposizione e traduzione non possa pretendere di muoversi lungo ottiche binarie e tassonomie prestabilite; partecipa, al contrario, di una dimensione dialogica, fortunatamente destinata a non avere mai fine, e sintomo di un fascino “babelico” per il diverso, il lontano, o semplicemente per quello che Antoine Berman definisce: “the experience of the foreign” [16].


NOTE

[1] Cfr. G. Mounin, TRADUCTIONS ET TRADUCTEURS, trad. di S. Morganti, TEORIA E STORIA DELLA TRADUZIONE, Torino, Einaudi, 1965, p.152.

[2] Ibidem, p. 150.

[3] Cfr. J. Williams e A. Chesterman, THE MAP: A BEGINNER’S GUIDE TO DOING RESEARCH IN TRANSLATION STUDIEs, Manchester-Northampton, St. Jerome Publishing, 2002, p.12.

[4] Ibidem, p. 44

[5] Cfr. S. Bassnett, TRANSLATIOPN STUDIES, TROVARE BIB, pp. 10-11.

[6] Cfr. I. Hegedus, TRANSLATING FANTASY AND SCIENCE FICTION: THE PEAK OF CREATIVITY, 2004. L’articolo è consultabile online all’URL: http://www.sfcrowsnest.co.uk/sfnews2/04_oct/news1004_3.shtml

[7] Per ogni riferimento al concetto di cultural context adaptation, si veda, G. Klingberg, CHILDREN’S FICTION IN THE HANDS OF THE TRANSLATORS, Malmö, Liber/Gleerup, 1986.

[8] Cfr. R. Oittinen, TRANSLATING FOR CHILDREN, New York & London, Garland Publishing, 2000.

[9] Ibidem, p. 97.

[10] Cfr. Z. Shavit, TRANSLATION OF CHILDREN’S LITERATURE, in POETICS OF CHILDREN’S LITERATURE, Athens and London, The University of Georgia Press, 1986, p. 112.

[11] Cfr. R. Oittinen, TRANSLATING FOR CHILDREN, cit., p. 4.

[12] Cfr. Z. Shavit, POETICS OF CHILDREN’S LITERATURE, cit., pp. 121-122.

[13] Cfr. J. Saltman, CENSORING THE IMAGINATION, in “Emergency Librarian”, 25, 1998, pp. 8-12.

[14 Cfr. R. Oittinen, cit., p. 93.

[15] La recente distribuzione di MY BEAUTIFUL MOMMY, Savannah, Big Tent Books, 2008, è attualmente oggetto di numerose polemiche, legate all’eccessiva spettacolarizzazione e promozione dell’interventistica plastica messa in relazione all’avventura fantastica.

[16] Cfr. A. Berman, THE EXPERIENCE OF THE FOREIGN: CULTURE AND TRANSLATION IN ROMANTIC GERMANY, Albany, SUNY Press, 1992.

23/10/08

Lucetta Frisa, PASSEGGIATA


[Courtyard in Genoa. Foto di Marzia Poerio]


Genova-Quarto, primavera 2004


Un po’ agitato il mare. Traffico sulla strada.
Suoni immagini odori
vorrei metterli in fila come a scriverli.
Mi guardo in giro. Sono in vacanza.
Siedo su una panchina.

Che ci sto a fare qui?
Mi alzo e costeggio il mare.
Le passeggiate sono preghiere
sospiri e passi ruotano intorno a casa
e all’orizzonte.
In every life, there’s a moment or two.
In every life, a room somewhere, by the sea or
in the mountains...
That room must still exist, on the fourth floor
with the small balcony overlooking the ocean...

C’è troppa luce a quest’ora
la tramontana mi rabbrividisce
e chiudo gli occhi:
il tempio di Paestum
il vento brucia il viso tormenta il trigemino -
- maschera di dolore scoperto -
cosa volevo nascondere cosa c’era
tra quella polvere di luce?
Così si moriva senza pronunciare i nomi degli dèi
vinti da fitte terribili e poi -
il tuffo.

Riposo l’occhio sul marciapiede.
Le linee grigie vanno verso il nero
il nero ripassa sopra il grigio.
L’hanno rifatto da poco
sembra carta da pacchi, liscia.
Nessuna ispirazione:
solo facce livide su questo schermo basso.
Recito la Malinconia in un paesaggio di pietra.
Il vuoto tra stomaco e testa
devo riempirlo con qualche bel pensiero non umano
se io adesso sono
quello che non c’è più.
L’infinito dov’è? -
pare ci sia solo il finito.
Il cervello si è inventato tutto.

Un piccione traballante traversa il mio inferno.
Il suo occhio rosso vede il futuro
saetta parziale non distratta dallo spazio.

Io non lascerò a nessuno il mio dna.

Che ci sto a fare qui?
Riordinerò la casa e i miei minuti
seguendo il consiglio dell’amico Nanni
scriverò ogni poesia come fosse l’ultima
il est temps que chacun se souvienne
d’une autre histoire que la sienne
la mémoire s’en va comme le sang
à quoi bon ce que l’on a su

perché non hanno senso le emozioni
mai l’hanno avuto
se non la prima volta per chi nasce.
Pazienza occorre pazienza
entra nei pori mentre respiro a lenti passi
mi ossigena piedi e cervello la pazienza -
è la misura giusta?
Il piccione non mi guarda: nella rètina
tiene il suo mondo perfetto che gli basta.
Ma la sua luce è diversa dalla mia?

Stanotte l’uccello che girava
gridando tutta notte attorno a casa
chi l’ha udito? E a noi
chi ci ascolta lo sappiamo
se dentro il labirinto c’è un passaggio?
A Siracusa
si grida nell’orecchio di Dionisio
lui risponde - le sue spie ci conoscono -
con la parola giusta per ognuno
e noi contenti si ritorna a casa
dis-moi qui
me dira ce qu’il faut faire
de toute cette vie réduite à une fois

se scrivo
è per rimanere senza urlare
se nulla scuote nulla
questa terra
la sognerò sottoterra.

La mia passeggiata com’è tranquilla
vicino al mare tranquillo il mio respiro
la mia coscienza tranquilla e infelice.
Saluto i conoscenti con la mano.
Ciao. Che stai facendo qui
ammazzo il tempo
con le frasi pensate
da una panchina
da una strada
da una casa.
La compagnia è il loro ingenuo segreto
l’image
qu’est-ce que l’image
quand la vie
vient sur nous
et plus rien
que son pas
de passante
pressée
ce que je dis
est une larme…

Se questa passeggiata torna a capo
e nell’acqua marina vedo
una sagoma che mi somiglia
sono dentro una sfera il mondo
è una rotonda lacrima uno specchio
concavo dappertutto e non c’è scampo.
Pour voir devant
le voir se retirer
mais le regard
est l’eau
où le monde
se noie
et
nous
avons
soif
dans la lumière

Ora con chi sto camminando? con mia madre
e tutti i morti amati e i vivi
così lontani
con i ricordi di chi cammina
e di chi ha già camminato possedendo
il respiro perdendolo a ogni passo.
I wanted to stay as I was
still as the world is never still,
not in midsummer but the moment before
the first flower forms, the moment
nothing is as yet past...
before the appearance of the gift,
before possession

Ecco, lo sapevo, l’agave è già fiorita.
Tra vita e morte appare
un mezzogiorno luccicante
che quasi cancella il mare e gli annegati.

Torno a sedermi sulla panchina:
un ragazzo, il cellulare, due donne litigano.
Mi nascondo nel buio degli occhiali:
c’è chi si ferma e guarda il mare in controluce.
Ma ecco un cane e il mio polso ha una fitta -
cosa unisce due creature a sangue caldo?
una vena intenerita?
Tout à coup son enfance est à côté de lui
comme un petit chien
et la vieille envie de pleurer à cause
des questions sans réponse

Mi alzo e vado al bar: caffè ristretto
niente latte e una striscia di luce
sulle mie spalle e sulle bottiglie in fila
davanti a me e sul viso del barista
e di sua figlia dagli occhi cattivi
su quelli vuoti dei tossici delle vecchie sfatte
e sulla mia tazzina la stessa luce.
Riattraverso e mi affaccio.
Mi guarda un folle che si crede Dio
un ex capitano parla di certe ostriche
un nero con le borsette impreca e contratta
tre sudamericane ridono come galline.
Il mare mi piace di fronte.
La tua vita correva verso il mare mi hai detto
ti sei fermata sulla riva a guardarla.
El mòn és tot fora de mi:
els anys, l’atzar, la vida incerta;
i jo, sense mouré m de’acì,
com siel paper fos la finestra oberta,
esguardo,ascolto, sento es devenir
.
Anch’io non sono un’isola
nei confini dei versi separata
da acqua e terraferma
ma lentamente l’orizzonte intorno
riduce la vita a poco o la spalanca.
Fino a che punto la solitudine è nostra
o condivisa in un giorno di luce?
Today the air is clear of everything
it has no knowledge except of nothingness
and it flows over us without meanings,
as if none of us had ever been here before...

Eppure occhi e pensieri sanno unire
uomini e cose:
le emozioni alla spiaggia
le onde alle case dipinte.
Perderò tutto se li chiudo.
Ad occhi aperti se ne vanno le idee
intorno alle cose ma non le cose
forse si vedranno come sono
scontornate nella materia
si stanno già disfando senza di me.
Come varcare la riva
che separa il mare dal mare?
So che non siete altro da me
eppure tutto il mondo è me senza di me
ditemi che per tornare c’è la strada:
The palm of the end of the mind,
beyond the last thought, rises
in the bronze decor,
a gold-feathered bird
sings in the palm, without human meaning,
without human feeling, a foreign song
Plus de présence exacte d’identité
le premier état de l’oubli
Today the mind is not part of the weather

Vado a spasso
padrona solo di queste ossa che mi diedero
padre e madre e neppure le parole e i pensieri sono miei.
Chi sono io quando cammino?
Chi sono io quando taccio o dormo?
For me, always
the delight is the surprise

Trovarmi viva al mattino e al pomeriggio
viva alla sera e alla notte
è la sorpresa degli occhi
quando si guardano in giro.
Genova mia di sasso. Iride. Aria.
Parfois
pétrifié par le mystère
parfois pareil à lui
plein d’une transparente
poussière
parfois
personne
La passeggiata che torna era riuscita
alle spalle di noi
morta la luce
s‘era messa una foglia sola a tremare
a che vento non so
solo una vita

Ma quando si invecchia, si è pesanti o leggeri?
Tante anime bussano alla porta
la precedenza alla più giovane
la più stupita quando piove o legge
quella che ride.
Un temperamento forse assurdo fu
sempre di me a farsi meraviglia
del mondo, del suo strepito, del nulla

E io adesso in cosa credo? Agli angeli no. Solo
a dei ritmi ventosi, dei ritmi…

Devo tornare a casa per fermare queste parole.

21/10/08

Augustus Young, THE MUSICAL EROTIC: KIERKEGAARD AT THE OPERA

[The author of this article has recently written THE SECRET GLOSS. A FILM PLAY ON THE LIFE AND WORK OF SOREN KIERKEGAARD, published by Elliott & Thompson]


‘After which they all go quietly home - having spent a very pleasant evening’. (Kierkegaard, EITHER/OR)

Soren Kierkegaard went to the opera on most evenings. He never sat through a complete performance, not wanting to be considered a serious person. The repertoire in Copenhagen at the time was Cimarosa, Cherubino, Cavalli, Bellini, and Balfe. He chose a different act to attend each night of the week. So over the years he would get through the lot. He toyed with the idea of putting together a generic opera ‘in five and half acts’ from the titbits in his head.

Opera for him was a table d’hôte. You nibble an aria, half listening to the recitatives of the audience. Serio on stage was buffa in the boxes: hysterical sopranos competing with tipsy men-about-town, bosoms wobbling on the high notes, wineglasses thrown on stage. There was one glorious exception, Mozart’s DON GIOVANNI. Even the gods sang along with it. Soren dined on the DON in a box with the curtains drawn. The crooked smoke of his cigar wafted in the air during the interval, the only sign of life. He sat through the entire performance, with his eyes closed. Mozart’s score for him was the banquet, and Da Ponte’s libretto the crumbs under the table. The frippery of costumed staging and plot was for others (‘the mere external essence’). What was happening was the music, which had an existence all of its own.

In Kierkegaard’s first great work, EITHER/OR (1843), a collage of fictional diaries, one act plays, shadowgraphs and psycho-philosophical parodies, he called the existential element in music ‘the immediate erotic’. In the style of a comic Hegel, he described Mozart’s musical erotic, dialectically: yearning - Elvira’s day dreaming; seeking - Zerlina’s flirting; and desiring - the Don’s insatiable dreich. His posthumous published diaries reveal how personally he took DON GIOVANNI. In his own life he never got beyond the second stage. He had no confidence in his body and regarded others as beyond possession. This sense of ‘melancholy impotence’ made him break off his engagement to Regine (‘the only woman that would have me’).

The voice of Mozart in the opera, the lyric tenor, Don Octavio, speaks to and for him. His IL MIO TESORO is a wave to Regine. Octavio’s manly promise to avenge the violation of his fiancée, Donna Anna, by the base baritone, Don Giovanni (‘in pochi istanti vendicarvi prometto’) is neutered by the wispy bel canto. The tender waverings of Octavio echoe his, offering Regine, perhaps, some consolation (‘What a lucky escape!’).

Soren didn’t feel good about leading a nice girl up the garden path. His failure as a man wasn’t her fault. She was his original yearner, who never quite reached the third stage, desiring. On the threshold of it, he jilted her because he knew he couldn’t make her happy. As a decent human being ‘in a small way’, he had done his best to warn her against himself and, when that failed, to put her off by making a show of indifference when they met so that she wouldn’t be tempted to come running back. Nevertheless, he was haunted by Don Octavio/ Mozart’s ‘io vo’ con lei’. He craved to follow his Donna Anna through life, sharing her sorrow. Together they could live with her violation. Soren banished the thought as contradictory, and unfair to Regine. She was no dramatic soprano. Instead, faute de mieux, he encouraged a worthy suitor to marry her, and got on with thinking of what had happened and what might have been.

His rejection of the immediateerotic could be said to be musical. When Bishop Mynster, Denmark’s foremost divine, dismissed music as ‘inarticulate noises’, and presbyterians condemned church organs as ‘the devil’s bagpipes’, he began to have second thoughts about Christianity, and the failure of his own, as filtered through his doom-laden father. Faced by the musical erotic that Regine offered he found himself in a state of dread twisted by irony, tone deaf to the joys of life he could so relish in his mind and writings.

Though he reproved Emmanuel Kant ‘for not making clear that the duty of human understanding is to understand that there are things which cannot be understood’, he never gave up investigating his failure, and Regine endured the intrusive penetration of his ratiocinations which, though published anonymously, were widely known as Soren’s (Copenhagen was a small town). It was a conceptual violation, of sorts, he knew. But as his raison d’être was to write up the experiment that was his life, there wasn’t much he could do about it. Either/or, Regine came to embody for him an idea that he wasn’t able to live with, or without, the ‘existential sensual’ which wasn’t for him.

Don Giovanni was the incarnation of the immediateor musical erotic for him. Octavio / Mozart was its antithesis. Mozart’s pathological jealousy of his sprightly wife, Constance (surely Zerlina, the soubrettein the opera), meant he saw Don Giovannis everywhere, and felt helpless. Underscoring the musical erotic are the strains of ‘melancholy impotence’. The motif is not exclusive to Octavio / Mozart. An ineffable sadness touches all the male characters, even Leporello, Don Giovanni’s servant and Fool (the women are simply angry, except Zerlina, who is enjoying every moment).

In the ‘The Diary of the Seducer’ (Either/Or), Kierkegaard, to get under the skin of Don Giovanni, tells himself a fable.

‘There once was a primordial paradise on a mountain called Venus, where wild pleasures could be experienced in their natural state. Dance rather than language was its music. There was no place for reflection. You didn’t think twice before you leaped. This is where Don Giovanni was born, and grew up at home with his sensuality. He existed for it. That is, until Christianity came, and the flesh lost its independence. Mind over body imperatives brought hesitation into the paradise of the existential sensual. The delights of the flesh were invaded by the snake of doubt and dread’.

And so began the descent into the three stages of the musical erotic, and all hell opening.

Stage 1: Yearning. Desire without object. Reveries, sentiments. No fear and trembling in them. You sleep in the beauty of it. Nothing can wake you up, least of all a kiss. In Soren’s daydream, he sleepwalked behind ‘The March of the Leprechaun’ (The Brothers Grimm had not yet stolen the march for their Pied Piper). The leprechaun bewitched children into following him and turned them into changelings. Being a bit of a changeling himself, Soren would have been drawn to the Irish legend. His father was inclined to be whimsical about who his real mother was. Though the facts are clear. The maidservant stood in for his wife, the vessel of virtue who died long before Soren was born.

Stage 2: Seekeing. Desire begins to focus. Yet its object is too generalised to be desired (‘Desire has its absolute in the particular, desiring the particular absolutely’). Don Giovanni comes down from Mount Venus as a gentleman caller. The step quickens but not sufficiently to dance. Walks with the musical erotic are chaperoned. The search has the formal grace of a medieval romance. Courtship, chivalry and dulcet tones. It ought to end happily.

Kierkegaard’s pursuit of Regine never got past this stage. Although he wrote continuously throughout his life about their courtship, he never compromised Regine by revealing more than essential details (her touchingly bad piano-playing), and his own existential ruminations. Yet in his diary he did let drop that when she showed signs of needing more than an arm, he didn’t let the situation get out of hand. But in a note he slyly blurs the picture. ‘After my death, no one will find amongst my papers a single explanation as to what really happened (this is my consolation). No one will find the words which explain everything, and which often made what the world would call a bagatelle into an event of tremendous importance to me, and what I look on as something insignificant when I take away the secret gloss which explains all.’

Stage 3. Desiring. Kierkegaard said ‘Don Giovanni had the great art, or rather the gift, of desiring’. The Don takes his bow and leads the dance. His figures of eight make others want to join in - his seductions are the awakening of latent desire. But the erotic is not as it was on Mount Venus. The act of possession has lost its immediacy, is no longer an unambiguous embrace between two consenting dance lovers. Now the individual ‘dancer’ is responsible to social expectations, rather than to the partner. The Don is seen to be claiming his droit de seigneur over Zerlina. But his only sexual act in the opera is an attempted rape of Donna Anna, a social equal. He is revolting against being made into a ‘representative person’. Who wants to be a star, a proxy for others, when you’re a demi-god?

Once Don Giovanni shows his mortal side, everybody turns on him, most surprisingly his servant. A posse is formed - Donna Anna, Elvira, Leporello, Zerlina, and her young man, Masetto. The quintet’s hired killer is the basso profundo, the Donna’s father’s ghost, the Stone Statue. Nobody is himself or herself anymore - all sing from the same hymn-sheet. Only the Don, the carrier of the dying flame of the musical erotic, is a person in his own right. But the music has lost its beat, and the Don’s dance staggers to a conclusion. And he invites his nemesis, the Stone Statue, to supper. As the Corsican trap opens under him, the Don goes willingly into the flames wanting, no doubt, to return to his former state. ‘Ah!’ he cries, triumphantly. (‘Ah!’, groans Leporello. He’s out of a job).

Mozart’s score contradicts the pious sentiments of the quintet. This is not damnation for fleshly excesses. Rather it affirms the purification and renewal, by fire, of the ‘existential sensual’. And, indeed. the musical erotic is not dead. Zerlina drags Masetto home - a cenar in compagnia - for a pleasant evening together.

19/10/08

Paul Auster, MAN IN THE DARK


[Quadro 12. Immagine inviata dalla pittrice Laura Ford]


Paul Auster, MAN IN THE DARK. Londra, Faber and Faber, 2008

La narrazione in prima persona è svolta da August Brill, avvolto in un complesso lutto interiore per la morte della moglie Sonia e costretto all'immobilità temporanea a causa di un incidente. Brill compie la convalescenza a casa della figlia Miriam, divorziata. Sotto lo stesso tetto vive la figlia di Miriam, Katya, il cui fidanzato è stato ucciso nella guerra in Irak (vi si era recato dopo la rottura con la medesima Katya, da cui il senso di colpa di lei).

Per ingannare la noia, ma soprattutto per non pensare alla propria ferita interiore, Brill si narra mentalmente una storia che ha per protagonista Owen Brick, soldato in una realtà parallela alla nostra, in cui negli Stati Uniti si svolge una guerra civile provocata dall'elezione di Bush nel 2.000. Non si insite sullo sviluppo di questo racconto nel racconto per necessità, essendo il romanzo uscito da poco, di non anticipare il finale: gran parte della suspence è riposta nella storia dell'universo parallelo, che, si dirà qui soltanto, si ricongiunge a quello da noi vissuto con modalità pirandelliane.

Il pessimismo politico ed esistenziale di MAN IN THE DARK sembra completo: l'attualità americana è sconvolta dalla Guerra del Golfo, rappresentata attraverso i sentimenti di due ragazzi presi loro malgrado in un vortice; mentre l'allegoria costituita dalla parte metanarrativa è una divisione interna agli gli Stati Uniti, quasi a dire che la nazione ha perso il proprio scopo unitario nel periodo storico che ha visto emergere le problematiche del terrorismo, delle politiche di Bush e della difficoltà di vivere nella normalità giorno dopo giorno. Si tratta insomma di un romanzo impegnato, come si diceva una volta; l'autore stesso, parlandone in un'intervista, dichiara di ritenere concluso il dominio della destra conservatrice americana; e la denuncia delle ideologie di destra è da ritenersi uno dei messaggi del libro [1].

Sebbene l'aspetto politico sia chiaro, si evita il registro saggistico: gli assunti sociostorici vengono collegati alle crisi del privato dei personaggi e al loro destino (un aspetto, questo del fato, spesso presente in Auster); ed entrano nel dipanarsi dell'intreccio attraverso i moduli di conversazione con cui la storia procede. I dialoghi, com'è comune nello scrittore americano, sono scritti senza virgolette, per cui si hanno flussi di discorso diretto/indiretto con una moltiplicazione delle voci che si incamerano nel corpo del racconto. L'autore scompare dietro un narratore che ne è però un alter ego per quanto riguarda le funzioni (non la personalità): Brill è infatti un critico letterario; richiama al campo della creazione l'occupazione di Katya, che studia cinematografia; infine Miryam è autrice di un saggio. Questi tre personaggi, oltre che portatori di valori etici e di valenze psicologiche, sono dunque cerniere tra l'universo dell'immaginazione e quello della realtà. È quasi un peccato che Brick e la dimensione fantascientifica ricadano nella realtà secondaria del rapporto tra l'autore e la propria creazione invece di restare un'esperienza primaria autonoma..., ma ciò ha uno scopo che chi leggerà noterà.


NOTE

[1] Cfr. Intervista con A. Griffin


[Roberto Bertoni]

17/10/08

Bharat Sha, DEVDAS

Musica di Ismail Darbar e Nusrat Badr. Con Madhuri Dixit, Sharhuk Khan, Aishwarya Rai

Pensando a questa storia fondata su un romanzo noto di Sarat Chandra Chatterjee (o Chattopadhyay) e spesso apparsa in versioni diverse sugli schermi indiani (da ricordarsi soprattutto quella di Bimaly Roy, 1955), la sua fama non ci si stupisce considerando che si appella ai sentimenti: si tratta infatti di una versione dell'archetipo dell’amore ferito, nella fattispecie con un protagonista, Devdas, che tutta la vita si arrovella sul suo errore dopo essere fuggito sia dalla famiglia che dall’amata Paro in quanto la prima non gli permetteva di sposare una donna di condizione sociale inferiore e la seconda, anche lei spinta dalla famiglia, per ripicca e delusione dopo gli undici anni trascorsi ad attenderlo quando lui studiava all’estero, si è sposata con un ricco che la trascura perché avvolto nel ricordo della prima moglie di cui è vedovo.

La delusione di Paro è che Devdas non abbia combattuto subito contro il pregiudizio prendendola in sposa a dispetto di tutto. La condanna di Devdas è al rimpianto perenne, nonostante una danzatrice, Chandramukhi si innamori di lui, gli offra riparo, lo accudisca nell’alienazione da alcool in cui è precipitato. Incapace di ricambiare questo amore, Devdas infligge sull’amante la propria pena, riamandola solo dopo anni e per breve tempo: l’etilismo lo riafferra, muore sulla soglia della casa signorile di Paro impedita di dargli soccorso e il saluto estremo dal marito accortosi che Paro era riuscita ad individuare Chandramukhi, farsela amica, confortare Devdas con un’amicizia platonica.

Se nel romanzo prevalevano le motivazioni sociali della differenza di ceto e della condizione femminile, con messa in rilievo dei pregiudizi che impediscono a Devdas e Paro di pervenire a un lieto fine, la versione cinematografica del 2002 è sontuosa nella ricostruzione di interni, nei costumi, nei balli: di coreografia kathak modernizzata quelli basati sulla canzone SILSILA YE CHAAHAT KA, interpretata da Shreya Ghoshal, e MAAR DALA, cantata da Klavita Krishnamurthy; accattivanti i motivi BAIRI PIYA, anch’esso cantato da Ghoshal, e DOLA RE DOLA (quest’ultimo con danza di derivazione del Punjab attualizzata con orchestrazione e movimenti contemporanei, nell’interpretazione di Ghoshal, Krishnamurthy e Kay Kay).

Il colore dei costumi con dominio del giallo, del verde e del rosso; le case dagli ampi corridoi e vestiboli; la quantità delle comparse; la vitalità della recitazione muovono questa pellicola in direzione dello spettacolo e consentono forse soprattutto per questo la resistenza tardomoderna dell’assunto narrato, che è quello dell’amore contrastato e irrealizzato, della delusione per la rottura della lealtà, del pentimento.

A una prima riflessione, DEVDAS 2002 ci era sembrato eccessivo, forse troppo melodrammatico, ma isolando le parti cantate, osservando su U-tube da vicino i volti, le inquadrature, le mosse, lo abbiamo riscattato e pensiamo adesso che meriti almeno alcuni dei 21 (!) premi ottenuti.

[Reanto Persòli]

15/10/08

Ivano Mugnaini, GLI OCCHI DEL BUIO


[Infrared view of eye at night. Foto di MarziaPoerio]


La luce rovina la carta. La fa scurire. La offusca.

Non è paradosso quindi, non è follia, leggere CUORE DI TENEBRA al buio. Sfogliare le pagine con dita frementi, come un bambino che divora, sotto le coperte, le parole di un’orrida fiaba. Sfogliare le pagine per scoprire cosa e dove è la tenebra. Non è follia. O, se lo è, ne ho sete e fame. È qui che sono giunto. A questa desolata terra di nessuno mi ha condotto la strada. Leggere al buio l’incubo in forma di metafora di Joseph Conrad. Per mantenere un minimo di luce, di contrasto. Il bianco, il nero, la distinzione, lo scarto. Scacchiera di una partita senza inizio né fine. Difendiamoci. Salviamo il re e la regina, sacrifichiamo i pedoni. Difendiamoci. Da noi stessi. Visto che nessuno ci aiuta. Se davvero è così.

Leggere ed ascoltare, ad occhi e orecchi spalancati, senza riuscire a smettere un solo istante, il vicino di casa. I rumori, i silenzi, gli assalti al mio corpo, reale, di carne e paure. Non l’ho mai visto. Non so se è bianco, nero, rosso, alto o basso, grasso o magro, se ha uno sguardo astuto o innocente. C’è, in questa casa dalle finestre sbarrate, la certezza della civilizzazione: il microonde, la radio-sveglia, il computer. La pazienza, santificata, esaltata in mille ore di lezioni. Già. Ma lui è là. Non si ferma. Mi scruta, logora come un sarcastico dentista. Tenace come un morso, un conato di vomito senza sbocco, senza la gioia di un respiro ampio e pulito.

Ho provato a scrivere, a dare misura alla corsa affannata della mente. Le parole però sono scure, selvagge. Ti scagliano contro frecce al curaro dal fitto della boscaglia. Sono nere, le parole. Anche se fingi che l’inchiostro sia azzurro. Chiare e certe sono solo le ipotesi, le scommesse. Il resto oscilla nell’aria impalpabile.

È là fuori. Avido senza audacia e crudele senza coraggio. Là, nei suoi territori, dentro le sue fortificazioni. Incrollabile nell’etica del lavoro di demolizione. Strappa da me l’avorio della gioia, lo accumula per pura ingordigia, senza altro scopo né funzione. Forse vuole sentirsi un dio. Lo tiene vivo tuttavia la più umana e misera delle condizioni: la meschinità dell’orgoglio.

Dovrei dialogare con lui. So che è questo che desidera. Il senso del mio viaggio in fondo è questo. Salvare lui per salvare me. Ma resto inchiodato qui, avvinto da una trama che non varia, priva di eventi come un fiume limaccioso. Neppure le frecciate degli indigeni che continuano a sibilare ad un palmo dalle tempie sembrano vere. Solo il tragitto esiste. Il moto, reale o apparente che sia.

Kurtz è un uomo notevole. Me lo hanno detto e confermato fino alla nausea. Certo. Tutti lo siamo. Ma notevoli per chi? Quali occhi, quale logica? Du calme, du calme. Adieu. È questo l’accorato lasciapassare dei saggi e dei dottori. E il mio viaggio può riprendere. Atto alla missione, abile arruolato, pronto a muovere verso un continente ancora da esplorare.

Devo prendere il suo posto. Sostituire Kurtz in tutto e per tutto, diventare il suo perfetto alter-ego. Il solo orrore di cui sono certo, ora, è questo: somigliargli. Arrivare ad essere identico a lui. C’è un fascino nell’abominio. Ancora più forte però è il desiderio di fuggire lontano.

“Non voglio rassegnarmi ad essere cattivo/ tu sola puoi salvarmi/ tu sola e te lo scrivo”. Borbotto questi brandelli di note tra riso e tensione. Anche una canzone può servire, adesso. Se solo sapessi a chi dedicarla. Io, Cyrano scalcagnato che non può vantarsi neppure di essere cadetto di Guascogna, cerco una musa, un’ispiratrice. Una Rossana ideale: la verità, la speranza, l’amore magari.

Lui è già fidanzato. Ha trovato qualcuno che lo accetta com’è. Anch’io, come Marlow, mentirei alla sua fidanzata se mi chiedesse di parlarle del suo amore. Inventerei una menzogna qualunque. Più benevola, in fondo, dei denti acuminati della realtà. Kurtz è la solitudine, affermano. Ed è la solitudine che lo ha ridotto così. No. Lui è l’orrore che sconfina nel mio.

Bussa alla porta. Agli stipiti di questa sera quieta e terrificante. È gelido l’appartamento, il marmo delle scale, il fruscio e il battere dei passi. Odori crudi, carne putrefatta. Persino i profumi più familiari, il caffè, le verdure, il dopobarba, trasudano linfa di morte.

Vuole che io parli. Che dia fiato e respiro al mio orrore per lui. Che gridi il mio odio, nutrendolo, dandogli corpo. Per lui io sono il nemico. Vorrebbe che esclamassi lo stesso con identica chiarezza. Non ci riesco. Io, per salvarmi, continuo ad adorare la verità del mio silenzio. L’illusione, assurda e vitale, di non averlo mai visto né sentito.

Nego. Resto sordo e cieco. Anche al suo urlo e al coltello che avanza nel buio. La lama poggiata sulle vene del collo.

La bugia più grande? Dire che Kurtz non esiste. O che esiste. Che differenza fa? Niente ha sostanza e dimensione nella tenebra assoluta. Niente. E il contrario di niente.

“Che ne è della menzogna?” - si chiedeva il mio amico James Clifford. La domanda rimane, persiste. Anch’io, come Marlow, all’inizio ho provato repulsione per la bugia, ed ora, alla fine di tutto, mi ritrovo a mentire per evitare la catastrofe. O a riflettere, come Clifford, sul fascino esile e letale di un’affermazione: I frutti puri impazziscono.

Forse è poesia, forse logica, forse niente. Il rebus è senza soluzione, resta oscuro il punto cardine, il cuore della questione: se il puro sia io oppure lui. Se è vero che la pazzia è la sua essenza esclusiva, allora, di conseguenza, lo è anche la purezza. Perlomeno la purezza putrida, l’integrità della follia. A me, adesso, rimane il sangue sulle vene del collo, ancora caldo, ancora vivo. E un pensiero, l’idea di sempre: “siamo esclusi dalla comprensione di ciò che abbiamo intorno. Il significato non è all’interno. È fuori. Un alone di foschia reso visibile a tratti da riflessi spettrali”.

La verità interiore è nascosta.

Per fortuna. Per fortuna.

13/10/08

C.G. Jung, CONSIDERAZIONI GENERALI SULLA PSICOLOGIA DEL SOGNO


["I dreamt I was a shadow on the railway track". Foto di Marzia Poerio]


C.G. Jung, CONSIDERAZIONI GENERALI SULLA PSICOLOGIA DEL SOGNO. Prima formulazione 1916, rivisto nel 1928 e in versione definitiva nel 1948, infine in DIE DYAMIK DES UNBEWUSSTEN (1967). Trad. it. in OPERE, vol. 8: LA DINAMICA DELL’INCONSCIO (1976), Torino, Bollati Boringhieri, 2004

In consonanza con Maeder e Silberer, per Jung il sogno è “una rappresentazione simbolica di un contenuto inconscio” (p. 282); “trasmette […] in linguaggio metaforico […] tendenze che, a causa della rimozione o per semplice ignoranza, erano inconsce”(p. 267).

C'è una presa di distanza dalla lettura freudiana del soddisfacimento del desiderio e della rappresentazione sotto altre spoglie di simbologie sessuali, interpretazioni che, valide in alcuni casi, paiono a Jung limitate se intese come chiave generale.

A parere dell’analista svizzero, una duplice angolazione, causale e finalistica, va adottata nella spiegazione di ogni fenomeno psicologico. Nel caso del materiale onirico, la delucidazione causale è solo parziale, mentre quella finalistica sembra essere preferibile. Se l’interpretazione causale freudiana attribuisce significati univoci al simbolismo dei sogno, nella visione finalistica i significati sono multipli e variano a seconda dell’evoluzione del soggetto anche quando emergano materiali iconici ripetuti come gli archetipi.

I sogni finalisticamente hanno varie funzioni: in certi casi quella “compensatrice” di “bilanciamento psicologico” di quanto nella veglia è stato ignorato, poco considerato o inteso dalla parte consapevole tenendo poco conto dell’inconscio; in altri casi una “funzione prospettica” (p. 273), ovvero l’anticipazione di azioni future consce in forma ancora solo abbozzata e generico, quasi l’inconscio sapesse prima della consapevolezza quello che accadrà; talora una funzione “riduttiva” (p. 278), ovvero una compensazione in senso negativo; talaltra una funzione di “reazione” (ibidem) nel caso di traumi subiti come uno shock o un’esperienza di guerra; persino un aspetto in certi casi telepatico (p. 280).

Nel sogno, come in altri momenti della vita inconscia, si attuano “proiezioni”: “una persona che io percepisca principalmente attraverso la mia proiezione è una imago o un portatore di imago o di simbolo” (p. 283), talora derivata da proprietà dell’oggetto su cui si riversa la proiezione, talaltra da attributi del soggetto e parrebbe più frequente per Jung questo secondo caso. Infatti “ciò che non comprendiamo in noi, non lo comprendiamo neppure negli altri” (pp. 284-85). Anche le pulsioni negative verso gli altri sono di frequente dettate da ciò che è dentro di noi:

“Quando ci arrabbiamo per un qualche motivo fino a perdere la ragione, non vogliamo ammettere che la causa della nostra ira non è ‘fuori’, in quella tal cosa o persona che ci irrita. Così facendo, attribuiamo a quelle cose o persone il potere di gettarci in stato d’ira […]. Di conseguenza condanniamo sfacciatamente e sfrenatamente l’oggetto dello scandalo, ingiuriando così una parte inconscia ch’è in noi stessi, proiettata sull’oggetto irritante” (p. 289).

Socialmente, ciò si verifica con la proiezione delle paure su un nemico. Se fossimo in grado, nell’esistenza cosciente, di separare imago e oggetto, si arriverebbe a non avere “nessuno più da accusare, nessuno da rendere responsabile, da educare, migliorare e punire! In ogni cosa occorrerebbe invece cominciare da sé stessi, e le pretese che imponiamo agli altri dovrebbero essere rivolte solo ed esclusivamente a noi stessi” (p. 294). (Quest'idea è in consonanza con certe concezioni del Buddhismo).

Molto spesso “il sogno è teatro in cui chi sogna è scena, attore, suggeritore, regista, autore, pubblico e critico insieme […]: questa interpretazione concepisce tutte le figure del sogno come tratti personificati della personalità di chi sogna” (p. 285). Tuttavia, vale a volte l’interpretazione prevalentemente soggettiva e altre quella più oggettiva.

Se in altri scritti vengono elaborate le immagini oniriche degli archetipi e compiaono in varie analisi di sogni le figure dell’inconscio (Ombra, Ego, Animus, Anima) e il Sé, in questo saggio si rivela la visione complessa dell’universo onirico propria di Jung oltre al suo viaggio in avanti dopo Freud.


[Roberto Bertoni]

11/10/08

Nino Arrigo, IL FANCIULLO DIVINO


[Mythical and realistic childhoods. (From the strets of Genoa). Foto di Marzia Poerio]


Da Dioniso ed Edipo, passando per Gesù, fino alle più moderne “riscritture” e riattualizzazioni letterarie, il tema del fanciullo è, forse, uno dei più fertili della letteratura di tutti i tempi e di tutte le latitudini. Attraversa tanto gli angusti sentieri della cosiddetta “letteratura alta”, quanto le strade affollate della cosiddetta “low brow literature”. Un invisibile filo rosso sembra dunque unire la parabola dell’“eroe” - da Dioniso e Gesù sino a Superman -, sia esso “ridicolo o sublime, greco o barbaro, ebreo o gentile, il suo viaggio varia ben poco nelle linee essenziali” [1]. Come ci ricorda Kerényi:

“I mitologemi antichi dei fanciulli divini ci trasportano in un’atmosfera fiabesca. Ciò avviene in una maniera del tutto incomprensibile e irrazionale, bensì è il risultato di alcuni elementi fondamentali che in questi mitologemi continuamente si ripetono e si possono indicare chiaramente. Il fanciullo divino è per lo più un trovatello abbandonato. Egli corre spesso pericoli straordinari: di venir inghiottito come Zeus, di venir dilaniato come Dioniso […]. Il padre stesso è spesso il nemico, o egli è soltanto assente, come Zeus quando i titani dilaniano Dioniso. Un caso più raro si racconta nell’inno omerico a Pan. Il piccolo Pan viene abbandonato dalla madre e dalla nutrice, terrificate. Suo padre, Hermes, lo raccoglie e, avvolgendolo, in una pelle di coniglio, lo porta su all’Olimpo. Anche in questo caso stanno di fronte due sfere di destino: nell’una il fanciullo divino è un aborto abbandonato, nell’altra egli trova posto tra gli dei, a fianco di Zeus. La madre ha una parte singolare: essa è e non è allo stesso tempo [...]. Semele è già morta quando Dioniso viene alla luce...” [2].

E’ una lacerante ambivalenza a determinare il “doppio aspetto”, paradossale, “del fanciullo orfano e, nello stesso tempo, del figlio amato dagli dei. Lo stesso “doppio vincolo” [3] di colpa e innocenza che caratterizzerà l’archetipo dell’eroe Gesù. Proprio l’infanzia del protagonista dei Vangeli, sembra infatti offrirci uno straordinario esempio dell’archetipo del “fanciullo divino”:

“Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui. I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l’usanza; ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: ‘Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati ti cercavamo’. Ed egli rispose: ‘Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?’ Ma essi non compresero le sue parole” [4].

Siamo di fronte ad un tipico episodio di ribellismo adolescenziale, una vera e propria fuga dall’asfissiante dominio familiare. Anche il fanciullo Gesù, vale la pena ricordarlo, è un fanciullo orfano che, in ossequio al tema dell’“elezione”, tanto caro all’immaginario ebreo-giudaico (anche Mosè, lo ricordiamo, è un trovatello abbandonato, un fanciullo orfano), sente il richiamo del padre. Di quel Dio rivelatosi a Mosè sotto forma di un roveto ardente, quell’“io sono colui che sono” (il cui nome, ancora prima di essere Yahvè, sembra piuttosto rimandare a “tutti i nomi della storia” e a nessuno) che sembra evocare l’astratto “tutti nessuno” dell’Essere, del Linguaggio [5]. Persino le eccezionali doti di intelligenza sfoderate dal giovane Gesù sembrano rimandare all’archetipo dell’eroe fanciullo. Joseph Campbell ci ricorda, infatti, che l’infanzia “dell’eroe è ricca di aneddoti di forza, di intelligenza e di saggezza precoci” [6].

L’epilogo dell’avventura umana del fanciullo divino Gesù, sarà il Cristo agonizzante, la “vittima innocente” che dalla croce invocherà “Eli, Eli, lama sabactanì” (Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato), “come testimonianza della sorte di un orfano divino, al quale il soccorso paterno giungerà solo dopo la morte” [7].

A testimonianza del suo carattere immanente, l’archetipo sembra testimoniarci che l’essere “divino è una rivelazione dell’Essere onnipotente, che abita in ciascuno di noi” [8], della potenza desiderante dell’inconscio.

L’infanzia miracolosa, “dalla quale si vede che una manifestazione speciale del principio divino immanente si è incarnata nel mondo”, sembra abbracciare in un unico contenitore tanto il sublime biblico quanto l’ “osceno”, il “volgare”, il monstruum della letteratura di massa. Gli attributi prodigiosi del fanciullo Gesù saranno, infatti, del tutto simili - in piena modernità - a quelli del fanciullo orfano protagonista del mito di Superman [9]. Anche il celebre protagonista dei fumetti è, infatti, un fanciullo orfano. Come nota Umberto Eco, quella di Superman è una “immagine simbolica di particolare interesse. L’eroe fornito di poteri superiori a quelli dell’uomo comune è una costante dell’immaginazione popolare, da Ercole a Sigfrido, da Orlando a Pantagruel sino a Peter Pan” [10]. Ma non soltanto di quella popolare, come stiamo cercando di dimostrare. L’immaginazione non possiede, infatti, due compartimenti stagno, uno high brow e l’altro low brow, è assai più “democratica” di quanto possiamo immaginare.

Anche nel mito di Superman è attivo, dunque, il lavoro dell’archetipo, il lavoro dell’immaginazione che affonderebbe le sue radici nelle profondità dell’inconscio.

Il tema del fanciullo orfano è particolarmente produttivo nella letteratura americana.

I protagonisti di buona parte delle opere di Herman Melville sono, infatti, fanciulli orfani, trovatelli abbandonati: Ismaele, Bannadonna, Bartleby, Billy Budd:

“Sì, Billy Budd era un trovatello, presumibilmente un illegittimo ma evidentemente non di umile origine. La nobiltà di nascita era evidente in lui come in un purosangue (...) lo spirito che albergava in Billy e che si affacciava dai suoi occhi di cielo come da finestre, era quell’ineffabilità che creava fossette sulle sue guance colorite, rendeva docili le giunture e, danzando tra i riccioli biondi ne faceva per eccellenza il Bel marinaio” [11].

Non è un caso se l’appellativo affibbiatogli dal vecchio danese sarà Bimbo, nel testo originale Baby, sostantivo neutro che rimanderebbe alla sua indeterminatezza sessuale, ben esplicitata dalla descrizione della sua bellezza dai tratti efebici. L’indeterminatezza di Billy è, dunque, l’indeterminatezza dell’inconscio. Secondo Jung, infatti:

“Il ‘fanciullo’ esce dal grembo dell’inconscio, come sua creatura, generata dal fondo stesso della natura umana, o meglio, dalla natura viva in generale. Egli personifica le forze vitali di là dei limiti della coscienza, vie e possibilità di cui la coscienza, nella sua unilateralità, non ha sentore, e una totalità che abbraccia la profondità della natura” [12].

Possiamo scorgere, nell’ambiguità di Billy, la stessa ambiguità di Dioniso, “il dio ambiguo e androgino per eccellenza, rappresentato in genere come un adolescente nudo e femmineo, dai lunghi riccioli e dalla sensualità morbida” [13]. Alla luce di queste considerazioni il racconto melvilliano potrebbe costituire una sorta di antesignano del romanzo di Virginia Woolf, ORLANDO, romanzo culto del femminismo e dei cosiddetti queer studies [14].

A testimonianza della centralità del tema nella sua narrativa, anche nel racconto THE BELL TOWER Melville definirà il protagonista, Bannadonna, come “l’umile trovatello” [15].

Ma anche Anguilla, il protagonista di uno dei più celebri romanzi pavesiani - LA LUNA E I FALÒ - è orfano alla maniera dell’Ismaele melvilliano. Probabilmente per via dell’influenza, esercitata sull’apprendistato estetico dello scrittore piemontese (come ci dimostra puntualmente il “diario” pavesiano), dalla traduzione di MOBY DICK, come sembrerebbe scaturire da questo brano:

“Dov’è l’ultimo porto, donde non salperemo mai più? In quale etere estatico naviga il mondo, di cui i più stanchi non si stancano mai? Dov’è nascosto il padre del trovatello? Le nostre anime sono come quegli orfani, le cui ragazze-madri muoiono dandoli alla luce; il segreto della nostra genitura giace in quella tomba ed è là che dobbiamo conoscerlo” [16].

Ma anche in questo caso potrebbe trattarsi di un’analogia di carattere archetipico, a testimonianza del fatto che il tema dell’orfano fa spesso il paio, nella narrativa pavesiana, con quello del fanciullo. Sempre ne LA LUNA E I FALÒ, un particolare della descrizione del giovane Cinto, sembrerebbe addirittura rimandare - per via della propensione pavesiana all’allusione e alla dissimulazione nei testi di piccoli enigmi, rebus da decifrare - alla descrizione kerényiana del “fanciullo orfano”, che Pavese al tempo della stesura del romanzo aveva ben presente:

“Su una ruota stesa per terra era seduto un ragazzo, in camicino e calzoni strappati, una sola bretella, e teneva una gamba divaricata, scostata in un modo innaturale. Era un gioco quello? Mi guardò sotto il sole, aveva in mano una pelle di coniglio secca, e chiudeva le palpebre magre per guadagnar tempo” [17].

Anche su Cinto si allungherebbe, dunque, l’ombra del “fanciullo divino”. La madre muore, infatti, dandolo alla luce. Allo stesso modo del piccolo Pan che, abbandonato dalla madre e dalla nutrice, viene raccolto dal padre Hermes e avvolto in una pelle di coniglio [18], anche il giovane Cinto ha in mano, per l’appunto, una pelle di coniglio secca, probabile simbolo della sua condizione di orfano. Come nota Furio Jesi:

“Nelle grandi svolte della storia della cultura, e soprattutto negli istanti in cui la crisi del sentimento religioso si fa sintomo e annuncio del finire d’un ciclo, affiora dalle profondità della psiche l’immagine del fanciullo primordiale, dell’orfano. Ad essa sembra che l’animo umano affidi ciecamente le sue speranze, ed essa è sempre arbitra di metamorfosi” [19].

Considerata la massiccia influenza che l’immagine del fanciullo ha nella letteratura, nell’arte e, dunque, nella cultura, la continuità della storia dovrebbe pertanto risultare tutta fatta di svolte, di discontinuità.

L’inconscio stesso è infatti orfano “e produce se stesso nell’identità della natura e dell’uomo” [20]. E anche il cosmo “è nato orfano, non ha avuto né un Dio-Padre e neppure una Madre che lo abbia tenuto in un utero precosmico: è sorto da una flatulenza del vuoto primordiale, nato da un ignoto peto. E’ l’orfano sputato fuori dall’infinito, e proiettato nelle fratture di spazio e tempo” [21].

In ossequio al principio “ologrammatico” [22] che fa dell’individuale lo specchio dell’universale, della parte lo specchio del tutto e viceversa, all’insegna del principio di “circolarità ricorsiva” [23].


NOTE

[1] J. Campbell, L’EROE DAI MILLE VOLTI (1949), tr. it. Parma, Guanda, 2000, p. 40.

[2] C.G. Jung e K. Kerényi, PROLEGOMENI ALLO STUDIO SCIENTIFICO DELLA MITOLOGIA (1942), tr. it. Torino, Bollati Boringhieri 1994, p. 50.

[3] Il concetto psicologico di double bind - ripreso dalla psichiatria contemporanea, che farebbe dipendere la schizofrenia da relazioni comunicative collusive e paradossali nei contesti familiari - è stato per la prima volta elaborato da una equipe condotta da Gregory Bateson. Ha trovato largo uso anche presso l’antropologia “mimetica” di scuola girardiana.

[4] Luca 2, 40-50, tr. it. LA BIBBIA DI GERUSALEMME, cit., pp. 2100-01.

[5] Per la differenza tra il personaggio di Gesù e Yahvè si veda H. Bloom, GESÙ E JAHVÈ. LA FRATTURA ORIGINARIA TRA EBRAISMO E CRISTIANESIMO, Milano, Rizzoli, 2006.

[6] J. Campbell, L’EROE DAI MILLE VOLTI, cit., p. 287.

[7] F. Jesi, ORFANI E FANCIULLI DIVINI, in LETTERATURA E MITO, Torino, Einaudi, 1968 e 2002, p. 12.

[8] J. Campbell, cit., p. 281.

[9] Cfr. U. Eco, APOCALITTICI E INTEGRATI. COMUNICAZIONI DI MASSA E TEORIE DELLA CULTURA DI MASSA (1964), Milano, Bompiani, 2003, pp. 219-61.

[10] Ibidem, pp. 226-27.

[11] H. Melville, BILLY BUDD, MARINAIO, tr. it. in TUTTE LE OPERE NARRATIVE DI HERMAN MELVILLE Milano, Mursia, 1991, pp. 13 e 37.

[12]C.G. Jung e K. Kerényi, PROLEGOMENI ALLO STUDIO SCIENTIFICO DELLA MITOLOGIA, cit., p. 135.

[13] M. Fusillo, IL DIO IBRIDO. DIONISO E LE “BACCANTI” NEL NOVECENTO, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 36.

[14 Per una introduzione alla queer theory si vedano: E. Gajeri, STUDI FEMMINILI E DI GENERE, in INTRODUZIONE ALLA LETTERATURA COMPARATA, a cura di A. Gnisci, Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 296-340; Marco Pustianaz, TEORIA GAY E LESBICA, in TEORIA DELLA LETTERATURA. PROSPETTIVE DAGLI STATI UNITi, a cura di D. Izzo, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 996, pp. 121-126.

[15] Cfr. LA TORRE CAMPANARIA, tr. it., in Tutte le opere narrative di Herman Melville, cit., vol. VI, p. 195.

[16] H. Melville, MOBY DICK, cit., cap. CXIV, p. 511.

[17] C. Pavese, LA LUNA E I FALÒ (1950), in TUTTI I ROMANZI, Torino, Einaudi, 2000, p. 797.

[18] C.G. Jung e K. Kerényi, PROLEGOMENI ALLO STUDIO SCIENTIFICO DELLA MITOLOGIA, cit., p. 50.

[19] F. Jesi, LETTERATURA E MITO, cit., p. 13.

[20] G. Deleuze e F. Guattari, L’ANTI-EDIPO. CAPITALISMO E SCHIZOFRENIA (1972), tr. it. Torino, Einaudi,1975, p. 51.

[21] E. Morin, I MIEI DEMONI (1994), tr. it. Roma, Meltemi,1999, p. 303.

[22] Si tratta di un concetto desunto dalla teoria dei sistemi ed elaborato da Edgar Morin ai fini di un’applicazione in altri campi delle scienze umane, all’insegna della sua coraggiosa “sfida” dell’antispecialismo disciplinare. Cfr. E. Morin, LA TESTA BEN FATTA. RIFORMA DELL’INSEGNAMENTO E RIFORMA DEL PENSIERO (1999), tr. it., Milano, Raffaello Cortina, 2000.

[23] Cfr. E. Morin, LA TESTA BEN FATTA, cit.

09/10/08

Pupi Avati, IL PAPÀ DI GIOVANNA

Il libro (Milano, Mondadori, 2008)

Storia narrata da un autore onniscente che ha per protagonista Michele, padre, professore e marito, che insegna, educa, protegge, rassicura.

Figlio di un pugile che non ha mai sfondato ma che stimava immensamente solo per aver inseguito la gloria.

Allievo dell’Accademia di Belle Arti mai diventato artista; compagno di quel Giorgio Morandi di cui mai scriverà la biografia; amico di Sergio, poliziotto dongiovanni che rappresenta tutto quello che lui non è; Michele sembra vivere e gioire solo della gioia e dei successi altrui, reali (Morandi, Ghia) o no (il padre).

Conosce Delia guardandola negli occhi mentre lei posa nuda all’Accademia, salvandola dalla miseria in cui versa dopo la fuga da casa e l’abbandono del suo primo fidanzato con un matrimonio di convenienza.

Con la nascita di Giovanna, Michele vive solo per salvarla dall’abulia alla quale, replicandolo in tutto, è destinata; cerca continuamente di “liberarla dalla sfiducia, dal pessimismo, dal senso di inadeguatezza”, dalla “consapevolezza dello schifo dell’esistenza”, cerca di educarla alla felicità.

Delia, a differenza del marito, dalla vita è stata sommersa e ferita, e cerca di salvarla dalle pericolose illusioni, spiegandole la necessità di sofferenza e sfortuna.

Padre e figlia sono uguali, complici; la madre è diversa, irrimediabilmente lontana da loro.

Michele la crede distante in quanto diversa e migliore, Delia si sente invece inferiore ed esclusa.

Giovanna vive la lacerazione tra volontà di credere al padre, che le parla continuamente della sua bellezza interiore e delle sue potenzialità seduttive e impossibilità di negare la realtà così diversa continuamente portata sotto i suoi occhi dalla stessa presenza della madre, finchè la sua mente cede e la tragedia piomba sulla famiglia.

Michele se ne addossa la colpa, Delia si sente esclusa e si autoesclude.

Solo dopo un lungo periodo di separazione di Michele da Delia e di Delia da Giovanna, e un lento processo di riconoscimento reciproco, sarà possibile superare la tragedia.

Non quella esterna, pubblica, rappresentata dal crimine, ma quella interna, privata, della mancata comunicazione.

Un’incominicabilità molteplice, tra madre che si sente esclusa e figlia che la sente distante, tra padre che crede di conoscerla e figlia che non riesce a farsi conoscere.

Solo dopo aver attraversato la tragedia, madre e figlia riescono a rivolgersi una frase banale, in un contesto quotidiano, comunicando per la prima volta, e la famiglia riconquista la normalità.


***********


Il film (2008. Con Serena Grandi, Ezio Greggio, Francesca Neri, Silvio Orlando, Alba Rohrwacher)

Impeccabile la ricostruzione storica, non un particolare fuori posto, non uno scenario, un'atmosfera che non renda perfettamente l'idea dell'epoca e del clima.

Perfetta la scelta degli attori e anche solo delle facce. Il dongiovanni della scuola e la commessa della tabaccheria non sono il bel ragazzo e la bella ragazza di oggi vestiti vintage, ma bellezze considerate tali da quell'epoca, non certo da questa.

Nessuno che non sia perfetto per il suo ruolo.

Ezio Greggio nella parte di quello che se la cava sempre perchè ha le mani in pasta dappertutto, di quello capace di raccontarla a tutti, scelto forse proprio perchè sgamato, compare nell'immaginario collettivo.

Francesca Neri starebbe benissimo accanto a lui e invece è la moglie di Michele Casali - Silvio Orlando, ed è evidente quanto non c'entri nulla nè con lui, nè con la situazione nè con la sua stessa figlia.

Peccato che nè il poliziotto Sergio Ghia – Greggio -, nè la bella Delia - Francesca Neri - abbiano molto spazio.

Parlano e vivono sottovoce. Mostrano una personalità, ma solo abbozzata, le loro reazioni sembrano ovattate, le loro emozioni frenate, specialmente per quanto riguarda Delia, nelle scene di maggior drammaticità mantengono un eccessivo contegno arrivando solo ad una drammaticità edulcorata a tratti addirittura banalizzata (banalizzata rispetto al libro: ad esempio quando rinfaccia al marito di non aver concluso nulla nella vita, nel film lo fa con troppa calma; o quando al cospetto dell'abito della figlia macchiato di sangue si porta la mano davanti alla bocca per non gridare, nel film, banalmente, piange).

Ancor meno risalta la moglie di Sergio, Lella-Serena Grandi poco più che comparsa, mentre nel libro ha un suo ruolo ben definito, di donna bella ma segnata dalla malattia, paziente, amorevole, materna, tra le cui braccia piange Delia alla notizia dell'arresto della figlia.

Ma forse il silenzio e l'immobilità di Sergio e Delia servono a mettere in luce il movimento e il tormento di Michele e Giovanna.
La storia è la loro storia, di padre e figlia; il padre protagonista attivo, la figlia vittima della storia, che però compensa il suo ruolo minoritario nell'azione con la narrazione in prima persona.

Il loro percorso simbiotico, la loro complicità, la loro unione indissolubile sono perfettamente delineate fin dall'inizio. Evidenti a tutti, anche a chi non ha apprezzato il film.

Lei bruttina e “particolare”, diversa, emarginata, lui che cerca di incoraggiarla a vivere.

Il sospetto che lo attanaglia, il sollievo e poi la caduta del macigno della tragedia a distruggere la fragile quotidianità.

Il padre che continua ostinatamente ad amare la figlia, ad assecondarla, a guidarla, a comunicare con lei adattando a lei il suo linguaggio e trovando sempre un canale. La madre assente.

La madre è presente con la sua assenza, ma il silenzio sul suo passato, sui suoi discorsi alla figlia, sul suo tentativo frustrato di comunicazione rendono ancora più difficoltosa la decodifica del messaggio finale del film.

Messaggio molto al di sotto della lettera del testo. Sulla comunicazione.


[Marianna Orsi]

07/10/08

Danielle Hipkins, CONTEMPORARY WOMEN WRITERS AND TRACES OF THE FANTASTIC. THE CREATION OF LITERARY SPACE

Oxford, Modern Humanities Research Association and Maney, 2007.

This book explores the work of three women writers of the twentieth century: Paola Capriolo (born Milan 1962), Francesca Duranti (born Genoa 1935) and Rossana Ombres (born Turin 1931), with emphasis on their earlier work, which falls into, or displays features of the fantastic genre. The discussion revolves around the following key concepts: the influence of the male-authored tradition upon women writers in a post-feminist era; the fantastic genre later developing into a ‘fantastic trace’ as a means for these writers to deal with such influence; the notion of space both as literary space, i.e. within the literary canon, and as physical-metaphorical space, i.e. a privileged trope in the representation of the tension with a traditionally male dominated literary panorama. This is laid out clearly in the Introduction (pp. 1-10), in which Hipkins introduces the question of a feminist approach to women’s writing, showing awareness and skilful handling of the ensuing danger of ghettoization, but affirming the need for a critical assessment of their work that takes account of the writer’s gender within the framework of feminist theories, as represented by Jessica Benjamin, Shoshana Felman, Sandra Gilbert and Susan Gubar, Marianne Hirsch, Adrienne Rich, and others. This approach is then suitably complemented by Kristeva’s psychoanalytical notions of the stranger and of the abject, Cavarero’s theory of gender difference, and Genette’s notion of trans-textuality.

Chapter 1 (pp. 11-50) outlines theoretical definitions of, and approaches to the Fantastic (from Todorov to Monica Farnetti and Lucie Armitt), its development in Italy and women’s varied engagement with the genre. Hipkins maintains that women writers face authorial anxiety, which derives specifically from their gender in the face of a male-authored ‘biblioteca paterna’. With these premises the fantastic genre is viewed as a privileged literary mode in which to face such anxiety and come to terms with a predominantly male literary tradition. As this anxiety is dealt with, the fantastic wanes leaving a ‘trace’ (a useful notion introduced by Hipkins) as the ideal textual space in which such anxiety is resolved. Indeed, space metaphors and motifs are revealed as being crucial in the expression of the fantastic or the fantastic trace: hence, the symbolic value in these texts of enclosed spaces such as the caravan, car, house, library, hotel (symbolysing introjection) and, in contrast, the significance of movement between spaces and travel across or through countries, which can symbolyse the writer’s coming to terms with a restricting or subjugating tradition, if not a liberation from it.

The three subsequent chapters each constitute a stimulating analysis of selected texts by each writer, highlighting their diverse engagement with the fantastic genre/trace in finding their ‘literary space’ within ‘masculine culture’. Interestingly, two of the three authors, Capriolo and Duranti, actually resist being labelled ‘female writer’ and having their work conceived in terms of gender (footnote 6, p. 109 and footnote 4, p. 159 respectively). Hipkins’ solid textual analysis makes a convincing case that gender issues are indeed at stake in these texts, and this is confirmed, for example, in the discussion of the narrator’s de-feminization in Capriolo’s IL DOPPIO REGNO.

The book sheds light on the influence that other literary activities have on the creation of a text, such as translation and journalism for Capriolo and poetry for Ombres, as well as the transfiguration of autobiographical matter (especially Duranti), the representation of the reading and writing self and so on. In considering intertextuality, each chapter mentions briefly the author’s disclosure of her own literary models: a disclaimer to have any models at all in the case of Ombres (p.168), the tribute to Austen, Roth and James for Duranti (p. 123), and a wide range of mainly European influences in the case of Capriolo. Hipkins rightly denounces that all too often critics and reviewers do not take this aspect beyond ‘ostentatious name-dropping’ (footnote 2, p. 108). By contrast, her engaging discussion of Thomas Mann’s influence on Capriolo’s work, particularly of DEATH IN VENICE, and the use of quotation in IL DOPPIO REGNO, is remarkable. The analysis of Capriolo’s fantastic slant in her own translation of DEATH IN VENICE further illuminates Capriolo’s linguistic practice. Hipkins points out the relative absence of female models declared by Capriolo (only four), of which she mentions Elsa Morante. This provokes a question concerning the models and sources that may be unconsciously, or even purposefully omitted by the author, among which we may well find writers of both sexes. In this light, Capriolo and Duranti’s emphatic denial of an interest in women’s literary works, as has been pointed out by Ursula Fanning (footnote 27, p. 10), is intruiguing. For example, Capriolo’s story ‘Il gigante’ (in LA GRANDE EULALIA, 1988) induces striking associations with Matilde Serao’s eponymous story from ALL’ERTA SENTINELLA (1889). However, the danger lurking behind an exploration of the intertextual influence of a woman writer with an emphasis on gender, is precisely that of hailing a ‘genealogy of women writers’ (as in the case of Fabrizia Ramondino who acknowledged her debt to Anna Maria Ortese, p. 30), which would require accurate probing before proving accurate.

Given the little critical attention that some of these authors have received (especially Ombres), it would have been useful to have a bit more biographical contextualization at hand, for the immediate satisfaction of an interest that this book undoubtedly arouses.

Whether the reader subscribes to a feminist approach to women writers, disregards gender difference in writers, or regards gender as one among a wider spectrum of aspects that may determine literary outcomes, Hipkins’ book is a thought-provoking and valuable addition to the study of literature written by women, the role and theory of gender and the fantastic, and it leaves the reader not so much with a ‘trace’, as with a debt.

[Vilma De Gasperin]

05/10/08

R.K. Narayan, THE GUIDE


[Hunt-guiding through the bush (From the walls of Cork). Foto di Marzia Poerio]


Prima edizione: 1958. Edizione qui utilizzata: Londra, Penguin, 1988.

THE GUIDE è un altro dei romanzi ambientati nella città immaginaria di Malgudi, più orientato verso la periferia e la campagna, questa volta, che in altri volumi della serie.

Raju svolge funzioni di guida turistica freelance per arrotondare i proventi di uno spaccio ereditato dal padre presso la ferrovia. Le sue attività sono ben avviate e potrebbe accontentarsi di ciò che ha finché non interviene un fattore passionale che sconvolge ogni equilibrio. Arrivano uno studioso di archeologia, Marco, e la moglie Rosie (strani nomi, come nota il narratore, per persone indiane). Raju li accompagna a vedere delle grotte fuori città; e mentre Marco si ferma circa due settimane a studiare i dipinti sulle pareti, Raju consuma una storia con Rosie, trascurata dal marito, aiutandola a realizzare il suo sogno di diventare una danzatrice tradizionale. In conseguenza dell’infedeltà di lei, marito e moglie vanno ciascuno per la sua strada; Rosie prende posto presso Raju, il cui rapporto con la madre e la comunità si incrina per questo; diventata famosa la ragazza, arricchitosi Raju, vivono in coppia finché, avendo falsificato per gelosia una firma di lei, Raju viene arrestato; uscito dal carcere, riposando presso un tempio, si trasforma in un santone, arrivando quasi a morire in un digiuno di dieci giorni intrapreso per invocare la pioggia sulla comunità del villaggio nel quale ormai risiede.

È storia di una trasformazione che avviene prima che colui che muta ne abbia consapevolezza piena, anzi quasi suo malgrado, come se l’inconscio gli dettasse le scelte giuste mentre la parte razionale gliele nega: così quando Raju diventa un guru; ma anche l’intuizione delle capacità di Rosie e la capacità di Raju di farle emergere incoraggiandola sono doti maieutiche, quasi credesse di agire male mentre invece si muove per il bene altrui. Se un atto illegale viene punito, attraverso il carcere si danno però un’evoluzione riparatrice e la scoperta dell’identità più profonda e spirituale.

Un aspetto importante i questa storia è dunque lo sfondo morale, nondimeno con nulla di moralistico. Anzi, il sentimento prevale sulle convenzioni sociali, sfidate dagli amanti quando prendono posto sotto lo stesso tetto senza essere sposati nell’India di cinquant’anni fa. Il bene viene operato esponendosi chi lo compie a rischi, seguendo più le ragioni emotive che la comune ragionevolezza. Raju è un personaggio ironico, capace di raggiri e battute secche, abile a raccontare le proprie esperienze senza tentazioni strappalacrime nella parte del romanzo narrata in prima persona. La terza persona è una cornice che incasella la sezione più sviluppata col personaggio che dice io.

È una storia intelligente, ben costruita, ancora legata a un’oralità assunta come pregio narrativo. Gli avvenimenti accadono per nodi costanti di causa ed effetto con concatenazioni rapide e sciolte.


[Roberto Bertoni]

03/10/08

Santiago Montobbio, L’IO, DIO, L'AMORE, LA NOTTE, LA FAVOLA (FABULA)

1.

¿FÁBULA Y SIGNO?

Como jamás habíamos pensado que Dios podía ser tan pequeño
como para dudar de su propia existencia
nos sorprendió encontrarlo con los dientes desnudos
en las orillas del frío.

Dichosos por saber que lo teníamos dentro,
lo tendimos al sol, como si fuera una fiesta.

FAVOLA E SEGNO?

Poiché mai avevamo pensato che Dio poteva essere così piccolo
come per dubitare della propria esistenza
ci sorprese incontrarlo con i denti nudi
al limitare del freddo.

Contenti di sapere che lo tenevamo dentro,
lo stendemmo al sole, come fosse una festa.


2.

TIRO

Tras haber vivido siempre en condicional o puntos suspensivos
nuestro incomprensible amor es una deuda que tiene miedo
y trina frío: seguramente esta es la majadería
sobre la que resultaría más oportuno
pegarme un tiro.

BERSAGLIO

Oltre aver vissuto sempre al condizionale o con punti di sospensione
il nostro incomprensibile amore è un debito che ha paura
e trilla di freddo: sicuramente questa è la stupidaggine
per la quale risulterebbe più opportuno
mirarmi addosso.


3.

CLAVE

No sé nada, no quiero nada,
no espero nada.
Pero
todo lo que he escrito
tiene la forma de mi cara.

CHIAVE

Non so niente, non desidero niente,
non aspetto niente.
Però
tutto ciò che ho scritto
ha la forma del mio viso.


4.

NOCTURNO

Me he pasado la vida pidiendo perdón por otros,
o nadie acompañó nunca estas palabras:
para engañarme eso es lo que antes me decía,
para engañarme y porque aparte
de que son versos aburridos
si hago un esfuerzo pienso
que no he pedido perdón más que por mí mismo
y que las palabras por sí solas
son ya una compañía.
Pero yo soy un hombre acabado
y a quien por tanto no le quedan ganas
de discutir estos extremos.
Yo soy
un hombre acabado o que tiene el alma
de soledad repleta.
Fumo
a todas horas como un loco y junto
al vivir, al beber y otros fracasos
conservo también
varias manías.
Sobre ellas y entre el acostumbrado
peso de las tardes no descubro
si creí en algo algún día.
De igual modo tampoco adivino
si las figuraciones que he escrito
encierran un sentido,
pero al menos sé que todas
empiezan y acaban en mí mismo.


NOTTURNO

Ho attraversato la vita chiedendo perdono per altri,
o nessuno accompagnò mai queste parole:
per ingannarmi era quanto mi dicevo sopra
per ingannarmi e perché a parte
che sono versi noiosi
se faccio uno sforzo penso
che non ho chiesto perdono se non per me stesso
e che le parole in se stesse
sono già una compagnia.
Però io sono un uomo finito
al quale per tanto non rimane voglia
di discutere questi estremi.
Io sono
un uomo finito e che ha l’anima
sazia di solitudine.
Fumo
a tutte le ore come un pazzo e accanto
al vivere, al bere e altri fallimenti
conservo anche
varie manie.
Oltre a queste e al consueto
peso delle notti non scopro
se una volta ho creduto in qualcosa.
Ugualmente non vedo
se le figurazioni che ho scritto
racchiudono un senso,
però almeno so che tutte
cominciano e finiscono in me stesso.


5.

AMOR

Bajabas por la calle del frío o río
y yo no te quería. Bajabas
por la calle del día mío
y yo desesperaba. Años más tarde,
hoy mismo, aún continúas aquí,
y yo sigo buscando los motivos.

AMORE

Scendevi la strada del freddo e del fiume
e io non ti amavo. Scendevi
la strada del giorno mio
e più non speravo. Anni più tardi,
oggi stesso, ancora rimani,
e io continuo a cercarne i motivi.


(Traduzioni di Piera Mattei)