11/10/08

Nino Arrigo, IL FANCIULLO DIVINO


[Mythical and realistic childhoods. (From the strets of Genoa). Foto di Marzia Poerio]


Da Dioniso ed Edipo, passando per Gesù, fino alle più moderne “riscritture” e riattualizzazioni letterarie, il tema del fanciullo è, forse, uno dei più fertili della letteratura di tutti i tempi e di tutte le latitudini. Attraversa tanto gli angusti sentieri della cosiddetta “letteratura alta”, quanto le strade affollate della cosiddetta “low brow literature”. Un invisibile filo rosso sembra dunque unire la parabola dell’“eroe” - da Dioniso e Gesù sino a Superman -, sia esso “ridicolo o sublime, greco o barbaro, ebreo o gentile, il suo viaggio varia ben poco nelle linee essenziali” [1]. Come ci ricorda Kerényi:

“I mitologemi antichi dei fanciulli divini ci trasportano in un’atmosfera fiabesca. Ciò avviene in una maniera del tutto incomprensibile e irrazionale, bensì è il risultato di alcuni elementi fondamentali che in questi mitologemi continuamente si ripetono e si possono indicare chiaramente. Il fanciullo divino è per lo più un trovatello abbandonato. Egli corre spesso pericoli straordinari: di venir inghiottito come Zeus, di venir dilaniato come Dioniso […]. Il padre stesso è spesso il nemico, o egli è soltanto assente, come Zeus quando i titani dilaniano Dioniso. Un caso più raro si racconta nell’inno omerico a Pan. Il piccolo Pan viene abbandonato dalla madre e dalla nutrice, terrificate. Suo padre, Hermes, lo raccoglie e, avvolgendolo, in una pelle di coniglio, lo porta su all’Olimpo. Anche in questo caso stanno di fronte due sfere di destino: nell’una il fanciullo divino è un aborto abbandonato, nell’altra egli trova posto tra gli dei, a fianco di Zeus. La madre ha una parte singolare: essa è e non è allo stesso tempo [...]. Semele è già morta quando Dioniso viene alla luce...” [2].

E’ una lacerante ambivalenza a determinare il “doppio aspetto”, paradossale, “del fanciullo orfano e, nello stesso tempo, del figlio amato dagli dei. Lo stesso “doppio vincolo” [3] di colpa e innocenza che caratterizzerà l’archetipo dell’eroe Gesù. Proprio l’infanzia del protagonista dei Vangeli, sembra infatti offrirci uno straordinario esempio dell’archetipo del “fanciullo divino”:

“Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui. I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l’usanza; ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: ‘Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati ti cercavamo’. Ed egli rispose: ‘Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?’ Ma essi non compresero le sue parole” [4].

Siamo di fronte ad un tipico episodio di ribellismo adolescenziale, una vera e propria fuga dall’asfissiante dominio familiare. Anche il fanciullo Gesù, vale la pena ricordarlo, è un fanciullo orfano che, in ossequio al tema dell’“elezione”, tanto caro all’immaginario ebreo-giudaico (anche Mosè, lo ricordiamo, è un trovatello abbandonato, un fanciullo orfano), sente il richiamo del padre. Di quel Dio rivelatosi a Mosè sotto forma di un roveto ardente, quell’“io sono colui che sono” (il cui nome, ancora prima di essere Yahvè, sembra piuttosto rimandare a “tutti i nomi della storia” e a nessuno) che sembra evocare l’astratto “tutti nessuno” dell’Essere, del Linguaggio [5]. Persino le eccezionali doti di intelligenza sfoderate dal giovane Gesù sembrano rimandare all’archetipo dell’eroe fanciullo. Joseph Campbell ci ricorda, infatti, che l’infanzia “dell’eroe è ricca di aneddoti di forza, di intelligenza e di saggezza precoci” [6].

L’epilogo dell’avventura umana del fanciullo divino Gesù, sarà il Cristo agonizzante, la “vittima innocente” che dalla croce invocherà “Eli, Eli, lama sabactanì” (Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato), “come testimonianza della sorte di un orfano divino, al quale il soccorso paterno giungerà solo dopo la morte” [7].

A testimonianza del suo carattere immanente, l’archetipo sembra testimoniarci che l’essere “divino è una rivelazione dell’Essere onnipotente, che abita in ciascuno di noi” [8], della potenza desiderante dell’inconscio.

L’infanzia miracolosa, “dalla quale si vede che una manifestazione speciale del principio divino immanente si è incarnata nel mondo”, sembra abbracciare in un unico contenitore tanto il sublime biblico quanto l’ “osceno”, il “volgare”, il monstruum della letteratura di massa. Gli attributi prodigiosi del fanciullo Gesù saranno, infatti, del tutto simili - in piena modernità - a quelli del fanciullo orfano protagonista del mito di Superman [9]. Anche il celebre protagonista dei fumetti è, infatti, un fanciullo orfano. Come nota Umberto Eco, quella di Superman è una “immagine simbolica di particolare interesse. L’eroe fornito di poteri superiori a quelli dell’uomo comune è una costante dell’immaginazione popolare, da Ercole a Sigfrido, da Orlando a Pantagruel sino a Peter Pan” [10]. Ma non soltanto di quella popolare, come stiamo cercando di dimostrare. L’immaginazione non possiede, infatti, due compartimenti stagno, uno high brow e l’altro low brow, è assai più “democratica” di quanto possiamo immaginare.

Anche nel mito di Superman è attivo, dunque, il lavoro dell’archetipo, il lavoro dell’immaginazione che affonderebbe le sue radici nelle profondità dell’inconscio.

Il tema del fanciullo orfano è particolarmente produttivo nella letteratura americana.

I protagonisti di buona parte delle opere di Herman Melville sono, infatti, fanciulli orfani, trovatelli abbandonati: Ismaele, Bannadonna, Bartleby, Billy Budd:

“Sì, Billy Budd era un trovatello, presumibilmente un illegittimo ma evidentemente non di umile origine. La nobiltà di nascita era evidente in lui come in un purosangue (...) lo spirito che albergava in Billy e che si affacciava dai suoi occhi di cielo come da finestre, era quell’ineffabilità che creava fossette sulle sue guance colorite, rendeva docili le giunture e, danzando tra i riccioli biondi ne faceva per eccellenza il Bel marinaio” [11].

Non è un caso se l’appellativo affibbiatogli dal vecchio danese sarà Bimbo, nel testo originale Baby, sostantivo neutro che rimanderebbe alla sua indeterminatezza sessuale, ben esplicitata dalla descrizione della sua bellezza dai tratti efebici. L’indeterminatezza di Billy è, dunque, l’indeterminatezza dell’inconscio. Secondo Jung, infatti:

“Il ‘fanciullo’ esce dal grembo dell’inconscio, come sua creatura, generata dal fondo stesso della natura umana, o meglio, dalla natura viva in generale. Egli personifica le forze vitali di là dei limiti della coscienza, vie e possibilità di cui la coscienza, nella sua unilateralità, non ha sentore, e una totalità che abbraccia la profondità della natura” [12].

Possiamo scorgere, nell’ambiguità di Billy, la stessa ambiguità di Dioniso, “il dio ambiguo e androgino per eccellenza, rappresentato in genere come un adolescente nudo e femmineo, dai lunghi riccioli e dalla sensualità morbida” [13]. Alla luce di queste considerazioni il racconto melvilliano potrebbe costituire una sorta di antesignano del romanzo di Virginia Woolf, ORLANDO, romanzo culto del femminismo e dei cosiddetti queer studies [14].

A testimonianza della centralità del tema nella sua narrativa, anche nel racconto THE BELL TOWER Melville definirà il protagonista, Bannadonna, come “l’umile trovatello” [15].

Ma anche Anguilla, il protagonista di uno dei più celebri romanzi pavesiani - LA LUNA E I FALÒ - è orfano alla maniera dell’Ismaele melvilliano. Probabilmente per via dell’influenza, esercitata sull’apprendistato estetico dello scrittore piemontese (come ci dimostra puntualmente il “diario” pavesiano), dalla traduzione di MOBY DICK, come sembrerebbe scaturire da questo brano:

“Dov’è l’ultimo porto, donde non salperemo mai più? In quale etere estatico naviga il mondo, di cui i più stanchi non si stancano mai? Dov’è nascosto il padre del trovatello? Le nostre anime sono come quegli orfani, le cui ragazze-madri muoiono dandoli alla luce; il segreto della nostra genitura giace in quella tomba ed è là che dobbiamo conoscerlo” [16].

Ma anche in questo caso potrebbe trattarsi di un’analogia di carattere archetipico, a testimonianza del fatto che il tema dell’orfano fa spesso il paio, nella narrativa pavesiana, con quello del fanciullo. Sempre ne LA LUNA E I FALÒ, un particolare della descrizione del giovane Cinto, sembrerebbe addirittura rimandare - per via della propensione pavesiana all’allusione e alla dissimulazione nei testi di piccoli enigmi, rebus da decifrare - alla descrizione kerényiana del “fanciullo orfano”, che Pavese al tempo della stesura del romanzo aveva ben presente:

“Su una ruota stesa per terra era seduto un ragazzo, in camicino e calzoni strappati, una sola bretella, e teneva una gamba divaricata, scostata in un modo innaturale. Era un gioco quello? Mi guardò sotto il sole, aveva in mano una pelle di coniglio secca, e chiudeva le palpebre magre per guadagnar tempo” [17].

Anche su Cinto si allungherebbe, dunque, l’ombra del “fanciullo divino”. La madre muore, infatti, dandolo alla luce. Allo stesso modo del piccolo Pan che, abbandonato dalla madre e dalla nutrice, viene raccolto dal padre Hermes e avvolto in una pelle di coniglio [18], anche il giovane Cinto ha in mano, per l’appunto, una pelle di coniglio secca, probabile simbolo della sua condizione di orfano. Come nota Furio Jesi:

“Nelle grandi svolte della storia della cultura, e soprattutto negli istanti in cui la crisi del sentimento religioso si fa sintomo e annuncio del finire d’un ciclo, affiora dalle profondità della psiche l’immagine del fanciullo primordiale, dell’orfano. Ad essa sembra che l’animo umano affidi ciecamente le sue speranze, ed essa è sempre arbitra di metamorfosi” [19].

Considerata la massiccia influenza che l’immagine del fanciullo ha nella letteratura, nell’arte e, dunque, nella cultura, la continuità della storia dovrebbe pertanto risultare tutta fatta di svolte, di discontinuità.

L’inconscio stesso è infatti orfano “e produce se stesso nell’identità della natura e dell’uomo” [20]. E anche il cosmo “è nato orfano, non ha avuto né un Dio-Padre e neppure una Madre che lo abbia tenuto in un utero precosmico: è sorto da una flatulenza del vuoto primordiale, nato da un ignoto peto. E’ l’orfano sputato fuori dall’infinito, e proiettato nelle fratture di spazio e tempo” [21].

In ossequio al principio “ologrammatico” [22] che fa dell’individuale lo specchio dell’universale, della parte lo specchio del tutto e viceversa, all’insegna del principio di “circolarità ricorsiva” [23].


NOTE

[1] J. Campbell, L’EROE DAI MILLE VOLTI (1949), tr. it. Parma, Guanda, 2000, p. 40.

[2] C.G. Jung e K. Kerényi, PROLEGOMENI ALLO STUDIO SCIENTIFICO DELLA MITOLOGIA (1942), tr. it. Torino, Bollati Boringhieri 1994, p. 50.

[3] Il concetto psicologico di double bind - ripreso dalla psichiatria contemporanea, che farebbe dipendere la schizofrenia da relazioni comunicative collusive e paradossali nei contesti familiari - è stato per la prima volta elaborato da una equipe condotta da Gregory Bateson. Ha trovato largo uso anche presso l’antropologia “mimetica” di scuola girardiana.

[4] Luca 2, 40-50, tr. it. LA BIBBIA DI GERUSALEMME, cit., pp. 2100-01.

[5] Per la differenza tra il personaggio di Gesù e Yahvè si veda H. Bloom, GESÙ E JAHVÈ. LA FRATTURA ORIGINARIA TRA EBRAISMO E CRISTIANESIMO, Milano, Rizzoli, 2006.

[6] J. Campbell, L’EROE DAI MILLE VOLTI, cit., p. 287.

[7] F. Jesi, ORFANI E FANCIULLI DIVINI, in LETTERATURA E MITO, Torino, Einaudi, 1968 e 2002, p. 12.

[8] J. Campbell, cit., p. 281.

[9] Cfr. U. Eco, APOCALITTICI E INTEGRATI. COMUNICAZIONI DI MASSA E TEORIE DELLA CULTURA DI MASSA (1964), Milano, Bompiani, 2003, pp. 219-61.

[10] Ibidem, pp. 226-27.

[11] H. Melville, BILLY BUDD, MARINAIO, tr. it. in TUTTE LE OPERE NARRATIVE DI HERMAN MELVILLE Milano, Mursia, 1991, pp. 13 e 37.

[12]C.G. Jung e K. Kerényi, PROLEGOMENI ALLO STUDIO SCIENTIFICO DELLA MITOLOGIA, cit., p. 135.

[13] M. Fusillo, IL DIO IBRIDO. DIONISO E LE “BACCANTI” NEL NOVECENTO, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 36.

[14 Per una introduzione alla queer theory si vedano: E. Gajeri, STUDI FEMMINILI E DI GENERE, in INTRODUZIONE ALLA LETTERATURA COMPARATA, a cura di A. Gnisci, Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 296-340; Marco Pustianaz, TEORIA GAY E LESBICA, in TEORIA DELLA LETTERATURA. PROSPETTIVE DAGLI STATI UNITi, a cura di D. Izzo, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 996, pp. 121-126.

[15] Cfr. LA TORRE CAMPANARIA, tr. it., in Tutte le opere narrative di Herman Melville, cit., vol. VI, p. 195.

[16] H. Melville, MOBY DICK, cit., cap. CXIV, p. 511.

[17] C. Pavese, LA LUNA E I FALÒ (1950), in TUTTI I ROMANZI, Torino, Einaudi, 2000, p. 797.

[18] C.G. Jung e K. Kerényi, PROLEGOMENI ALLO STUDIO SCIENTIFICO DELLA MITOLOGIA, cit., p. 50.

[19] F. Jesi, LETTERATURA E MITO, cit., p. 13.

[20] G. Deleuze e F. Guattari, L’ANTI-EDIPO. CAPITALISMO E SCHIZOFRENIA (1972), tr. it. Torino, Einaudi,1975, p. 51.

[21] E. Morin, I MIEI DEMONI (1994), tr. it. Roma, Meltemi,1999, p. 303.

[22] Si tratta di un concetto desunto dalla teoria dei sistemi ed elaborato da Edgar Morin ai fini di un’applicazione in altri campi delle scienze umane, all’insegna della sua coraggiosa “sfida” dell’antispecialismo disciplinare. Cfr. E. Morin, LA TESTA BEN FATTA. RIFORMA DELL’INSEGNAMENTO E RIFORMA DEL PENSIERO (1999), tr. it., Milano, Raffaello Cortina, 2000.

[23] Cfr. E. Morin, LA TESTA BEN FATTA, cit.