30/09/08

CARTE ALLINEATE. Numero 21, Settembre 2008 / Issue 21, September 2008

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INDICE ALFABETICO / INDEX

Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.

- ARRIGO, Nino, SULLA CRITICA TEMATICA: NOTIZIE DALL’ITALIA. Riflessione, 13-9-08
- BENEDETTI, Laura, THE TIGRESS IN THE SNOW. MOTHERHOOD AND LITERATURE IN TWENTIETH-CENTURY ITALY. Note di lettura di Vilma DE GASPERIN, 19-9-08
- BIAMONTI, Francesco, IL SILENZIO.Note di lettura, 21-9-08
- BONOMO, Annalisa, QUANDO LA FIABA DIVENTA MITO: J.R.R. TOLKIEN E THE LORD OF THE RINGS. Riflessione, 25-9-08
- CAPPI, Alberto, IL MODELLO DEL MONDO. Testi di CAPPI, con un commento introduttivo di Lucetta FRISA, 29-9-08
- CHIMAERA. Fotografia e versi di Marzia POERIO, con commento, 1-9-08
- DUTT, Guru, KAAGAZ KE PHOOL. Storie di film di Renato PERSÒLI, 17-9.08
- ERCOLANI, Marco, LE SETTE REGOLE DEL SILENZIO. Testo, 27-9-08
- HITCHCOK, Alfred, THE MAN WHO KNEW TOO MUCH (L'UOMO CHE SAPEVA TROPPO). Storie di film di Renato PERSÒLI, 5-9-08
- JUNG, Carl Gustav, RICORDI, SOGNI, RIFLESSIONI. Rilettura, 15-9-08
- MONTIRONI, Annalisa, FINISTORIAE. Note di lettura, 23-9-08
- MONTOBBIO, Santiago, LA FERITA DEL VIVERE (TRE TESTI). Testo, 7-9-08
- PIERNO, Rosa, TRASVERSALE. Note di lettura, 11-9-08
- TONELLI, Angelo, CANTI DI APOCALISSE E D'ESTASI. Note di lettura di Lucetta FRISA, 9-9-08
- YOUNG, Augustus, CALABRIA AND BACK. Testo, 3-9-08

29/09/08

Alberto Cappi, IL MODELLO DEL MONDO

Milano, Marietti, 2008


NOTE DI LETTURA DI LUCETTA FRISA

Scrive Davide Rondoni sul retro di copertina:

“Alberto Cappi è da sempre legato ad una laboriosa esperienza della poesia come ‘scrittura’: come gesto, insomma, in cui il silenzio e le infinite possibilità della lingua danno vita a qualcosa di misterioso. Aprendo spazi d’incontro e di conversazione profonda. La poesia come affioramento delle parole e contemporaneo inabissamento nelle avventure del significato. Pochi come lui in Italia hanno tanto viaggiato nell’esperienza dello scrivere, anche attraverso il territorio del lavoro sui testi altrui, con traduzioni, scelte antologiche ed esercizio critico”.

Mi soffermerei su quel “qualcosa di misterioso”, che traspare da sempre nella poesia di Cappi. Sarà un intento mirato o felicemente casuale, o sono le parole stesse a prendere la mano al poeta per condurlo a quella sospensione, a quello stato di mistero che, a mio avviso, connota la vera poesia? Sarà che attraversando tutti i terreni linguistici, da profondo studioso lacaniano, da appassionato ricercatore dentro la lingua di epifanie linguistiche, che il Nostro ha affinato nel tempo la sua techné raggiungendo l’apparente spontaneità del dire e, in particolare, del dire con “effetto di mistero”, e perciò spiazzante per chi legge con attenzione i suoi versi? L’elemento di “indefinibilità” non lo avverte solo chi ama leggere e scrivere poesia, ma è parere generale e obbiettivo, oltre a quello dei critici che, per tradizione, dovrebbero pronunciarsi con “cognizione di causa”. Ancora non basta a motivarne il percorso, dato che non tutti i poeti che hanno compiuto un iter analogo a quello di Cappi ci hanno consegnato testi di quel livello, di quella cifra e timbro. La sua tenacia per il lavoro della poesia e l’intransigenza, la passione tenuta viva al fuoco di sé stessa, non bastano a spiegarne la lunga militanza (brutta e abusata parola, ma non riesco a trovarne altra) perché Cappi, suonando tutte le corde del suo flauto, è sempre stato fedele a se stesso. Resta quindi quel mistero che è solo suo e forse inspiegabile anche a lui.

IL MODELLO DEL MONDO è un piccolo libro mistico, direi di orazioni musicali sussurrate – il più delle volte in forma di sestina con rime e assonanze interne ed esterne - con accensioni e raffreddamenti di un surrealismo barocco. Lo stesso vibrante sussurro che avevo riscontrato, tra i sui libri più recenti, in LA BONTÀ ANIMALe (Faenza, Quaderni del circolo degli artisti, 2006) che tanto mi aveva sedotto. Sono rivolte a un Ente divino o a un Ignoto sfuggente e ineluttabile, senza enfasi o retorica: i versi scivolano raccolti nella loro grazia, nella loro umiltà e solitudine, consegnandoci un testo disarmato e disarmante, limpido come un cristallo. Anche questo, come i precedenti, ha la preziosità del livre de chevet, piccola lezione di tenebra non minimale né tantomeno minimalista, ma in ultima analisi “formella” raffinatissima di una luce quasi ultraterrena.



TESTI DI CAPPI


La svenante notte e l’avorio
cavo delle luci la cometa
è brivido di seta. Come
tutto il dolore è polvere
da sparo: la terra pallottola
vagante in cerca del suo Nome.


***


Come acqua di cielo su
acque di mare apre i sentieri
alle correnti, il tuo Nome
ancora il vento e le nubi
sposta sulla luna. Resta
dei tempi il suono,una
linea di confine, l’uomo.


***


La pagina del cielo
graffiata dal lampo.

Senza veli
la nudità del Dio.

Tu sei il nome.
Il segno
non ha scampo.


***


Il vento della sera lambito
da ali e pollini di loto,
un bosco di memorie e nevi,
i soli neri un carro senza scia,
la lingua che farfuglia e lascia
il taglio dell’artiglio al vuoto.


***


Fu così che giungemmo al bosco
il cuore fiorì verde la spina
del profumo bruciò le ciglia
una voglia di sonno raccolse
nel battello della noce la parola
e il dolce stare: la terra non
ci accolse e fummo soli.


***


Hanno scaglie come specchi solari
e tendini che vibrano al soffio dei venti.
Hanno tramonti e iridi e ventri
che aggallano come spenti tamburi. O
vortice o improvviso forcipe o viso
della sorte: umana onda nascita morte.


***


Le trame degli uccelli che scoppiano
nel cielo in fiori di reti forate
dalla barca solare tra remiganti
remi piumati e buffi soffi
delle bombe urbane così dall’alto
così dall’alto le catacombe umane.


***


È questo il giorno in cui cadono
gli alberi e cercano le loro radici
nel dolore della terra che si alza
al viso dell’uomo chi ascolta è
nessuno nessuno ricorda la storia
dell’avo solo il vuoto è memoria.


***


Questa è l’alba e io ti invoco
ho acceso la lampada della mia voce
il muschio è trappola per le vane vocali
e il suono si perde l’ombra ci rende
docili al giro della sciamante stella
noi eravamo, erriamo, siamo capanna.

27/09/08

Marco Ercolani, LE SETTE REGOLE DEL SILENZIO

Relazione di Robert Mächler, Baden, 15 gennaio 1964

Cari signori,

non vi ruberò troppo tempo. Il mio nome è Robert Mächler. Questa mia breve relazione nasce dalla mia lunga solidarietà con il grande scrittore Robert Walser, di cui mi onoro di aver decifrato i manoscritti e interpretato alcuni dettagli biografici. Io avevo diciannove anni (scuserete questa digressione personale, ma mi è utile per chiarirvi il senso della mia brevissima relazione) e non conoscevo affatto la sua opera quando, disgustato dalla normalità della mia famiglia (mi amavano, non mi picchiavano, erano solo buoni), me ne allontanai, mi finsi pazzo e passai un certo periodo di tempo nella Maison de Santé de Malevoz, tentando di scrivere il mio libro COME TACQUE ZARATHUSTRA, articolando scrupolosamente il mio suicidio perché morendo avrei salvato l’umanità. Cercavo le Sette regole della Salvezza quando, in Walser, scoprii le Sette Regole del Silenzio - prudenza, segretezza, simulazione, sogno, fantasticheria, metamorfosi, malinconia. Le scoprii intatte, perfette, ingenue, indissolubili, nelle micrografie raccolte da Walser, nei suoi criptici appunti a matita scritti in quel modo lento, austero, fittissimo, come se scrivesse, perché scriveva per non dire nulla, nell’innocente desiderio che le sue ingenue e inconcludenti parole alla fine ricoprissero l’irritante e rumorosa superficie del pianeta come la neve, dopo una lunga notte, ricopre l’intero paesaggio. La scrittura, liberata e indifferente, è solo una silenziosa conversazione con il proprio segreto. E Robert Walser, a cinquant’anni come io a diciannove, ha finto di essere pazzo; internato prima a Waldau e poi a Herisau, ha intrecciato mitemente canestri, in silenzio, senza pronunciare parole e senza scrivere parole, lo ha fatto perché solo così poteva servire il Grande Ordine della Struttura Chiusa, realizzare le Sette Regole del Silenzio, smettere di fare il girovago di una scrittura senza fine, essere senza più dolore l’anacoreta del nulla, approdare, infine, all’incantesimo di una neve senza suoni. Vi assicuro, signori, che Robert ha simulato la follia solo per essere il più vicino possibile, nel minor numero di conflitti con il mondo, alla sua mente. È stato prudente. Si è chiuso nel suo segreto. Ha simulato la follia trasformandosi in un matto. Ha continuato a fantasticare e sognare. È rimasto malinconico. Vedete: Prudenza, Segreto, Simulazione, Metamorfosi, Fantasticheria, Sogno, Malinconia.

Questo io ho cercato di dimostrare, interpretando la sua opera come devono fare gli interpreti, avvicinandosi e allontanandosi dal loro soggetto, come chi vive tra le sabbie mobili e il cielo puro. Il fuoco arde con maggiore precisione se al suo interprete è concesso di non accostarsi troppo alle fiamme, consumando così tutto l’enigma. Di tante ceneri sono pieni i cimiteri della critica tradizionale, attenta più alle tracce dei libri che alle anime degli scrittori.

Direi che non ho nulla da aggiungere. Lascio tutto lo spazio ai (veri?) interpreti che vi parleranno dell’opera (opera?) walseriana.

Io torno a casa per trovare la Grande Regola della Salvezza con la quale potrò, finalmente, far quadrare il Magico Cerchio dell’Umanità. Solo chi scorge i contorni di questo cerchio riesce a vedere, intera e perfetta, la sua ombra, e non ha più bisogno di nulla.

Vostro Robert Mächler

25/09/08

Annalisa Bonomo, QUANDO LA FIABA DIVENTA MITO: J.R.R. TOLKIEN E THE LORD OF THE RINGS


[Tower in London, fairy coloured by dusk. Foto di Marzia Poerio]


Definito dalla critica come un’enorme e arricchita metafora dello hobbit, e facendo effettivamente uso di una similare struttura narrativa, simbolica ed episodica, THE LORD OF THE RINGS non trova ancora oggi particolari difficoltà ad imporsi ad un pubblico variegato e desideroso di sognare.

Assunta la conformazione di trilogia (THE FELLOWSHIP OF THE RING, THE TWO TOWERS, THE RETURN OF THE KING) a fini di pubblicazione su espressa richiesta della Allen & Unwin Publishers londinese, il capolavoro tolkeniano continua a proporsi, sin dalla sua prima apparizione nel 1954, nei panni di un continuo ed avvincente rebus di definizione, inerente il genere di appartenenza all’interno di un sempre rovente dibattito relativo alla “reale” natura del fantasy.

La critica, di settore e non solo, ha continuamente tentato di ascrivere l’opera ora al reame della “leggenda”, ora a quello della “fiaba”, ora al più classico “poema cavalleresco” sino alle nuove definizioni di THE LORD OF THE RINGS quale esempio di “epica fantastica”[1] o meglio ancora di maturo romance [2].

Superato il tentativo classificatorio che sovrasta la critica anche in epoca postmoderna, riteniamo possibile individuare all’interno del tentativo tolkeniano gli spasimi di un’allegoria della condizione umana, la quale, nonostante l’aperta opposizione dello stesso autore all’uso della categoria dell’“allegorico”, ripropone in chiave moderna gli stessi antichi miti da cui la sua formazione di uomo e di intellettuale avevano preso avvio.

Le millequattrocento pagine lungo le quali il viaggio fantastico del protagonista Frodo si sviluppa, forniscono rilevanti spunti d’interesse relativi ad una struttura narrativa a cavallo tra i generi. D’altronde: “L’analisi morfologica della fiaba mostrerà che essa contiene molto poco della vita reale. Tra la vita reale e la fiaba esistono certi elementi di transizione nei quali la vita reale si riflette indirettamente” [3].

È a partire dal reticolato funzionale di matrice proppiana e da un approccio “scientifico” alle fiabe, che le relazioni di Tolkien con la tradizione fiabesca prima e con gli standards recentemente ascritti alla paraletteratura poi, rivelano un sostanziale rinnovamento dei concetti di serialità e ripetitività formale, già evincibile all’interno del suo ormai famosissimo saggio sulle fiabe dal titolo ON FAIRY STORIES [4].

Sebbene, infatti, una relativa unità tematica sembri essere assicurata preventivamente dal ritorno sulla scena di numerosi personaggi ormai ben noti al pubblico appassionato del fantasy tolkeniano antecedente la storia dell’anello, e non potendo negare gli inevitabili punti di connessione con l’opera precedente, il processo formativo dello hobbit, protagonista della trilogia, a metà strada tra l’essere e il divenire e partecipe quindi di un’altalena costante tra lo stato di natura e il rinnovamento culturale, colloca la stessa ad un gradino superiore a quello della fiaba/favola di rivisitazione moderna.

Ma procediamo con ordine. Il canovaccio di riferimento dei tre volumi della trilogia, si muove perpetuamente lungo due intrecci contemporanei e complementari tra loro: il battutissimo tema della quest eroica, incarnata dal giovane ed inesperto protagonista, Frodo, e il complementare ma altrettanto tipico motivo del “ ritorno di un Re” al suo legittimo regno, incarnato dal peregrinare di Aragorn il Ramingo, leader di carattere più politico che morale del destino toccato a Frodo.

È fuor di dubbio che l’abbandono della ridente Contea degli hobbits (di chiara proiezione edenica) da parte della Compagnia designata alla distruzione dell’anello, aderisce almeno sul piano formale agli schemi funzionali dei personaggi già propostici da Propp e Greimas. In relazione, poi, alle più moderne rivisitazioni del genere fantastico (si pensi, fra tutte, a quella condotta dall’oxoniano Philip Pullman con il suo HIS DARK MATERIALS) [5], Tolkien partecipa pienamente ad un gioco delle parti tra buoni e cattivi, tra aiutanti e oppositori, tra il mondo dell’essere e quello dell’apparire, rigorosamente inserito all’interno di un universo gerarchizzato all’estremo e retto dalle più rigorose leggi manichee, decisamente in crisi, invece, all’interno della produzione degli ultimi anni.

Sebbene anche in Pullman il punto di partenza del viaggio della giovane Lyra sia ancora una volta l’allontanamento dell’eroe dalla propria “comunità”, la gamma di personaggi proposti da Tolkien (fuorchè nel caso di Gollum-Smeagol-Frodo per il quale l’approfondimento psicologico si colora di maggiore intensità) non rivela la medesima complessità di quelli creati da Pullman, ad esempio, secondo il quale il principio fondativo dell’universo reale e fantastico, nonché strettamente narrativo, coincide per l’appunto con l’azzeramento di una prospettiva manichea stabile.

Sono la necessità d’azione unitamente all’abbandono della staticità edenica dell’innocenza ad essere “subite” dal giovane Frodo e a costituire il cardine intorno al quale ruota l’intera trilogia tolkeniana. La vittima prescelta si ritrova così suo malgrado coinvolta tra le trame del suo eterno oppositore, Sauron e del suo fido braccio destro Saruman, antico stregone partecipe della mitica e saggia comunità degli Istari, corrotto nell’anima dalle lusinghe del potere e dal desiderio fisico dell’anello.

Il controcanto necessario alla persecuzione di Frodo si svela quindi nella numerosa lista di aiutanti che ne segnano il cammino verso il Monte Fato: Aragorn il Ramingo, Legolas l’Elfo, Gimli il Nano,Tom Bombadil, simpatico spirito della foresta, Galadriel, potente dama elfica del reame fatato di Lothlorien, Merry e Pipino, Samvise Gamgee e Gandalf, ovviamente, proiezione della saggezza più pura ed incontaminata. Come evidente, l’intera struttura narrativa ritrova nella perpetua alternanza tra personaggi altamente positivi ed altri, invece, palesemente negativi, la propria ragion d’essere.

Si tratta perciò essenzialmente di un viaggio scandito dalla presenza costante di Frodo in cerca di se stesso. Il suo, infatti, si rivela un percorso formativo di coloritura morale, una sorta di tradizionale rite de passage, oltre il quale è costretto a proseguire dal battesimo alla vita, alla ricerca di se stesso: “Human nature is a nature continually in quest of itself ” [6].

È solo alla luce di tali considerazioni che il cammino narrativo prescelto da Tolkien, conclusosi in accordo al “movimento circolare” del ritorno a casa dei protagonisti e con il ristabilimento dell’ordine costituito, rimanda ad un finale “eucatastrofico” di particolare intensità. Il fanciullo riportato a casa, è ormai profondamente cambiato ed il principio stesso del male non può che constatarlo: “You have grown very much, Halfling […] You have robbed the sweetness of my revenge” [7].

La gioia incontrastata del ritorno a casa e l’attesa entusiastica di un nuovo futuro, non sono più elementi sufficienti all’effettivo reintegro dell’eroe nel suo habitat naturale. L’avvenuta consapevolezza del reale e la trasfigurazione prodottasi in Frodo in seguito alla distruzione dell’anello, rinnegano l’iniziale morale dell’azione proposta sin dal primo volume. Frodo stenta a riconoscersi nella sua stessa vita, e terminato il suo ruolo all’interno della propria comunità, non riesce a ricomporre la frattura che la caduta dall’innocenza all’esperienza ha ormai prodotto. Il suo esilio volontario verso le Terre Immortali coincide quindi con il commiato finale tanto dell’autore quanto del lettore.

In contrasto con un assoluto happy ending tradizionale, Tolkien fa della conclusione della vicenda un’“opera aperta” per dirla con Eco; fa dell’impegno fantastico un’apertura di senso e della fantasia il volto sovversivo della realtà. Tipica, invece, della fiaba tradizionale rimane la quest parallela di Aragorn.

Il riconoscimento del vero Re di Gondor, costituisce secondo la critica, uno degli elementi della certa ascrivibilità dell’opera tolkeniana agli universi della fiaba tradizionale, a garanzia, inoltre, di un presunto contratto di lettura paraletterario, stipulato tra l’autore ed il lettore, pronto ad immergersi nella storia a patto di rimanere soddisfatto da un totale lieto fine e da una sostanziale fiducia nella complessiva positività della storia.

Aragorn rappresenta, in effetti, uno tra i personaggi più tradizionali mai nati dalla penna di Tolkien. È al discendente di un’antica e valorosa stirpe di Re, che Tolkien riserva i panni di un eroe ben più stereotipato del giovane Frodo Baggins.

Costretto ad un lungo esilio ed al travestimento (al pari dei più nobili principi delle fiabe resi repulsivi da malefici incantesimi) e protagonista sospetto della vicenda a causa delle sue numerose identità (Granpasso, Aragorn, Dunedain, Elessar), Aragorn è invece il vero Re, mitico guaritore e guida legittima del suo popolo.

In relazione alla sua grandezza, Frodo pare ascrivibile ad un’altra categoria fiabesca, quella del “fratello minore”, contraddistinto dall’umiltà e dall’assenza di particolari abilità fisiche, ma “scelto” da un destino che gestisce le regole della vita e della morte: “There was something else at work, beyond any design of the Ring-maker. I can put it no plainer than by saying that Bilbo was meant to find the Ring, and not by its maker. In which case you also were meant to have it. And that may be an encouraging thought”[8].

La responsabilità di cui il giovane hobbit si fa carico cessa di essere personale; si tratta, invece, di ciò che Patricia Spacks ha definito come cosmic responsibility [9].

La distruzione del pericolosissimo anello e la sconfitta di Sauron (in altre parole, il compiersi di tale destino) si realizza nella cooperazione dei due eroi protagonisti Frodo e Aragorn, indispensabili l’uno all’altro, attestazione di una morale primigenia rappresentata dal giovane hobbit e dell’abilità politica del coraggioso Re. In linea con un’idea di ciclicità della storia, la distruzione dell’anello rappresenta, perciò, soltanto l’ennesima e temporanea trasfigurazione della realtà. D’altronde: “Tutto ricomincia dal suo inizio in ogni istante, che il passato non è che la prefigurazione del futuro […] e che nessuna trasformazione è definitiva [10]”.

Il mito propostoci è pertanto quello della “rinuncia”, rinuncia dell’anello, del potere, di tutto ciò che rifugge al controllo umano. A Tolkien rimane quindi un eroe “diverso”, una sorta di anti-Faust [11], ma non per questo un anti-eroe. A Frodo spetta il volto di un eroe anomalo, che venuto in possesso dell’assoluto Potere, accetta di distruggerlo piuttosto che agognarlo, padrone di quella saggezza degli umili, tanto cara al suo creatore.

THE LORD OF THE RINGS è dunque la storia di una quest negativa, di un viaggio al contrario lungo una via camusiana dell’“assurdo”, della rinuncia a ciò che si ama di più, della decostruzione dei più comuni punti di riferimento razionali, alla ricerca di un barlume di verità.


NOTE

[ ] L. Carter, A LOOK BEHIND THE LORD OF THE RINGS, New York, Ballantine Books, 1969. All’interno del volume, Carter tenta di tracciare lo sviluppo del genere fantastico dalle origini ( epica antica) sino al XX secolo.

[2] D.S. Brewer, THE LORD OF THE RINGS AS ROMANCE, in TOLKIEN SCHOLAR AND STORY TELLER. ESSAYS IN MEMORIAM, Londra, Cornell University Press, 1979, pp. 249-64.

[3] V. Propp, MORFOLOGIA DELLA FIABA (1928), Roma, Newton Compton, 2003, p. 89.

[4] Il saggio è contenuto all’interno della raccolta TREE AND LEAF, pubblicata da Allen&Unwin nel 1955, unitamente al racconto di matrice allegorica dal titolo LEAF BY NIGGLE. Negli anni Sessanta la stessa casa editrice decise di ripubblicare il volume con due ulteriori aggiunte: SMITH OF WOOTTON MAJOR e THE HOMECOMING OF BEORTHNOTH, già apparsi separatamente a cura dello stesso Tolkien rispettivamente nel 1967 e nel 1953.

[5] La trilogia di Philip Pullman nota con il titolo HIS DARK MATERIALS, venne pubblicata separatamente a partire dal 1995 con NORTHERN LIGHTS, nel 1997 con THE SUBTLE KNIFE per finire nel 2000 con THE AMBER SPYGLASS, per i tipi della Scholastic. Il primo volume è giunto invece in America con il titolo THE GOLDEN COMPASS, pubblicato nel 1996 dalla casa editrice Knopf.

[6] W. Auden, THE QUEST HERO IN TOLKIEN AND THE CRITICS, a cura di N. Isaacs e R.A. Zimbardo, University of Notre Dame Press (Indiana, U.S.A.), 1976, p.40.

[7] J.R.R. Tolkien, THE LORD OF THE RINGS, Boston, Houghton Mifflin Publishers,1966, III, p. 299.

[8] THE LORD OF THE RINGS, cit., I, p. 65;

[9] P.M. Spacks, POWER AND MEANING IN THE LORD OF THE RINGS, IN TOLKIEN AND THE CRITICS, cit., pp 81-99.

[10] M. Eliade, IL MITO DELL’ETERNO RITORNO. ARCHETIPI E RIPETIZIONI, Roma, Borla, 1999, p. 91

[11] R. Helms, TOLKIEN’S WORLD, Londra, Thames and Hudson, 1947, p. 51.

23/09/08

Annalisa Montironi, FINISTORIAE


[Coat of arms? (From the walls of Genoa). Foto di Marzia Poerio)


Annalisa Montironi, FINISTORIAE. Contiene una prefazione di Salvatore Scalia. Catania, edizioni Prova d'Autore di Nivels Levan & C., 2004

"Fine della storia", come richiama il titolo di questo romanzo, è un sintagma a doppio taglio nel testo di Montironi. Da un lato, essendo ambientato nello Stato Pontificio nel 1870, poco prima della presa di Porta Pia e subito dopo, il rimando è alla fine di un evento storico: il potere temporale dei Papi, sostituito da quello dello stato italiano. Dall'altro lato, si cerca di trovare una continuità nella storia di famiglia del mondo immaginato nel testo e nei racconti che ne derivano, puntando verso una conclusione della storia intesa come narrazione.

L'intreccio comprende una concatenazione di avvenimenti in cornice, ove il protagonista, Ignazio Dalla Francia, proveniente da una famiglia di tradizione antica, nel marzo 1870 avvia una relazione orientata verso il matrimonio con Augusta, di famiglia decaduta. Ignazio si ritira per qualche tempo a Giredo, nel palazzo di famiglia, restando in rapporti difficili col padre Odoardo e scrivendo una cronologia della sua famiglia, protratta per vari secoli e composta delle biografie degli antenati, che noi leggiamo, occasione di dimostrazione di "quante lacrime grondi e di che sangue" la potestà su un luogo geografico e politico, rappresentato allegoricamente dal palazzo dei Dalla Francia: "la malia che vietava ogni felicità, avvolta nel bozzolo del palazzo, il vero centro che nessuno considerava e temeva" (p. 23). Alla dimensione pubblica si accompagna un resoconto dei dolori e delle gioie del privato, due aspetti che si intrecciano.

Mentre svolgono le loro funzioni narrative e connotano di un intreccio amoroso lo svolgimento dell'azione, scrivendosi delle lettere tra Giredo e Roma riportate integralmente nel testo del romanzo, i personagi principali, Ignazio e Augusta, sono essi stessi delle allegorie. La miseria muta Augusta: "iniziò a trasformarsi e far sentire più forte il suo lato oscuro" simile a quello di "ogni divinità antica" coi "suoi misteri, i lati […] impenetrabili ai quali ci si poteva accostare" (p. 13). Per Ignazio, nello sfarsi del potere politico e della tradizione, "il profilo di lei era l'unica forma definita e riconoscibile oltre il disordine e l'inutilità che dominavano la città" (p. 14). "Traditore" agli occhi della famiglia per non proporsi un "buon matrimonio", nelle parole di rimprovero dei genitori, "Ignazio si udì come temeva d'essere, incapace di vita, di lavoro, di fedeltà; responsabile della decadenza della famiglia, simbolo dei disordini nello Stato, dall'intera città compatito per la sua insufficienza" (p. 23).

FINISTORIAE è pieno di motivi: le origini araldiche affondano nella storia della Sicilia. La rassegna delle vite biografate è una serie di moltiplicazioni della personalità, con le passioni basilari, l'amore, il tradimento, la cupidigia, la generosità.

L'aspetto di romanzo epistolare e l'uso in esso del presente, consente una presa sul tempo reale, come se lo si rivivesse nella contemporaneità. Strutturalmente lo scambio epistolare permette di alternare i tempi narrativi con il passaggio dalla terza persona narrativa delle parti raccontate alla prima delle lettere, variando così lo scorrimento della fabula ed aggiungendo un elemento di testimonianza.

C'è suspense sul lieto fine della storia di cornice, che solo nell'ultima pagina si realizza (per fortuna: il lettore che compila queste note lo sperava e si sarebbe deluso se la conclusione com'essa è non ci fosse stata).

La riflessione costante sul raccontare costituisce un altro motivo di interesse, che come la presenza di un racconto di collegamento e le deviazioni verso tanti altri novellari ricorda lo schema narrativo di SE UNA NOTTE D'INVERNO UN VIAGGIATORE di Italo Calvino.

Si ha così un'ossatura della modernità dentro un linguaggio anticato, che riproduce le idiosincrasie di parola dell'Ottocento, per esempio l'uso delle formule di cortesia col "Voi" e certi passatismi intenzionali di lessico.

La scrittura compatta idee e concezioni, procede con lentezza e in modo meditativo.

Il romanzo è storico ma al tempo stesso introspettivo.


[Roberto Bertoni]

21/09/08

Francesco Biamonti, IL SILENZIO

Torino, Einaudi, 2003


Si tratta dell'inizio di un romanzo pubblicato postumo, che Biamonti progettava con "il titolo ipotetico" IL SILENZIO, come si deduce dalle interviste rilasciate per il "Secolo XIX" nel 1998 e 1999 ad Antonella Viale e per il "Giornale del Popolo" di Lugano nel 2000 a Manuela Camponovo, allegate al volume.

L'idea era di "raccontare i disastri delle ideologie morenti" (p. 41) e di evitare ogni consolazione ("sto cercando di affrontare la realtà del nostro tempo senza più consolazioni", p. 38), anche quella che l'autore riteneva avere riposto fino ad allora nella descrizione della natura:

"Abbandonerò la natura come consolazione. Nei miei romanzi la natura va dalla vita alla morte, dalla morte alla vita, è completamente metamorfica, lo spazio è inficiato, il tempo è malato e il mondo è un abisso. Però molti si consolano con le mie descrizioni delle nuvole, del cielo, del mare. Ora non voglio più offrire questa consolazione, voglio che questo diventi un ulteriore pungolo all'angoscia che investe tutta la nostra coscienza" (p. 38).

Non a caso, Biamonti cita nelle interviste Dostojevskij e Leopardi.

Il romanzo doveva avere due personaggi principali, uno giovane "che vive in una cieca nebbia" e un altro "che contempla le rovine del mondo". Biamonti progettava uno stile che definiva "un realismo assoluto, metto sempre l'uomo in situazione, a confronto con le cose [...]. Omero non dice che Elena è bella, dice: 'quando entrò tutti gli uomini si alzarono in piedi'" (p. 37).

Nelle pagine pubblicate, Edoardo, il protagonista maschile, ex navigante, ha una storia con Lisa, il cui marito da giovane è stato ucciso dai suoi complici perché traditore di un gruppo terrorista. Un'amica di Lisa, Hélène, entra in clinica per aver tentato di suicidarsi a causa di un coniuge drogato che la vicinanza di lei aggrava.

Lo stile del brano riferito in questo volume senza le varianti, ma inferendo dalle correzioni sul manoscritto come sarebbe stato nell'ultima versione disponibile, tiene fede alle premesse di poetica esplicita, rendendo in effetti le situazioni, come anche altrove nei testi di Biamonti, indirettamente, attraverso le parole e gli atti dei personaggi.

La disperazione è associata al silenzio in una scena idillica infranta:

"Adesso c'era silenzio. Ma che sere! Che melodie! Grumo di tenerezza: pastore, cane e capre, avvolti dal vento che saliva dal mare. Mano del pastore sulla testa del cane, e muso del cane sulle ginocchia del pastore. Suonava per lui e per il suo cane, tra l'indifferenza delle capre. Adesso c'era silenzio e nulla in cui sperare" (p. 4).

I riferimenti alla natura, sebbene nella chiusa antiidillica come qui sopra, costituiscono, come già in Leopardi (e con un riferimento alla vittoriniana “quiete della non speranza?) un elemento di lirismo, quasi la presenza costante della natura non potesse essere sfiorita del tutto ed elusa; rappresentano inoltre un fattore di contatto con le emozioni.

Il luogo in cui abita Edoardo è "un po' fuori del mondo", con una terra caratterizzata oltre che da silenzio, anche, metaforicamente, dal fango: "la terra sotto i noci era fango e silenzio" (p. 5). La scena è tutt'uno col sentimento della negatività, come pure con quello dell'inanità nel brano in cui si legge: "un luogo dove terra e cielo cozzavano l'uno contro l'altro, di luce forte che non serviva a niente" (p. 11).

Nondimeno, altrove, la descrizione dei fiori, delle cime, della realtà rurale è precisa e connotata anche in modo positivo, o comunque poetico, surrealmente lirico: per esempio, a corrispettivo di "un fondo di tristezza", si trova "un muro viola" che "stava sospeso in un cielo ancora diafano" (p. 14).

Si anima soprattutto il mare, che è "il luogo dei ricordi" (p. 8) non solo funzionalmente alla professione precedente di Edoardo, ma si direbbe anche per un inconscio che mira verso la liquidità e l'acqua mentre la parte razionale cerca il silenzio, la riduzione del passato a sillabe che eludono l'esplicito.

Quel che leggiamo in questa versione breve del SILENZIO non pare un incipit a chi qui scrive queste note, ma a confronto con altre opere di Biamonti, così aperte e segrete, sembra un racconto compiuto in sé, in cui il silenzio potrebbe forse essere meglio definito, nei rapporti umani, come reticenza, difficoltà a dire di sé, forse volontà di evitare il dire di sé, come fa Edoardo che accenna al passato di marinaio ma non vuole descriverne i dettagli.

Il silenzio, tuttavia, non è ammesso con facilità dall'inconscio, non è troppo possibile nell'intimità degli innamorati, come sembrano intuire Edoardo e Lisa quando l'autore avverte che "contraddicendosi, facendo il contrario di ciò che si erano proposti, parlarono sino a giorno fatto" (p. 19).

Allo stesso modo la tendenza della volontà verso l'oblio ("non voleva che il chiaro lo cogliesse per strada, con tutto il suo corteo di evocazioni", p. 31), che accompagna la reticenza, è contraddetta dai movimenti del profondo, ancora una volta paragonato al mare: "Il passato ha onde di fondo che non si fermano [...]. Certe volte mi ritrovo dove sono stato. Ho un bel voler dimenticare" (p. 28).

Vita di solitudine, quella di Edoardo, che per lo meno fornisce questi connotati del suo passato: "Partivo sempre [...], per necessità [...]. E avrei voluto una vita senza partenze: calpestare sempre lo stesso suolo" (p. 29).

Anche l'amore, che potrebbe salvare, viene in parte contestato da una visita dei due amanti a un locale particolare della costa in cui i loro desideri non si corrispondono. L'ultima frase di Lisa, che conclude il testo, è un rimprovero: "Perché non mi hai fermata?" (p. 32).

Una fine sospesa che per un calviniano è pregio più che limite del testo non completato di Biamonti.


[Roberto Bertoni]

19/09/08

Laura Benedetti, THE TIGRESS IN THE SNOW. MOTHERHOOD AND LITERATURE IN TWENTIETH-CENTURY ITALY

Toronto University Press, 2007


This book is a history and analysis of the representation of motherhood in Italian literature from 1886 to 1997, in the context of the historical, social, ideological, religious and demographic background of twnetieth century Italy. It traces the changes and events that affected Italian women throughout the twentieth century and their influence on the experience and literary representation of motherhood. While there is an abundance of literary depictions of the mother as an object viewed in relation to the son/daughter (from Giovanni Pascoli to Vivian Lamarque), what Benedetti brings together in her valuable study is the representation of the maternal figure as subject, and hence of motherhood as a woman’s experience from her point of view, which can be traumatic, desired, feared, inescapable, rewarding, enslaving, absorbing, paramount, or represented in idealised or mythical terms.

Italian writers who have contributed, in varying degrees, to the literary portrayal of the subject of motherhood analysed by Benedetti are: Carolina Invernizio, Neera (Anna Radius Zuccari), Carla Prosperi, Annie Vivanti, Luigi Pirandello, Sibilla Aleramo, Maria Di Borio, Grazia Deledda, Giovanni Verga, Margherita Sarfatti, Ada Negri, Gianna Manzini, Matilde Serao, Maria Luisa Fiumi, Paola Drigo, Alba De Céspedes, Giuseppe Marotta, Natalia Ginzburg, Fausta Cialente, Elsa Morante, Dacia Maraini, Carla Cerati, Oriana Fallaci, Clara Sereni, Fabrizia Ramondino, Elena Ferrante, Cristina Comencini, Francesca Sanvitale, Antonia Pozzi, Susanna Tamaro, Valeria Viganò. This obviously does not cover the whole canon of women’s writing in Italy, and on the other hand the selection includes male-authored texts as well as texts that are deservedly forgotten as Maria Di Borio’s UNA MOGLIE, 1909 (p. 32) but representative of contemporary conceptions of motherhood and hence indicative of the influence exercised by the dominant ideology and moral codes.

Though the book follows a chronological order, the author effectively highlights for each period the crucial factors that characterised that time: ‘Mother at the Dawn of the Twentieth Century’ (Chapter I, pp. 12–42), from 1886 to the Twenties, outlines the establishment of a new notion of motherhood as emotional bond (not at all to be taken for granted in the previous century) and, among other facets, the conflict between creativity and motherhood that is depicted in works like Pirandello’s SUO MARITO, Vivanti’s I DIVORATORI (a title ominously referring to the offspring) and the highly controversial UNA DONNA by Aleramo. ‘Resilience and Resistance: The Fascist Years’ (Chapter 2, pp. 43–73) shows how the fascist ideal of madri prolifiche never made it to becoming a popular theme in literature, which portrayed rather the subtleties of motherhood as a ‘secret, privileged relationship’, the ‘principle of mythical regeneration’, a ‘form of servitude handed down from mother to daughter’, and so on. ‘Questioning Motherhood’ (Chapter 3, pp. 74–93) traces the fundamental changes in the notion of motherhood from post-war years to the social upheavals of the Seventies that, among other things, posed new ideological conflicts in the way emancipation and motherhood were considered to be antithetical. Benedetti explores the subtle contradictions and nuances in Morante’s ‘mythical’ mothers, Fallaci’s letter to an unborn child that leads to the acknowledgment of a woman’s power to deny life but not to give it, and in the realisation that ‘la maternità non è tutto, non può essere tutto’ in Cerati (p. 87). ‘Struggling with the Mother’ (Chapter 4, pp. 94–113) provides an insightful analysis of the relationship between feminism, daughters and mothers, and the crucial topos of the city in Ramondino’s ALTHÉNOPIS and Ferrante’s L’AMORE MOLESTO. This chapter inevitably refers the reader to Adalgisa Giorgio’s seminal work on the mother–daughter relationship in WRITING MOTHERS AND DAUGHTERS. RENEGOTIATING THE MOTHER IN WESTERN EUROPEAN NARRATIVES BY WOMEN (2002). ‘Mothers without Children’ (Chapter 5, pp. 114–22) offers a novel interpretation of motherhood as an attitude independent of biological factors that develops alongside the social practice of affidamento, and is exemplified by Viganò’s PROVE DI VITE SEPARATE and Maraini’s DOLCE PER SÉ.

The theoretical framework for this study is provided by international gender criticism, as represented by Adrienne Rich, Marianne Hirsch, Nancy Chodorow and Sara Ruddick, together with the philosophical revisions of the Diotima group. It is no coincidence that these critical contributions, as well as laying the foundation for a conceptualization of motherhood, appear to become more pertinent in the discussion of either more controversial texts such as those by Aleramo and Fallaci, or in the works from the Eighties onwards discussed in last two chapters.

It is inevitable that an overview of motherhood across the whole of Italian twentieth-century literature should touch only briefly upon some works and privilege others, but this, far from being a shortcoming, makes the study extremely focussed and engaging. Benedetti succeeds in finding the delicate balance between completeness within the set boundaries, focus, and depth of analysis, while providing the reader with the background that is essential for a clear understanding and contextualization of the fascinating subject of motherhood in literary texts.


[Vilma De Gasperin]

17/09/08

Guru Dutt, KAAGAZ KE PHOOL

1959. Sceneggiatura: Abrar Alvi. Testi delle canzoni: Kaifi Azmi. Musica: S. D. Burman. Con Guru Dutt, Naaz, Waheeda Rehman, Veena

Il regista Suresh Sinha (l’attore è il regista Guru Dutt) vive separato dalla moglie Bina (l’attrice Veena), appartenente a una famiglia anglicizzata e aristocratica che a causa della professione di Suresh gli impedisce anche di vedere la figlia Pammi. Suresh, durante la lavorazione del film DEVDAS, si imbatte in una ragazza del popolo, Shanti (interpretata da Waheeda Rehman) e la trasforma in attrice. Shanti si innamora di Suresh, ma per altruismo si allontana dalla sua vita quando Pammi le chiede di farlo affinché suo padre a sua madre si riconcilino, il che non accade. Da quel momento, invaso dalla mancanza dell’amata e perseguitato da un destino avverso, Suresh si dà all’alcool. Sinha, che per questioni legali è costretta a continuare la vita d’attrice, non riesce a recuperarlo. Raccontata restrospettivamente da Suresh, la storia si conclude col suo decesso sulla poltrona da regista quando da anziano rivisita gli studios in cui lavorava all’apice della carriera.

Si tratta di un film sulla labilità della buona sorte e sul cinema, oltre che sulla differenza di classe sociale e le difficoltà del matrimonio, dell’amore, della solitudine.

Se dall’intreccio, come lo si è rapidamente delineato sopra, si nota l’appartenenza di genere al melodramma, non raro nei film indiani, ci si trova però di fronte a un’opera che va molto al di là, sia in termini di realtà nella rappresentazione di un tema che deve essere apparso piuttosto anticonformista nell’India degli anni Cinquanta, ovvero la separazione tra i coniugi, sia in termini di stile della rappresentazione: la tipizzazione melodrammatica c’è assieme a quella comica (affidata ad alcuni buoni caratteristi che come in altre pellicole indiane alleggeriscono la drammaticità forte degli eventi), ma si ha al contempo una ricerca di movimenti corporei corrispondenti alla vita, un dialogo intelligente e funzionale alla storia narrata, inquadrature di impianto diremmo neorealista (la scuola di campagna, per esempio, con bambini che paiono abitare con spontaneità l’ambiente in cui li riprende la telecamera).

L’ossatura narrativa ha un sovrastrato metanarrativo. Come si accennava, infatti, KAAGAZ KE PHOOL è un film sul cinema. Non solo racconta la storia di un regista fittizio, ma lo stesso regista reale di questo film lo interpreta con funzioni di attore protagonista. Il film che sta girando il personaggio all’inizio è DEVDAS, ben noto se se ne erano prodotte diverse versioni nel 1928, 1935, 1936, 1955 (di una del 2002 ci si occuperà nei prossimi giorni su queste pagine). Il protagonista Devdas disperde la propria vita a causa di un amore irrealizzato, oltre ad altro che accade; e il motivo della caduta è forse quello che più si collega a KAAGAZ KE PHOOL assieme alla presenza di due donne nella vita di Suresh come in quella di Devdas. Senza contare, a livello metanarrativo, la presenza del riferimento al genere cinema: al protagonista cineasta manca un’attrice che interpreti Paro (un personaggio di DEVDAS) e la cerca nella vita reale, così dice, assumento però, per questo ruolo di popolana, una della maggiori attrici indiane del tempo, Waheeda Rehman appunto. Le raffinatezze allusive abbondano, per esempio il cinema dentro il film: quando si rappresenta la prima del film di Suresh, non si mostra lo schermo, ma la platea col pubblico, alludendo all’elemento principale, la visione del film, obliquamente tramite chi lvi assiste mentre noi osserviamo quegli spettatori senza poter vedere il film fittizio; si evita in tal modo una ripetizione dello schermo del film di Sinha dentro lo schermo sul quale già presenziamo alla proiezione di KAAGAZ KE PHOOL.

Sul piano esistenziale, oltre all’amore, alla solitudine e al sacrificio, appare in posizione forse dominante il destino, contro il quale Suresh non ha partita; e che favorisce la carriera, ma rattrista la vita, di Shanti. Questo motivo è ripetuto e sottolineato nella canzoni (come lo spezzone tradizionale interrotto dall’addolorato protagonista perché dice: “Il fato ci ha preso in trappola; la vittoria e i fallimenti fanno parte del gioco; perché preoccuparsi?”). Affiancato a questo tema è quello della validità delle scelte individuali rispetto a quelle dettate dall'ambiente, dalla posizione sociale, dal pregiudizio, anche a rischio di pagare di persona prezzi alti.

Tra le canzoni, ci è piaciuta soprattutto WAQT NE KIYA KYA HASEEN SITAM (“Dolce calamità non essere più gli stessi, noi due, cuori senza posa che si uniscono come se non fossero mai stati separati”) (WAQT NE KIYA U-TUBE).

Film della modernità e dell’impero del bianco e nero, sentimentale e socialmente forte, autoriflessivo, di notevole recitazione per merito soprattutto di Dutt e Rehman.

[Renato Persòli]

15/09/08

Carl Gustav Jung. RICORDI, SOGNI, RIFLESSIONI


[Solid stone and sphere perfection with nearby biological life (from Garbagna). Foto di Marzia Poerio]


Titolo originale: ERINERRUNGEN, TRAUME, GEDANKEN von Carl Gustav Jung (1961). Edizione italiana: Carl Gustav Jung, RICORDI, SOGNI, RIFLESSIONI. Raccolti ed editi da A. Jaffé. Milano, Rizzoli, 1992 (Ristampa 2007).

Jung spiega come a un certo punto della sua vita, anche per superare il lutto per la morte della moglie, abbia scolpito la pietra e creato una scultura nella casa di Bollingen. Tale è anche la sua opera che si forma per strati successivi e risulta da uno scavo e un modellamento dei materiali man mano acquisiti, come sembrerebbe risultare da questo libro, che non è un'autobiografia nel senso tradizionale, bensì principalmente (ma non solo) un racconto della "visione interiore": "la mia vita è la storia di un'autorealizzazione dell'inconscio. Tutto ciò che si trova nel profondo dell'inconscio tende a manifestarsi al di fuori, desidera evolversi oltre i suoi fattori inconsci, che lo condizionano"; la vita "sperimenta se stessa come totalità" (p. 27).

Trattandosi di resa della realtà interiore più che di quella esteriore, è affascinante, per chi si interessa di psicologia junghiana, notare quanto essa spesso provenga da sogni del pensatore svizzero: rivelatori di particolari momenti dello sviluppo delle sue ipotesi sull'inconscio, o che ne preannunciarono dei passaggi, come la percezione fin da ragazzo, osservata su di sé, della convivenza di due atteggiamenti diversi della personalità; o lo studio sperimentale, ancora una volta su di sé, delle immagini interiori, da cui rivela di essersi salvato prima di cadere nella psicosi, facendo ricorso non solo alla mediazione del pensiero razionale, ma anche a tecniche yoga.

In RICORDI, SOGNI, RIFLESSIONI, non si forniscono i dati delle esperienze concrete compiute se non quando essi siano particolarmente significativi per capire le concezioni della psicologia analitica. Sono descritti momenti dei viaggi, per esempio, in luoghi primigeni d'Africa, Asia e America, da cui Jung trasse la relatività del pensiero europeo, la vicinanza degli abitanti originari delle Americhe e dell'Africa all'emotività e alle personificazioni della natura, la complessità delle filosofie indiane e in esse in particolare la coesistenza di bene e male e di altri opposti.

Forse curioso è il ricorso a momenti di sincronicità, ovvero avvenimenti inspiegabili che si potrebbero ritenere casuali, ma si rivelano significativi: premonizioni di decessi, intuizioni come lo scricchiolare di un muro nella casa di Freud, che quest'ultimo attribuì a forze deterministiche, mentre Jung ne vedeva l'aspetto magico-premonitorio. Di premonizioni, del resto, era esperta la madre, che forse trasmise questa facoltà a Jung, secondo il quale "il futuro è preparato nell'inconscio già molto tempo prima, e [...] perciò può esssere indovinato dai chiaroveggenti" (p. 283)

La rottura con Freud è un momento spiegato di questo volume e attribuito a divergenze di opinioni, oltre che di carattere. Jung vedeva nella teoria della sessualità di Freud una parzialità interpretativa, mentre per l'analista elvetico la complessità si pone in primo piano: l'inconscio è una forma di energia che si sviluppa in varie direzioni; la sessualità è rilevante sullo stesso piano degli altri istinti positivi e negativi. Una psicologia unica non può spiegare e risolvere i casi clinici, in quanto "la terapia è diversa per ogni caso [...] perché la soluzione del problema è sempre individuale; [...] in un'analisi mi si può sentir usare il linguaggio di Adler, in un'altra quello di Freud" (p. 170). In parallelo e non in contraddizione con questo accento sull'individualità, Jung annetteva alla propria filosofia gli archetipi dell'inconscio collettivo, un aspetto che Freud vedeva con sfavore. Si sentiva mosso più "dalla ricerca della verità" che dall'appartenenza a una scuola o a una corrente (p. 199).

L'infanzia tra religiosi (il padre e altri familiari) deve aver influito sulla riflessione laica di Jung su Dio, come pure sul riferimento alle storie della Bibbia. Lo si constata in molta sua produzione e soprattutto nel LIBRO DI GIOBBE, rapportato alla figura di Cristo. Giobbe si domanda il perché del dolore; Cristo nulla sa se non che deve penare; venendo la sofferenza da Dio, sta a Dio stesso sacrificarsi per mezzo di Giobbe e di Cristo. Cristo rappresenta un'immagine del Sé nell'Occidente, secondo Jung, ovvero della totalità psichica, delle varie forze che compongono la psiche.

Non c'è comunque un'ossessione religiosa, bensì una tendenza a dare all'aspetto mistico il posto integrato che merita in una concezione del mondo scientifica e insieme umanistica: da qui anche l'interesse per le religioni orientali a cui si rapportano concetti junghiani come quello di mandala ("il centro, [...] l'espressione di tutte le vie, [...] la via al centro, l'individuazione", p. 241), della quaternità e dell'enantiodromia.

Negli alchimisti, che studiò da erudito qual era (anche professore universitario per alcuni anni), trovò conferma della forgia inconscia, della tendenza all'individuazione, del rapporto tra i contrari (soprattutto tra il maschile e il femminile) che sfociano nella coniunctio. Scrive: "la psicologia analitica concordava stranamente con l'alchimia. Le esperienze degli alchimisti erano, in un certo senso, le mie esperienze, e il loro mondo era il mio mondo [...]; avevo trovato l'equivalente storico della mia psicologia dell'inconscio" (p. 250).

Poco trattato il tema dell'Ombra; piuttosto affrontate, negli ultimi capitoli, le preoccupazioni per un'umanità che presa nella massificazione e nella vita materialistica e di consumo ha perso di vista la semplicità da cui proviene, almeno in parte, anche l'equilibrio. La felicità è affidata all'interiorità: "se ci si concentra su ciò che vuole e dice la personalità interiore, il dolore passa" (p. 238).

[Roberto Bertoni]

13/09/08

Nino Arrigo, SULLA CRITICA TEMATICA: NOTIZIE DALL’ITALIA

Nonostante oltreoceano, in anni recenti, alcuni critici abbiano contribuito a dare vigore ad uno studio tematico della letteratura, si è addirittura proposto un “ritorno alla critica tematica” [1], qui dall’Italia si procede, sospettosi, all’insegna delle cautele.

Alcuni critici, fra i quali Lavagetto, ci mettono in guardia dagli eccessi della critica tematica, i cui rimedi non sarebbero - ad avviso di quest’ultimo - sufficienti a salvare la critica italiana da una “dolce morte”:

“così venne riscoperta la vecchia critica tematica e niente (nessun oggetto: dalle nuvole ai viaggi, dalla nascita alla morte) apparve tanto insignificante da non poter assurgere a valore di tema e a trasformarsi con qualche piccola e abile sollecitazione, nell’esile filo che veniva fatto passare velocemente attraverso i testi più diversi, con disinvoltura manipolati e 'ridotti' in funzione delle necessità dimostrative” [2].

Tuttavia c’è chi, come Remo Ceserani, ha creduto a tal punto in un siffatto approccio critico alla letteratura, da costruire un monumentale DIZIONARIO DEI TEMI LETTERARI [3]. Ma ci sono anche critici della nuova generazione, del calibro di Massimo Fusillo, che usano a tal punto con agilità, versatilità e intelligenza lo strumento della critica tematica, da ottenere, spesso, ottimi risultati. È il caso del bel libro di Fusillo su Dioniso [4].

La posizione di Ceserani prende però le distanze dall’importante stagione francese della mythe-critique [5], che ha sostituito il concetto di tema con quello di mito, rendendoli pressochè sinonimi. Questa tendenza critica, dietro l’influenza di modelli psicanalitici, trova nell’opera di Bachelard uno dei suoi possibili incunaboli [6].

Dal canto nostro, non possiamo che considerare un arricchimento un simile apporto critico. Non è affatto un caso, infatti, se Bachelard, oltre ad essere un pioniere della fenomenologia dell’immaginazione poetica sia anche il pioniere di un nuovo spirito scientifico. E se apprezziamo l’approccio pragmatico alla critica tematica di Ceserani - che, dal canto suo, non ha mai fatto mistero della sua distanza dai modelli junghiani, procedendo all’insegna di un freudismo eclettico -, tuttavia ne segnaliamo alcuni possibili limiti.

Riteniamo infatti che, per avere cogenza critica, un tema debba affondare le proprie radici nelle strutture profonde dell’immaginazione. Ora, procedere all’insegna di una concezione dell’inconscio rigidamente identificata con il “rimosso”, qual è quella freudiana (ancora peggio se nella vulgata di Orlando [7], dove viene sostituto con il termine “represso”), non farebbe - a nostro avviso - che ridurre le possibilità dell’immaginazione.

All’idea di un inconscio, ridotto alle “insane patologie” del rimosso, del “familiarismo” edipico e di una scrittura come “terapia” [8], riteniamo di gran lunga più utile, dal punto di vista delle potenzialità simbolico letterarie in essa contenute, l’idea - proposta, non a caso con pungente provocazione nei riguardi del freudismo, da Deleuze e Guattari - di un inconscio come “macchina desiderante” [9].

Ma un altro problema, a nostro avviso, fa da sfondo alla critica tematica: quello della storia.

È la storia letteraria, infatti, a rappresentare la cornice del tema, a registrarne variazioni e permanenze, costanti e varianti: “elementi che permangono da cultura a cultura, ed elementi che si trasformano; per deformazione professionale il comparatista si interessa inevitabilmente più ai primi (ma non nega certo i secondi)” [10].

Ma quale storia? Una storia con una linea dritta verso un télos, rigidamente simmetrica ed evolutiva, portatrice di una logica, alla maniera di Francesco Orlando? O una storia fatta di discontinuità, di variazioni e permanenze a un tempo, la cui logica non potrebbe allora che essere quella, paradossale, del mito nietzschiano dell’eterno ritorno (“tutte le cose dritte mentono (...) Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo” [11], suggeriva il nano a Zarathustra)? Noi incliniamo verso la seconda.

Ma persino da Franco Moretti (certamente immune da compromissioni con il cosiddetto “irrazionalismo”) - in un capitolo dedicato agli “alberi” e alle storie letterarie, del suo recente LA LETTERATURA VISTA DA LONTANO - giunge un attacco, tanto garbato quanto reciso, nei riguardi di Francesco Orlando, dei suoi alberi e della sua visione della storia dove vigono, ancora, la “simmetria” e la logica binaria:

“Che la storia abbia una logica, si sa, è un’idea affascinante. Ma è anche estremamente improbabile. Qui la teoria darwiniana - così come è riassunta e visualizzata negli alberi evolutivi - dà al processo storico una forma completamente diversa: comprensibile, naturalmente, ma anche sempre asimmetrica. Negli alberi evolutivi a differenza degli OGGETTI DESUETI (...) le biforcazioni morfologiche non sono mai binarie, ed escludono quindi in partenza il principio di simmetria adottato da Orlando (...) la storia ha una forma, sì; ma non così bella” [12].


NOTE

[1] Cfr. W. Sollors, (a cura di), THE RETURN OF THEMATIC CRITICISM, Cambridge (Mass.)-London, Harvard U. Press, 1993. Di Sollors si veda anche: LA CRITICA TEMATICA OGGI, in “L’asino d’oro”, V. 9, 1994, pp. 156-81.

[2] M. Lavagetto, EUTANASIA DELLA CRITICA, Torino, Einaudi, 2005, pp. 56-57.

[3] R. Ceserani-M. Domenichelli-P. Fasano, (a cura di) DIZIONARIO DEI TEMI LETTERARI, Torino, UTET, 2007.

[4] M. Fusillo, IL DIO IBRIDO, Bologna, Il Mulino, 2006. In questo stesso filone val la pena segnalare: P. Boitani, L’OMBRA DI ULISSE. FIGURE DI UN MITO, Bologna, Il Mulino, 1992; G. Paduano, LUNGA STORIA DI EDIPO RE. FREUD, SOFOCLE E IL TEATRO OCCIDENTALE, Torino, Einaudi, 1994; R. Ceserani, LO STRANIERO, Roma-Bari, Laterza, 1998; M. Fusillo, L’ALTRO E LO STESSO. TEORIA E STORIA DEL DOPPIO, Firenze, La Nuova Italia, 1998; si veda anche, per uno studio di carattere teorico e generale, D. Giglioli, TEMA, Firenze, La Nuova Italia, 2001.

[5] Cfr. P. Brunel, MYTHOCRITIQUE. THEORIE ET PARCOURS, Parigi, Puf, 1992. Pregevole espressione di questa temperie critica è il già citato DIZIONARIO DEI MITI LETTERARI, a cura di Brunel. Si veda inoltre RÉÉCRITURE DES MYTHES: L’UTOPIE “AU FAMININ”, a cura di J. Cauville e M. Zupancic, Amsterdam-Atlanta, Rodopi, 1997.

[6] Sulla linea inaugurata da Bachelard, ma con più precise finalità letterarie, si possono collocare gli studi di Jean-Pierre Richard: POÉSIE ET PROFONDEUR, Parigi, Seuil, 1966; PROUST E IL MONDO SENSIBILE (1974), tr. it., Milano, Garzanti, 1976; e di Jean Strarobinski, di cui si veda in particolare: RITRATTO DELL’ARTISTA DA SALTINBANCO (1983), tr. it., Torino, Boringhieri, 1984; ma anche: L’OCCHIO VIVENTE. STUDI SU CORNEILLE, RACINE, ROUSSEAU, STENDHAL, FREUD (1961), tr. it., Torino, Einaudi, 1975.

[7] La nozione di inconscio adottata da Orlando è “largamente influenzata dalla sua scelta ideologica di tipo storicistico e razionalistico. Egli infatti tende a far coincidere l’inconscio con il rimosso, che significativamente arriva a sostituire col termine ‘represso’ (e negli ultimi tempi con quello alternativo di ‘superato’). Se l’inconscio è il represso, e addirittura il ‘represso sociale', allora viene meno (...) l’importanza del Trieb, cioè delle pulsioni primarie con la loro alterità pre-simbolica. Così l’inconscio diventa luogo eminentemente linguistico, il giacimento di ciò che, espulso dalla coscienza, è pur sempre passato attraverso i filtri della coscienza, cacciato nel buio della repressione indotta dai codici culturali di un certo ambiente e di una certa epoca. Nella comunicazione letteraria si ha, dunque, un 'ritorno del represso', che non rinvia dunque a nessun Altro ma semplicemente a contenuti censurati, e già quindi linguisticamente strutturati, che riemergono nei testi con le debite schermature e mascherature” (E. Gioanola, PSICANALISI E INTERPRETAZIONE LETTERARIA, Milano, Jaca Book, 2005, pp. 42-43).

[8] Tuttavia Freud, che non era poi così freudiano, si abbandona spesso al “fascino mitico di ciò che la nevrosi comporta, vale a dire il bisogno di ricordare, di ritornare e di ripetere”, contraddicendo “la perorazione razionale dell’emancipazione dalla nevrosi” (L. Coupe, IL MITO. TEORIA E STORIA, Roma, Donzelli, 1999, p. 97).

[9] Cfr. G. Deleuze-F. Guattari, L’ANTI-EDIPO. CAPITALISMO E SCHIZOFRENIA (1972), tr. it., Torino, Einaudi, 1975. Non è un caso se Deleuze e Guattari valutano positivamente il punto di partenza da cui Jung muove la sua rottura da Freud: “Jung notava che lo psicanalista nel transfert appariva spesso come un diavolo, un dio, uno stregone, e che i suoi ruoli andavano singolarmente al di là delle immagini parentali. Tutto è peggiorato in seguito, ma il punto di partenza era buono” (ibidem, p. 49).

[10] M. Fusillo, IL DIO IBRIDO, cit., p. 11.

[11] F. Nietzsche, COSÌ PARLÒ ZARATHUSTRA. UN LIBRO PER TUTTI E PER NESSUNO, tr. it., Milano, Adelphi, 2001, p. 184.

[12] F. Moretti, LA LETTERATURA VISTA DA LONTANO, Torino, Einaudi 2005, pp. 104-05.

11/09/08

Rosa Pierno, TRASVERSALE


[Pattern (Detail from a bench in La Spezia). Foto di Marzia Poerio]


Rosa Pierno, TRASVERSALE. Verona, Anterem, 2006

Nel volume TRASVERSALE, composto da scritti brevi di lunghezza variabile, lo sguardo osserva ciò che accade, assiepando quanto viene concretamente scrutato, come il mare e la risacca nel testo intitolato ANTEFATTO; alle spalle l'esperienza emotiva è filtrata dal linguaggio che alla fine prevale, mentre le favole (come nel pezzo omonimo) si combinano con riscontri di natura, in parte riferiti al referente reale, in maggior parte invece ossificati come se fossero formule, simbolizzati da riferimenti fisico-matematici. Ecco un brano da ERRORI E ORRORI:

"Nel grande libro della natura tutti possono leggere anche se è scritto con cerchi e triangoli. Ci sono molte foto e figure, diagrammi e schemi, tavole classificatorie e relazioni uno a molti. Non è molto chiaro l'inizio e la fine di un'incognita. Le pagine di mezzo sono piene zeppe di teorie, alcune evoluzionistiche. C'è anche il grande libro della cultura. Qualcuno si diverte a dire che non c'è differenza tra i due libri, fino a fare coincidere ciò che ha determinato il disegno delle ali di una farfalla con ciò che ha determinato un quadro astratto. Omologare le differenze vuol dire abbattere il grado di libertà proprio dell'umano agire" (p. 25).

I naturalisti dei secoli passati avevano un respiro scientifico oltre che filosofico. La formula diaristica deve forse qualcosa allo ZIBALDONE leopardiano? Fino a che punto interviene Wittgenstein nell'impianto filosofico-linguistico di TRASVERSALE?

Per i riferimenti al concetto e alla pratica dell'esattezza, in queste scritture tardo moderne che traversano i generi, si ricorda Calvino (PALOMAR).

Dietro, tuttavia, c'è una turbolenza che la voce scrivente del volume pare voler rapportare a canoni di totalità e che invece non resta sedata. Per esempio, in LEGGI GENERALI:

"Ciascuno persevera nel suo stato di quiete mentale o di moto ossessivo, a meno che non venga costretto a mutare la sua configurazione di forze impresse dall'esterno. La variazione è proporzionale all'importanza della forza emotiva scatenata dall'evento. Esiste sempre una reazione uguale e contraria all'azione sia nei corpi organici che in quelli inorganici" (p. 25).

Ben venga la riflessione con la ricerca ansiosa, pervicace di chiarimenti su cosa sia il mondo, come nell'interessante libro di Rosa Pierno.


[Roberto Bertoni]

09/09/08

Angelo Tonelli, CANTI DI APOCALISSE E D’ESTASI


[Detail from the walls of Milan. Foto di Marzia Poerio]


Angelo Tonelli, CANTI DI APOCALISSE E D’ESTASI. Comprende poesie e prosa di Angelo Tonelli; il saggio introduttivo COSMO E CAOS DI ANGELO TONELLI, di Roberto Bertoni; e APPENDICE DI TRADUZIONI a cura di Antonio Staude. Udine, Campanotto, 2008

Si dice che Kahós preceda Kosmos, che la Follia - come la definisce Umberto Galimberti - sia l’universo indifferenziato da cui nasciamo e che incessantemente irrompe con la sua cieca violenza dentro di noi, a patto di tenerla a bada articolando prima di tutto il linguaggio, che mette ordine nelle cose, definisce i limiti, instaura la comunicazione, stabilendo sistemi di sopravvivenza, codici morali e sociali; Il Kosmos, quindi, non è che l’ordine che segue al disordine. Dunque, primala Follia e dopoil nostro tentativo di controllarla, modularla. Ma, quando questo controllo eccede e distrugge chi l’ha creato, ecco che ancora la follia ha il sopravvento.

Per Tonelli, l’origine è Kosmos, l’Ordine armonioso di Orfeo, e chi non segue le sue leggi naturali - come l’uomo moderno che le tradisce, volutamente dimentico di questa saggezza antica - è ineluttabilmente destinato al Grande Disordine, a un Kahós distruttivo e annientante, alla perpetua Follia: è in questa immersione nella Follia che, noi uomini contemporanei, disperatamente ci dibattiamo, perduti nel contingente, nel presente, in quella realtà che noi vogliamo definire come tale.

Ma la Realtà - quella maiuscola che contiene la minuscola - è debitrice del Mito e non ha né passato, né futuro, essendo perpetuo divenire, azzeramento delle categorie temporali.

Questo, per Angelo Tonelli, è dominio della poesia, anzi, della Poesia.

In tutta la sua poesia e in genere nella sua opera, non solo di scrittura, lui non fa che ribadirlo quasi ossessivamente, assumendosi il ruolo di illuminato, iniziato, aedo che ci ricorda la strada - l’unica e giusta - da non abbandonare mai pena lo smarrimento e lo scacco esistenziale. Una strada che dopo millenni e millenni di storia lui sostiene ancora praticabile e salvifica.

La sua poesia insiste su questo principio e le sue modalità si imparentano con quelle della grande poesia greca di cui l’eco riaffiora o torna a far vibrare lo sfondo- la poesia orfica, solare, del Mitoche lui - e non solo lui - intende con tutte le sue energie sottoporre a un principio di restaurazione (lo spirito del Mitomodernismo ce lo indica).

Non si può prescindere dal mito, dall’anima ellenica che impregna di sé l’Occidente (e in parte anche l’Oriente) e chi se ne allontana troppo si smarrisce, perché è nell’origine e nel suo eterno rito e ritorno memoriale, che si annida l’unica possibile salvezza esistenziale. Da lì i sogni, la loro sacralità, quel filo ininterrotto seppure soffocato e a volte lacerato che unisce l’uomo e tutte le creature terrestri al Mistero primordiale. “Dal mistero nel mistero al mistero”, recita la sua epigrafe. (L’uomo che è mistero, che viene dal Mistero e al Mistero si ricongiunge).

Si possono fare obiezioni a questa concezione della saggezza, della conoscenza e della poesia. Si può trattare il mito come un padre che ha tradito noi, i suoi figli e cioè conflittualmente, drammaticamente, non trovando mai una sorta di conciliazione con quell’energia immaginale che comunque ci abita da sempre, ma che può, da presenza illuminante, mutarsi in una sorta di rimorso ingombrante, l’Ombra tragica della nostra delusione, il testimone del disincanto umano.

Ma per Tonelli solo noi con la nostra volontà possiamo far tornare qui in mezzo a noi la luce degli dei.

Allievo di Giorgio Colli, ha proseguito negli studi ellenici (diventando l’eccezionale traduttore dei Tragici che tutti conosciamo), imbevuto delle perpetue verità dei Grandi Greci, seguìto e inseguìto la loro scia numinosa e luminosa e riversato tutto questo nella sua versificazione: alta, melodiosa, misterica, salmodiante, ipnotica.

Pochi come lui - è la mia personale opinione - ci sanno trasportare in un mondo dove estasi e saggezza si compenetrano in una maliosa sintesi, così come quell’alphaomega cosmica che pervade ogni creatura vivente e non.

“Del mistero è preda la parola
che trama labirinti inestricabili
per frangersi nel cuore vuoto,immobile
del mondo,o rispecchiarsi
come le montagne nel crepuscolo
sul lago-occhio socchiuso del pensiero.
Liberaci dal male-conoscenza,
o dea del mare vasto e infinito
e regni sul mistero del mistero
la parola primigenia, la furtiva”.

Quel male-conoscenza,ci ricorda, per opposizione, la nube della non-conoscenza dei grandi mistici: in questo senso, per Tonelli, il male-conoscenza allude ai saperi dialettici e razionali che non conducono certo né alla felicità né alla vera conoscenza ma alla comune nullificazione e, paradossalmente, all’insensatezza esistenziale.

Chi legge i suoi CANTI D’APOCALISSE E D’ESTASI (odierno vincitore del Premio “Città di Atri”, così come il suo primo libro CANTI DEL TEMPO lo fu, diversi anni fa, del “Montale”) se è sensibile al fascino della fluidità sonora - rischia una sorta di trance: si lascia andare insieme a lui, ponendosi sempre in comunicazione con la propria spiritualità, ovvero quello stato coscienziale che è possibile raggiungere attraverso esercizi particolari come concentrazione, meditazione, tecniche yoga ecc. - in modo che l’Estasi possa farsi espressione più alta della fusione tra corpo e spirito, senza mai dimenticare l’Apocalisse che è qui, davanti a noi, e dentro di noi, in tutti i momenti della nostra storia,della cronaca umana. L’inabissarsi dell’anima e con essa dell’umano. La via estatica la si percorre non attraverso le droghe pesanti che conducono all’annientamento totale di sé-corpo e psiche - specialmente nel cattivo uso ed abuso - ma attraverso un lavoro nelle profondità coscienziali.

Ancora adesso musica e canto - e di conseguenza la poesia che da loro è nata - possono condurci in quelle sfere lontane, vicine a uno dei nostri sensi primari: l’udito. Ma la parola scritta necessita di un passaggio ulteriore: la scrittura, se non è quella automatica dei medium (e qui ci sarebbe molto da dire) esige non un abbandono totale ma un abbandono controllato. In essa, Kahóse Kosmos si affrontano sul terreno mentale della mediazione. Se il risultato sulla pagina è quello di una poesia che ci riporta qui la bellezza della poesia mitica, significa che è doppiamente “astuta” e colta. Non è sorgiva per spontaneità autentica (che non esiste) ma per spontaneità conquistata dal poeta che lavora sia sul contenuto che sulla techné.

Pochi poeti come lui sanno condurci, a un rapimento assoluto - nelle sue prove migliori. Perché lui vuole stupirci, cullarci, ipnotizzarci, darci piacere e oblio -. Oblio della parte più razionale di noi stessi (e quindi impoetica e fonte di sofferenza) di una certa zavorra psichica frutto di questa rovinosa società che intralcia i nostri passi, la nostra - seppur piccola - felicità umana.

[Lucetta Frisa]

07/09/08

Santiago Montobbio, LA FERITA DEL VIVERE (TRE TESTI)


[An ice-cream for a birthday. Foto di Marzia Poerio]


1.

ESTO PUEDE SUCEDER TANTO AHORA COMO DENTRO DE TREINTA AÑOS

Habían practicado la literatura, que es una especie como otra de la delincuencia y el espionaje y, como ellos, sirve sólo para vivir, o para soportarse un poco. De su súbitamente removida adolescencia a uno le asaltó como imperativo y de pronto un verso: “porque el hombre es un límite del fuego”, dijo. Mas se quedó entonces callado. Porque si ese verso un día fue una flecha era ahora una flecha cansada. Sin fuerzas ni fe para imaginarlo capaz de clavarse en algún sitio lo dejó sobre la mesa, para que hiciera al menos compañía al tabaco, y al abandonarlo así sintió que sobre él se hacía la tarde espesa, plural y tibia, como la carne de un sueño o las sombras de un niño con el que hay que extremar los cuidados, como una ausencia que quería ser amable y silenciosamente les ofrecía –ver para creer- que hundieran sus manos en su herida. Pero no hacía falta. Del vivir ya no les quedaba ni la herida.

QUESTO PUÒ SUCCEDERE TANTO ORA COMO FRA TRENTA ANNI

Avevano praticato la letteratura che è una specie come un’altra di delinquenza e di spionaggio e, come quelle attività, serve solo per vivere o per sopportarsi un po’. Dall’adolescenza rapidamente rimossa, uno di loro fu esaltato d’improvviso e come fosse un imperativo da un verso: “Perchè l’uomo è un limite del fuoco” disse. Quindi restò in silenzio. Perchè se quel verso un giorno era stato una freccia era adesso una freccia stanca. Senza forza né fiducia d’immaginarlo capace di conficcarsi in alcun luogo lo lasciò sul tavolo, perchè almeno facesse compagnia al tabacco, e mentre così l’abbandonava si accorse che sopra quello la notte si faceva spessa, plurale e trepida, come la carne di un sogno o le ombre di un bambino col quale devi moltiplicare le attenzioni, come una essenza che volesse essere amabile e silenziosamente offrisse -vedere per credere - che infilino la mano nella ferita. Però non c’era dubbio. Del vivere ormai non restava loro neppure la ferita.


2.

UNA HISTORIA, UN AMOR, UNA HISTORIA

No se puede tener una historia, y S.M. la tenía. Y no se puede. Y no sé si es lícito decirlo o pensarlo así, reiterándolo efectista, en tono como de poema inútil y ampuloso, pero así se me ocurre y supongo que algo en ello ha de haber cierto. Que no se puede tener un amor, una historia. Fechas, lugares, adioses, desgracias que se esconden y sábanas que todavía guardan el sabor de un alma, sábanas por ella aún ocupadas. No se puede o, mejor, no pueden perderse, haberlas inventado para después no creérselas: haber y con paciencia urdido una historia que hiciera la vida mínimamente soportable, tener ganas de edificarla cada día y luego no tener ganas, no tener amor, no recordar la historia o no creérsela, haber perdido el nombre, estar el nombre extraviado o borracho, ser todo dolor, ni nombre tener, ni uno mismo ser, ni miedo o veneno guardar en el no ser nada.

UNA STORIA, UN AMORE, UNA STORIA

Non si può avere una storia, e S. M. l’aveva. E non si può. Non so se è lecito dirlo o pensarlo così, con ripetizione a effetto, in tono come di poema inutile e ampolloso, però mi viene così e suppongo che in questo ci sia qualcosa di vero. Che non si può avere un amore, una storia. Appuntamenti, luoghi, addii, disgrazie che si nascondono e lenzuola che ancora conservano il sapore di un’anima, lenzuola che lei occupa ancora. Non si può o, meglio, non si possono perdere, averli inventati però poi non credervi: avere persino con pazienza ordito una storia che avrebbe reso la vita minimamente sopportabile, avere voglia di costruirla ogni giorno e poi non avere voglia, non avere amore, non ricordare la storia e non crederla, avere perso il nome, che il nome sia smarrito e ubriaco, essere tutto dolore, non avere neppure un nome e nemmeno un essere, e non provare paura o veleno nell’essere niente.


3.

CUMPLEAÑOS

Tal vez porque el año había sido igual que todos o, más simplemente, lo distinto que uno pueda ser de otro, podría haberme adelantado a la abuela que el destino me alquiló y así decirle: “Como hoy es tu cumpleaños, tuyo es el día y haremos la comida que tú digas, la que tú prefieras”. Como crecí ajeno a las recetas no puedo repetiros el menú. Bailaba la tarde adentro de las faldas y además yo ya sabía que la sombra guarda arañas que se ríen siempre de las fiestas. Tras los aplausos y las velas dijo la tía: Y si pudieras, ¿de qué escogerías ser rey?. Respondí: de los amores contrariados. No hubo contestación. La tarde bailaba adentro de las faldas, y como vi que era verdad que no tenían comprendí con resignación que iba a tener que pasarme la vida inventándolos despacio, despacio e inventándolos, para llenarla con algo.

COMPLEANNI

A volte, perché l’anno era stato uguale agli altri, o più semplicemente, tanto diverso quanto uno può essere dall’altro, avrei potuto correre dalla nonna che il destino mi aveva affittato e dirle così: “Poiché oggi è il tuo compleanno, tuo è il giorno e faremo il pranzo che dirai, quello che preferisci”. Dato che sono cresciuto estraneo alle ricette non posso riferirvi il menù. Ballava la notte dentro le gonne e inoltre già sapevo che l’ombra protegge ragni che ridono sempre delle feste. Tra gli applausi e le candele disse la zia: “Se tu potessi, di che cosa vorresti essere re?” Risposi: degli amori contrastati, Non ci fu risposta. La sera ballava dentro le gonne, e poiché vidi che veramente non ne avevano, compresi con rassegnazione che avrei passato la vita a inventarli zitto zitto, zitto zitto a inventare, per riempirla con qualcosa.


[Traduzioni di Piera Mattei]

05/09/08

Alfred Hitchcock, THE MAN WHO KNEW TOO MUCH (L'UOMO CHE SAPEVA TROPPO)


[The photographer of anonymity (Cathedral Square, Milan). Foto di Marzia Poerio]

Alfred Hitchcock, THE MAN WHO KNEW TOO MUCH (1932). Testo di Charles Bennett. Con Leslie Banks, Edna Best, Peter Lorre, Nova Pilbean, Frank Voster.

Una serata molto calda e il tentativo di inserire nel videoregistratore due film, che ci hanno annoiato dopo appena dieci minuti di programmazione; ci si era quasi rasseganti a guardare uno sceneggiato americano in TV, ma frugando tra i dvd si è scovato questo film di Hitchcock e fin dalle prime scene si è percepito qualcosa di più e di diverso dal trito dei film precedentemente visualizzati quella sera. L'immagine di una pista da neve, un cagnolino che ci si getta in mezzo mentre uno sciatore dopo il salto dal trampolino scende ad alta velocità e la piccola proprietaria dell'animale si lancia nella pista per salvarlo, i primi piani contrastati dell'uno e dell'altra che danno il senso del movimento e del pericolo, la caduta dello sciatore, i due che si abbracciano (padre e figlia) sollevando la suspense, la consistenza del contrasto tra luce e grigi del bianco e nero, il silenzio mentre si svolge buona parte della sequenza che ci ha calamitato con la firma di letterarietà e disponibilità alla comprensione del pubblico, di maestria della telecamera e, al livello dell'intreccio, prefigurazione dei pericoli successivi cui sarà sottoposta la bambina, rapita dopo l'omicidio di un amico di famiglia, in realtà una spia, affinché i genitori non rivelino a Scotland Yard l'esistenza di un progetto di stampo terrorista, in un intreccio incalzante, con liberazione della ragazzina e fine dell'incubo a prezzo di vite umane.

L'organizzazione criminosa tiene le riunioni in un fantomatico tempio del Sole. Il cattivo ha una mèche chiara tra i capelli, un sarcasmo dozzinale, una perfetta attitudine all'ipocrisia. Il padre risulta un che eroico, un po' sopra le righe in una pellicola altrimenti così bilanciata con caratteristi ben scelti tanto tra i personaggi della banda che tra gli altri personaggi.

Non è ciò che si ascolta, ma ciò che si vede a caratterizzare questa storia. Del resto il regista medesimo sosteneva che "col trionfo del teatro il cinema si è cristallizzato nel teatro" e "ne consegue che perde lo stile cinematografico. Un altro risultato, poi, è la perdita di fantasia. Il dialogo fu introdotto perché era un elemento realistico. La conseguenza diretta fu un impoverimento dell'arte di rappresentare esclusivamente attraverso le immagini" [1].

In THE MAN WHO KNEW TOO MUCH, la funzione del dialogo è limitata a fornire la cornice referenziale per collegare gli episodi tra di loro e a integrare gli identikit psicologici dei personaggi.

Più variegata l'immagine. C'è una scena, per esempio, in cui a telecamera si sofferma su uno scherzo articolato dal padre bonariamente geloso della moglie che balla con un amico che verrà ucciso: il filo di un lavoro a maglia lasciato interrotto viene legato al bottone delle code della giacca del danzatore che se lo porta dietro esponendosi al ridicolo e proprio quando se ne accorge e si volta per staccarlo viene colpito, senza che il pubblico quasi avverta la gravità della scena, da un proiettile che lo colpisce al petto, trapassando un vetro, in un momento di rumore che copre lo strepito del revolver. In tal modo si crea un contrasto tra gioco e realtà, tra l'inconscio del geloso che desiderava punire il ballerino pur se in modo innocente e la gravità tragica dell'omicidio che sarà il preludio alla vicenda del rapimento e al dramma della famiglia che ne sarà coinvolta. Tutta questa scena è resa in quasi silenzio, resa più complessa dal gioco di sguardi tra la figlia e il padre.

Un'altra scena articolata come a tavolino, con giochi di simmetrie e imitazioni un che ironiche di altri generi cinematografici, è la rissa che si svolge nel tempio, con le sedie spostate, sembrerebbe a bella posta, in modi geometrici che ricordano forse le comiche di Chaplin e richiamano la possibilità del cinema di parlare delle proprie tecniche.

Le canne delle pistole appaiono da dietro tende e paratie. Le carabine si allungano al rallentatore dai vani delle finestre.

Nondimeno il rapporto con la realtà e la vita quotidiana restano, non solo nella credibilità dei personaggi e nei loro comportamenti, datando anche come la scelta dell'Albert Hall per la scena celebre dell'omicidio commesso al suono dei piatti (l'unico) di un concerto. La sparatoria finale è basata su un episodio reale di fuoco tra polizia e malfattori avvenuto a Londra

A noi è piaciuta questa edizione del film, che non avevamo ancora visto. Nonostante il giudizio negativo di Hitchcock rispetto alla seconda versione, del 1956 a colori, con James Stewarrt e Doris Day, e sebbene quel secondo film sia tra i nostri preferiti del grande regista, la versione del 1932 ha qualcosa di speciale, di evocativo, di calibrato con esattezza e ironia.


[1] Dichiarazione riportata in Fabio Carlini in ALFRED HITCHCOCK, Milano, Il Castoro (supplemento all'"Unità", 18-9-1995, p. 6.


[Renato Persòli]

03/09/08

Augustus Young, CALABRIA AND BACK


[Black marble eye(s). From St Laurence Cathedral, Genoa. Foto di Marzia Poerio]


Maida Vale, July 1982 (after the Falklands War)


1.

There’s hope for a stranger in this paradise
for the insects are wise to the best cracks
in the corrugated wallpaper; scene of
bloodcurdling recoils; Homeric waves coming back.

And the young men everywhere are only young men
stuck with nothing to do except stay, stay the dream,
tipping a King-size butt into a burst beer can,
Brando and Sinatra could have been their fathers.

Here only mongrel dogs inherit the sunshine,
and I have not spoken one grammatical phrase
for almost a month. My place is underwater.
There, goggled in the seabed, I can see clearly

carnivorous weeds entwine about a body
mosaiced with flints of granite and volcanic ash.
I flipper from what I see, a deadly warning.
Calypso’s Isle and Co. meet Siren Tours.

Still the layabout dog knows how to keep himself.
How to behave wise in all circumstances.
What to devour, and what to do with the sun.
Knows even the rain offers certain pleasures.

This is the knowledge missed by the inhabitants
left behind in the dead heat. Black marble eyes fixed
on the waste of wanting more than you have now.
Don’t move. The living are accused of ancient wrongs.


2.

I demand back all the postcards I sent to my friends.
But where are my friends now? A hundred years have passed.
A hundred years of newspapers outside my flat.
A hundred years of rain. No wonder the print runs.

Over thirty thousand memorial milk-bottles
stand between me and home, a place to rest my head.
Should I recover in some antique shop’s attic
the postcards beheaded of stamps? And so the place
and date of issue would be lost. Only
the destination remains. And I am here


3.

Meanwhile I’m not sure which side of my bread is spam.
Or why I am. The summer dust I sifted turned by the rain
to mud. I think of the grain it might have been,
and the harvest ruined by not being around for it.

Misguided melancholy. From dust to mud always.
The cycle of barren seasons. Rot fulfilled.
Mud huts of hope spring up, mushrooms to survive in.
Not a shroud in the house is dry. These walls are sound.

Shrouds treated with human blood that won’t clot quite yet,
impregnated with chemicals that preserve
so the face of grief is indelible. As long
as we believe in the image, and don’t test.


4.

I’ve not wept for years, said the military man
at the Victory Parade through the Stock Exchange.
And foolish mothers wave flags over their dead sons.
Wives and children look lost, but are pleased to be seen.

The wounded wish they were there. Though not invited.
Still will watch it on television. Radar screens
track missiles on target across their decks in dreams.
Cheer up. Posthumous Awards. Pass the hat around.

And the decent dust turns to mud, mud too sacred
to be dug up. Though some want back the bodies. Bones.
The war dead should be left be where they fall, it’s said:
spares unnecessary grief in the public eye.

War widows unite. Only give interviews for a fee.
Grab what you can while your weeds have credit. Hold out
for a golden handshake from the State, not charity.
And if someone tells you something for nothing - scream.