05/09/08

Alfred Hitchcock, THE MAN WHO KNEW TOO MUCH (L'UOMO CHE SAPEVA TROPPO)


[The photographer of anonymity (Cathedral Square, Milan). Foto di Marzia Poerio]

Alfred Hitchcock, THE MAN WHO KNEW TOO MUCH (1932). Testo di Charles Bennett. Con Leslie Banks, Edna Best, Peter Lorre, Nova Pilbean, Frank Voster.

Una serata molto calda e il tentativo di inserire nel videoregistratore due film, che ci hanno annoiato dopo appena dieci minuti di programmazione; ci si era quasi rasseganti a guardare uno sceneggiato americano in TV, ma frugando tra i dvd si è scovato questo film di Hitchcock e fin dalle prime scene si è percepito qualcosa di più e di diverso dal trito dei film precedentemente visualizzati quella sera. L'immagine di una pista da neve, un cagnolino che ci si getta in mezzo mentre uno sciatore dopo il salto dal trampolino scende ad alta velocità e la piccola proprietaria dell'animale si lancia nella pista per salvarlo, i primi piani contrastati dell'uno e dell'altra che danno il senso del movimento e del pericolo, la caduta dello sciatore, i due che si abbracciano (padre e figlia) sollevando la suspense, la consistenza del contrasto tra luce e grigi del bianco e nero, il silenzio mentre si svolge buona parte della sequenza che ci ha calamitato con la firma di letterarietà e disponibilità alla comprensione del pubblico, di maestria della telecamera e, al livello dell'intreccio, prefigurazione dei pericoli successivi cui sarà sottoposta la bambina, rapita dopo l'omicidio di un amico di famiglia, in realtà una spia, affinché i genitori non rivelino a Scotland Yard l'esistenza di un progetto di stampo terrorista, in un intreccio incalzante, con liberazione della ragazzina e fine dell'incubo a prezzo di vite umane.

L'organizzazione criminosa tiene le riunioni in un fantomatico tempio del Sole. Il cattivo ha una mèche chiara tra i capelli, un sarcasmo dozzinale, una perfetta attitudine all'ipocrisia. Il padre risulta un che eroico, un po' sopra le righe in una pellicola altrimenti così bilanciata con caratteristi ben scelti tanto tra i personaggi della banda che tra gli altri personaggi.

Non è ciò che si ascolta, ma ciò che si vede a caratterizzare questa storia. Del resto il regista medesimo sosteneva che "col trionfo del teatro il cinema si è cristallizzato nel teatro" e "ne consegue che perde lo stile cinematografico. Un altro risultato, poi, è la perdita di fantasia. Il dialogo fu introdotto perché era un elemento realistico. La conseguenza diretta fu un impoverimento dell'arte di rappresentare esclusivamente attraverso le immagini" [1].

In THE MAN WHO KNEW TOO MUCH, la funzione del dialogo è limitata a fornire la cornice referenziale per collegare gli episodi tra di loro e a integrare gli identikit psicologici dei personaggi.

Più variegata l'immagine. C'è una scena, per esempio, in cui a telecamera si sofferma su uno scherzo articolato dal padre bonariamente geloso della moglie che balla con un amico che verrà ucciso: il filo di un lavoro a maglia lasciato interrotto viene legato al bottone delle code della giacca del danzatore che se lo porta dietro esponendosi al ridicolo e proprio quando se ne accorge e si volta per staccarlo viene colpito, senza che il pubblico quasi avverta la gravità della scena, da un proiettile che lo colpisce al petto, trapassando un vetro, in un momento di rumore che copre lo strepito del revolver. In tal modo si crea un contrasto tra gioco e realtà, tra l'inconscio del geloso che desiderava punire il ballerino pur se in modo innocente e la gravità tragica dell'omicidio che sarà il preludio alla vicenda del rapimento e al dramma della famiglia che ne sarà coinvolta. Tutta questa scena è resa in quasi silenzio, resa più complessa dal gioco di sguardi tra la figlia e il padre.

Un'altra scena articolata come a tavolino, con giochi di simmetrie e imitazioni un che ironiche di altri generi cinematografici, è la rissa che si svolge nel tempio, con le sedie spostate, sembrerebbe a bella posta, in modi geometrici che ricordano forse le comiche di Chaplin e richiamano la possibilità del cinema di parlare delle proprie tecniche.

Le canne delle pistole appaiono da dietro tende e paratie. Le carabine si allungano al rallentatore dai vani delle finestre.

Nondimeno il rapporto con la realtà e la vita quotidiana restano, non solo nella credibilità dei personaggi e nei loro comportamenti, datando anche come la scelta dell'Albert Hall per la scena celebre dell'omicidio commesso al suono dei piatti (l'unico) di un concerto. La sparatoria finale è basata su un episodio reale di fuoco tra polizia e malfattori avvenuto a Londra

A noi è piaciuta questa edizione del film, che non avevamo ancora visto. Nonostante il giudizio negativo di Hitchcock rispetto alla seconda versione, del 1956 a colori, con James Stewarrt e Doris Day, e sebbene quel secondo film sia tra i nostri preferiti del grande regista, la versione del 1932 ha qualcosa di speciale, di evocativo, di calibrato con esattezza e ironia.


[1] Dichiarazione riportata in Fabio Carlini in ALFRED HITCHCOCK, Milano, Il Castoro (supplemento all'"Unità", 18-9-1995, p. 6.


[Renato Persòli]