29/09/07

Ettore Zaniboni, LA MIA STORIA, LE MIE AVVENTURE

Ettore Zaniboni, LA MIA STORIA, LE MIE AVVENTURE

Sottotitolo: DIARIO DI UN UOMO RINCHIUSO IN MANICOMIO AGLI INIZI DEL '900. A cura di Marisa Azzolini. Prefazione di Mariuccia Salvati. Bologna, Archetipolibri - Gedit edizioni, 2006


Proveniente da una famiglia di mugnai, guardia di città e viaggiatore dai vari mestieri in Italia e in Francia, il narratore in prima persona racconta le proprie sfortune e le avventure con anime femminili e tra famiglie borghesi di fine Ottocento e del primo Novecento, fornendo uno spaccato di vita che ha toni talora picareschi, come una fuga con una ragazza, Luisa, costretta a non seguirlo dalla famiglia, e il ritrovamento di lei ormai sposata e del figlio dopo anni.

Sostiene tra l'altro di essere stato al servizio di Zola, scoprendo e consegnandogli dei documenti che sarebbero serviti nell'Affare Dreyfus (sarà vero? si domanda la curatrice); e con un lavoro da giardiniere in una villa, in realtà col compito di sorvegliare i movimenti di una giovane amante dello scrittore francese…

La prefatrice nota giustamente una discrepanza tra le lamentose note ritrovate negli archivi, testimonianza dell'istituzione manicomiale in quanto luogo di clausura in quegli anni, e il tono più disteso del racconto.

Si è grati per le ricerche che hanno portato alla luce questo testo interessante, redatto in un italiano talora non standard, tanto più autentico e indicativo di un costume anche di scritttura di chi dalla cultura alta fu escluso, ma per spinta al dire conseguì l'autobiografia vera e quella romanzata; con un effetto stilistico aggiuntivo, insito nella parziale sgrammaticatura, straniante (come è stato usato da scrittori del secondo Novecento, si pensi tra gli altri al Celati di Guzzanti).

Zaniboni autore di narrativa scrive così:

"[…] arrivo ad Avignone […] Al mattino mi porto in vicinanza della sua abitazione in un caffè che si trova sulla via e potei accertarmi che Luisa non era partita, perché molto glielo impediva. Con molta astuzia mi riesce di inviarle un biglietto per dirle che ero ad attenderla al suo avviso, a quell'ora che credeva necessario per fuggire. Essa mi rispose all'istante: 'Domani sera vieni nella tale posizione alle ore una circa', che di notte riuscivale più facile uscire dalla casa. Attendo con impazianza. Le ore mi sembrano secoli. Stavo nascosto dietro un albero, ascolto e guardo. L'ora si avvicina. Ecco nell'oscurità avvicinarsi la donna con il nostro futuro d'amore tra le braccia, avvolto in un panno. Sì, è quella. Mi avvicino, il cuore palpita senza posa. Luisa piange e mi accarezza, il tempo è prezioso, andiamo" (p. 70).

Innegabile, pare, la sintesi accompagnata da una suspense che solo le pagine successive risolveranno…


[Roberto Bertoni]

26/09/07

Marzia Poerio, TWO VIEWS ON FREEDOM

Are the following two views not relevant to all of us? (They came to mind when reading the news on Myanmar peaceful marches in favour of democracy led by monks and met with violent reactions from the security forces).





"It will be hard to find a parallel in history in which unarmed people have represented the urge for freedom, turning the very armlessness into the central means for deliverance".

(EPIGRAMS FROM GANDHIJI, T-5-193, http://www.mkgandhi.org/epigrams/)





"It is the love of ordinary people, in Burma, in Japan or anywhere else in the world, for justice and peace and freedom that is our surest defense against the forces of unreason and extremism that turn innocent songs into threatening chants of war".

(Aung San Suu Kyi, LETTERS FROM BURMA, No 23,
http://www.ibiblio.org/obl/docs/Letters_from_Burma
).




[Hindu and Buddhist statues from Bangkok. Foto di Marzia Poerio]

24/09/07

Adriano Zamperini, L'INDIFFERENZA

Sottotitolo: CONFORMISMO DEL SENTIRE E DISSENSO EMOZIONALE, Torino, Einaudi, 2007


Due sono i punti apparsi stimolanti allo scrivente: l'idea che l'indifferenza sia derivata da una produzione sociale fondata su norme e la concezione della dissidenza come trasgressione del conformismo.

Gli esempi spaziano da opere letterarie (tra le quali LO STRANIERO di Albert Camus) e storie di vita (un infermiere al G8 di Genova del 2001, ad esempio, o un inviato per trattative di pace).

Da un lato si individua l'indifferenza di fronte a problemi sociali gravi, ma la si analizza nelle sue origini e manifestazioni cercando di comprenderla; dall'altro lato si mette in rilievo come una cultura normativa dell'umanitarismo possa essere anche di facciata e nascondere atteggiamenti unanimistici invece di partecipazione profonda e personale ai casi di chi soffre. Sebbene chi qui scrive ritenga che anche l'umanitarismo ufficializzato non faccia del male, dunque sia meglio del cinismo generalizzato, è però confortante, da parte di Zamperini, la ricerca di autenticità, la rottura dei protocolli convenzionali che porti vicino agli altri e metta in moto modifiche interiori. Non è proprio di umanità e di partecipazione vera che si ha bisogno oggi?

Tra i casi sociali presi in esame ci sono l'emigrazione e il mondo dei mass media; considerazioni sull'apatia; il capitale emozionale; e la vergogna in relazione al senso di colpa.

Si tratta di un altro utile volume nell'àmbito della rifondazione dei sentimenti di cui si è parlato recensendo Bauman e Turnaturi in articoli precedenti su "Carte allineate".


[Roberto Bertoni]

22/09/07

Nichita Stanescu, NODI E SEGNI

Da NODURI SI SEMNE (REQUIEM LA MORTEA TATÀLUI MEU) / NODI E SEGNI. REQUIEM PER MIO PADRE (1982), di Nichita Stanescu (1933-1983)


NODO 30

Il mare era tranquillo e cieco,
come un bimbo col leucoma -
che tiene la mano destra distesa
quasi potesse arrivare a toccare
qualcosa
di colpevole.
Con una linea argentea la luna aveva tagliato
il grande mare in due deserti.
Allora mi dissi
che sarei potuto andare a piedi scalzi
sopra quel taglio di sogno
verso l’iride della luna.
Presi a camminare sulla lama del coltello lucente,
a palme nude, finché
palma e palma di entrambi i piedi
su quella lama si misero a sanguinare,
camminavo sul coltello lungo e teso,
il piede destro mi si spaccava lentamente,
il piede sinistro mi si spaccava lentamente,
avanzavo, ma il ventre e lo sterno e la gola
mi si spaccavano in due lentamente sulla lama,
la bocca e il naso e lo spazio
tra le sopracciglia
mi si spaccavano in due,
alla mia destra
il mare s’era arrossato del mio sangue,
alla mia sinistra
il mare s’era arrossato del mio sangue,
metà caddi da una parte, tagliato,
metà caddi dall’altra parte, tagliato,
la luna morì,
il coltello affondò,
il mare era rosso
e tranquillo
e calmo
e lucente.

[Traduzione di Paola Polito]


Scrive Alexandru Condeescu su Stanescu:

"Scontento della discontinuità dei sensi, come dell'aridità dei concetti, il poeta va perfezionando un organo della mente in forma di visione astratta, con cui contemplare simultaneamente gli oggetti e le idee, lo spazio e il tempo, le cose e le loro dimensioni invisibili, ma non meno reali. Organo con il quale la parte eterna e cosmica dell'uomo possa percepire l'essenza del vero, ospite ineffabile della nostra comprensione posto alla frontiera tra il pensiero in immagini e il pensiero in nozioni" [1].


NOTE

[1] Alexandru Condeescu, prefazione a Nichita Stanescu, ORDINEA CUVINTELOR (L'ORDINE DELLE PAROLE), vol. I, versi 1957-83, Bucarest, Editura Cartea Romanesca,1985, p. 15.

21/09/07

Doug Lefler, L'ULTIMA LEGIONE


[A gate from an ancient world at La Rocchetta. Foto di Marzia Poerio]


2007. Basato sul romanzo omonimo di Valerio Manfredi, Milano, Mondadori, 2006. Sceneggiatura: Jez Butterworth, Tom Butterworth, Carlo Carlei, Peter Rader. Fotografia di Marco Pontecorvo. Con Colin Firth, Ben Kingsley and Aishwarya Rai


Odoacre invade l'Italia e depone il tredicenne ultimo imperatore d'Occidente Romolo Augustolo dopo averne ucciso i genitori, confinandolo con l'istititore Ambrosinus su una fortezza a Capri, da dove un gruppo di valorosi (tra i quali una guerriera indiana) lo libera, riparando nella Britannia oppressa da un tiranno. Presso il vallo di Adriano si svolge una battaglia decisiva alla quale partecipa l'ultima legione rimasta fedele a Roma. È qui che Ambrosinus si rivela essere Merlino; e la spada di Giulio Cesare assegnata a Romolo è Excalibur...

Sgombriamo subito il campo dalle incongruenze storiche di questo film (non del volume di Manfredi che, sebbene ascrivibile in parte al settore "fantasy", presenta anche elementi di romanzo storico e fornisce in parte fatti attendibili). Per un repertorio delle inesattezze della pellicola rimandiamo alla voce di Wikipedia http://en.wikipedia.org/wiki/The_Last_Legion, che propone anche qualche informazione cólta sui rapporti con le leggende arturiane.

Chiaramente questo è più un film di genere che un'impresa di ricostruzione culturale di Roma in decadenza: "fantastorico" lo definisce una recensione non firmata su "Cinematografo" (http://it.movies.yahoo.com/l/lultima-legione/recensioni-1626259). È stato realizzato con un budget non elevato, il che ci sembra un pregio invece che un difetto. Gli effetti speciali sono limitati e i duelli sono presentati come azioni di corpi reali che si scontrano e si combattono, con un realismo che ricorda le pellicole a sfondo storico del passato sull'antichità; diciamo che per questi suoi aspetti è più simile, ad esempio, all'EROE DI SPARTA (1962, regia di Rudolf Maté) che al film 300 (2007, regia di Zack Snyder, tratto da un romanzo di Frank Miller).

Vari critici hanno trovato L'ULTIMA LEGIONE noioso (cfr. http://www.rottentomatoes.com/m/last_legion/); noi no.

Altri critici lo rimproverano di essere un film per ragazzi più che per adulti: è un difetto? Se il sangue non corre a fiumi in quel modo che in inglese si definisce "graphic", ciò ci appare un aspetto positivo anziché negativo. O l'approccio postmoderno presuppone atteggiamenti alla Tarantino anche nei film sul V secolo dopo Cristo? Non stiamo dicendo che questa sia un'opera eccelsa; non di meno, nei suoi tratti di intrattenimento in quanto azione, ci pare godibile.

Anche l'aspetto fantastico non è male: il collegamento col ciclo arturiano deriva dalla recente saggistica che retrodata il ciclo appunto alla fine dell'impero romano e ha dato origine al film KING ARTHUR (2004, regia di Antoine Fuqua, sceneggiatura di David Franzoni).

Semmai lascia perplessi che, sul piano sociale, non ci sia una più marcata linea ideologica. La caduta dell'impero dei Cesari potrebbe essere paragonata a quella dell'Occidente contemporaneo? Ideologie ce n'erano, nei film degli anni Sessanta su Roma (per restare all'esempio di poco sopra, Le Termopili come difesa della democrazia contro la tirannide, allegorica della situazione contemporanea all'uscita di quel prodotto visivo).

Tuttavia, anche se i riferimenti politici lasciano a desiderare (forse è proprio la loro latitanza che bisognerebbe prendere in considerazione, a parte la concezione di fine di una civiltà spesso ribadita da vari personaggi), non mancano i riferimenti chiamiamoli etici: il film è sulla lealtà a tutti i costi agli ideali (anche sbagliati: fedeltà a un imperatore che era incarnazione di un'autocrazia?); e sulla fedeltà all'amicizia e alle persone con cui si va avanti nella vita (in contrasto con le concezioni attuali sul tradimento, cfr. in questo numero di "Carte allineate", in data 9-9-2007, la recensione sul libro di Turnaturi).

Gli attori sono bravi: Colin Firth e Aishwarya Rai in particolare, che consentono un mix globalizzato di arti marziali occidentali e orientali, nonché una storia d'amore a prima vista e un po' alla Bollywood.

Quanto a stelle, alla fine dei conti, però, non si potrebbe andare oltre le due e mezzo...


[Renarto Persòli]

19/09/07

Agnieszka Kuciak, "THE RAIN IS A ZEN MASTER"

Do każdej rzeczy długo puka deszcz


For ages the rain keeps knocking at each thing
and asking: “Are you there?” But I say: “No,
I’m not here at all.” The rain is a Zen master.
Maybe it was poured out of heaven for clapping
with a single, too-transparent hand?
Sit down,
(For he who fails to tend his garden
will be overgrown by a wild, wild god
),
listen to a free lecture, and pointlessly
repeat after it a quiet little “yes”
that will destroy you.

(Drop by drop, like on that great evening
when the peddler wanted to sell us roses,
but we didn’t want any roses, we wanted
the whole of life.)


[Translated by Antonia Lloyd-Jones]



Agnieszka Kuciak vive a Poznan e insegna a livello universitario Letteratura del periodo romantico e Dante, del quale ha tradotto l'INFERNO. Altre sue traduzioni sono da Petrarca e da Eco. La sua prima raccolta, RETARDACJE (2001), è una delle più importanti opere di esordio polacche degli ultimi decenni. Si ricorda anche DALEKIE KRAJE (2005).

Nel testo qui riprodotto col consenso dell'autrice, la pioggia bussa e l'interpellata risponde di non esserci... Non appartenenza, senso di non esistenza. O forse solo una difficoltà di replicare con un'asserzione di presenza. Eppure non erano rose ciò che si desiderava, bensì la vita nella sua interezza. Il desiderio di pulsare nel mondo e la realtà non sempre si corrispondono. C'è un senso cosmico in questa poesia, assieme a leggerezza e ironia, col che si esprimono le verità di un istante dilatato a rappresentare la corsa (la fuga?) del tempo.


[Roberto Bertoni]

Francesca De Carolis, ANGELA, ANGELO ANGELO MIO IO NON SAPEVO

Storia del pianista jazz Luca Flores, Viterbo, Stampa Alternativa, 2007. In allegato: cd OMAGGIO A LUCA FORES, concerto di Michelle Bobko (Cavriglia, 13-5-2004)


ANTAGONISMO TRA RUMORE E MUSICA NELLA VITA BREVE DI LUCA FLORES

Ascoltando mentalmente la nota musica che si associa a questo malinconico titolo, affiorano subito due riflessioni: Luigi Tenco, che ha vissuto così poco, ha fatto in tempo a diventare maestro delle generazioni successive, nei comportamenti disperati così come nella musica?

Luca Flores, personaggio centrale di questo libro aveva arrangiato, nel 199, ANGELA, il celebre brano del cantautore piemontese da cui sono tratte le parole del titolo, in duo con la voce di Michelle Bobko, allora sua nuova compagna. Già presentiva che un addio sarebbe arrivato comunque presto, anche per lui, per loro?

Luca e Michelle sono i protagonisti di questo libro, sullo sfondo - appena delineati anche se si intuiscono fondamentali - gli affetti delle due rispettive famiglie. Poi ci sono i gatti, teneramente amati da entrambi, quasi la loro famiglia comune. Poco presenti qui, diversamente, mi pare che nel libro di Walter Veltroni sullo stesso Flores, i collaboratori-musicisti, se si esclude la presenza gentile di un percussionista africano, Gabin.

La voce che racconta in prima persona è quella di Michelle e tuttavia questo è un libro in cui si sovrappongono e s'armonizzano due voci, perché è Francesca De Carolis che travasa quelle confessioni sulla pagina, e la trascrizione non può essere, e non è, automatica. La grande scommessa è che il racconto anche "sulla pagina" funzioni, sia asciutto, avvincente, pur restando nell'ottica di un personaggio. Per questo occorre uno stile. La scrittura adotta un ritmo cadenzato, franto, percussivo. Un ritmo che bene si addice al racconto degli ultimi cinque anni di vita di un musicista jazz.

Veniamo a conoscenza della sofferenza di Luca, attraverso il racconto del dolore di Michelle. Una donna subito innamorata, perciò ottimista, e, almeno fino a un certo punto, attivamente reattiva (come quando, dopo un terribile sogno, fa scomparire la preziosa collezione di coltelli di Luca). Capace di superare l'indifferenza che è spesso la risposta, almeno apparente, di lui, la sua incapacità di rompere il muro di gelo che lo circonda. Il personaggio di lei arriva a dire: "Mi sentivo così inutile, e stupida, e disprezzabile cosa".

Ascoltiamo anche la diretta voce di Michelle, la sua voce senza la mediazione di un altro progetto di scrittura, in una delle sue poesie allegate al libro: "Pain is [...] the strainght it takes / to hold back / the sea".

Fino a un certo punto, arginare le pulsioni negative dell'altro, può essere un'avventura che mette alla prova l'umanità di un individuo forte. Poi "la marea" irrompe e l'avventura precipita, la vita stessa, qui la vita di Luca, si spezza.

Lei sceglie di continuare a esistere, ed è gesto che richiede determinazione. Ci vuole forza per sottrarsi al risucchio di quella marea. Sceglie la vita, direi nei suoi aspetti emblematici, semplici, fisici. La musica, certo, ma anche e forse soprattutto respirare, correre, nuotare, i fiori, il sole, gli animali.

Michelle e Luca.Tuttavia il libro ha un altro protagonista che s'impone: il suono nei suoi due aspetti opposti e collegati, la musica e il il suo antagonista, il rumore.
Si propone qui un quesito, fondamentale per un musicista jazz, partito da una formazione classica. Nella rottura di quegli schemi, cercando liberamente, anche improvvisando, qual'è, nel continuum sonoro, il confine tra musica e rumore? Un quesito non risolvibile certo sul piano teorico, come ogni confronto tra ciò che è arte e ciò che non lo è.

I luoghi con il loro corredo di suoni indifferenti, non rivolti a noi, non sono mai neutrali nello svolgimento della nostra vita. Quasi all'inizio del rapporto con Michelle, Luca decide di lasciare il casolare di compagna dove vive, per trasferirsi in un ex granaio forse di proprietà della famiglia, se al piano di sotto vive il fratello. Sono nel borgo antico della Certosa ( di Firenze dovrebbe trattarsi anche se il nome della città stranamente non viene mai fatto). Luca si sistema lì, nell'appartamento che guarda sui tetti, ma, a piano terra c'è un laboratorio del ferro, macchinari rumorosissimi, sempre in incessante attività (p. 34). Un'imprudenza? Una minaccia sottovalutata che dal di fuori irrompe nella vita già fragile del musicista?

Quale requisito appare più necessario all'ambiente di chi si occupa di musica, che l'isolamento acustico, l'astrazione da ogni suono che non sia quello volontariamente provocato, ad arte appunto, sullo strumento?

Può avvenire che sul rumore importuno, esterno, s'inserisca un'eco, che viene dall'interno. Un suono che fino a un certo limite può liberarsi in un parossismo virtuosistico, ma, superato il segno, diventa spaventoso caos sonoro.

Nella vita degli artisti, noto, si verificano delle sovrapposizioni, dei percorsi quasi identici.
Questo soggiorno al piano alto sopra l'officina per la lavorazione del ferro, l'ho ricollegato a un episodio narrato da Rilke in TESTAMENTO: la brutta sorpresa di una segheria elettrica che viene installata nel giardino della villa-castello di Berg in Svizzera, dove il poeta era stato ospitato per lavorare in tranquillità. Anche lui scrive dell'impossibilità di comporre la sua poesia con quel rumore ossessivo che solo di notte cessa riconducendo un miracoloso silenzio. Anche lui sperimenta successivamente, e ne parla in quello stesso libro, ciò che chiama la "dura prova estranea". Come se il male psichico fosse ricollegabile a qualcosa che giunge da fuori. Rilke si trova allora a riempire tre pagine del suo taccuino di viaggio di parole, dice, "insensate nelle quali si disgregò il mio spirito, quando all'improvviso una difficoltà estranea gli si riversò addosso come acido corrosivo". Tre sole pagine di parole senza senso, contro le rimanenti pagine bianche, ma così contaminate da quell'assalto, che è costretto a gettare l'intero taccuino nel fuoco.

L'artista conosce momenti di intima rottura degli schemi, di pura frenesia, ma il baratro si spalanca solo quando vede il suo agire precipitare, sfuggire a ogni possibile forma, pura estraneità. Anche per Luca giunge il momento, in cui "questa difficoltà estranea gli si rovescia addosso come acido corrosivo". A lui avviene sotto gli occhi di tutti, durante un concerto. Gli altri musicisti si allontanano dal palco, il pubblico lascia la sala. Luca rimane solo.

Da questo episodio, a quanto risulta dal libro, Luca non si riprenderà mai. Anche il rapporto con Michelle ne uscirà scosso in modo forse non più rimediabile.

Un breve commento al CD accluso al libro, con musiche cantate da Michelle Bobko. Il brano A COLORO CHE NON HO CONOSCIUTO, scritto per ultimo e qui inserito, ha un titolo poeticissimo, nella sua ovvietà. Ogni arte è, per destino, rivolta a chi non si conosce. Se il destinatario resta nell'ambito degli affetti, delle amicizie, o degli addetti, non ci distanziamo troppo da un progetto infantile, realizzato per la delizia di chi ci sostiene e ci ama. Luca Flores dedica la sua musica a quelli che non ha conosciuto. Questo significa, al limite della sua vita, la volontà di trovare una voce che duri nel tempo, quella dell'arte appunto.


[Piera Mattei]

17/09/07

Andrea Zanzotto, ETERNA RIABILITAZIONE DA UN TRAUMA DI CUI S’IGNORA LA NATURA

Intervista a cura di L. Barile e G. Bompiani, Roma, Nottetempo, 2007

Zanzotto riflette sull’idea che la vita sia un “tentativo senza fine di superare un trauma sconosciuto” (p. 9), che costituisce una “trasformazione in termini laici dell’idea di peccato originale”, precisa con l’aggiunta di un “forse” (p. 16).

Anche in questi pensieri in prosa, come già nella sua poesia e nei saggi, si assommano varie possibilità tanto delle parole quando dei materiali ideativi e di vita concreta che le presuppongono; il riferimento è così anche a un evento realmente accaduto: un incidente del 2005 (p. 17).

Al contempo il poeta dichiara, con la specificazione “volendo infiocchettare un po’ la cosa”, che il trauma è poi anche (soprattutto? chiede il recensore) “il vissuto poetico, il vissuto della poesia, la preparazione della poesia, e poi i vari tentativi di ricevere un’ondata positiva e comunque creativa” (p. 18), con uno sfondo psicanalitico (Freud e, per il linguaggio, Lacan) che è da sempre proprio di questo scrittore, il quale si riferisce al trauma originario come un rapporto di “continuo confronto”, un “continuo autoprocesso” (p. 20).

La riabilitazione è la poesia nonché “il vissuto che è connesso al farsi continuo della poesia” (p. 31).

Ricorrono su questo filo di riflessione altri motivi di Zanzotto, quali la guerra, la devastazione del paesaggio, la possibilità dell’entropia, il correre del tempo tradizionale e del suo odierno mutamento, infine la variabilità poliedrica delle angolazioni da cui si scrive: “[…] non si ha un punto fisso da cui guardare le cose” (p. 87).

Così pertinente è l’intervista rilasciata da Zanzotto per la società della tarda modernità, per la vita degli individui, per la complessità della funzione rappresentata dalla letteratura.


[Roberto Bertoni]

16/09/07

Jia Zhang-Ke, STILL LIFE


[Still with a moving hand. Foto di Marzia Poerio]


DVD Lucky Red, 2007. Il film è uscito sugli schermi nel 2006, anno in cui ha vinto il Leone d'oro di Venezia. Direttore della fotografia: Yu Likwai. Scenografia: Liang Jingong e Lu Qang. Musica: Lim Gong. Con Sanning Han, Tao Zhao, Hong Wei Wan.

La vicenda di STILL LIFE è articolata attorno a due ricerche che si svolgono a Fengjie, in Cina nella zona della diga delle Tre Gole, per costruire la quale sono stati sommersi dei centri abitati. In una delle due ricerche (raccontata nel primo e terzo capitolo della pellicola, intitolati rispettivamente SIGARETTE e CARAMELLE), arriva dalla regione dello Shanxi, dove ha un lavoro di minatore, Han Sanming in cerca della moglie e della figlia, che non vede da sedici anni; per guadagnarsi da vivere durante questo periodo si aggrega a una squadra di demolitori di case; infine trova la donna; si suggeriscono due ipotesi per la sparizione di lei, una che Han avesse comprato la moglie e li avesse separati la polizia alla scoperta dei fatti (questa è una spiegazione fornita a un collega in assenza di lei), l'altra (a quattr’occhi, dunque più attendibile) è che se ne fosse andata volontariamente; i due coniugi decidono di riprendere a vivere assieme e tornano nella loro regione. Nell'altra ricerca, narrata nel secondo capitolo, intitolato TÈ, l'infermiera Shen Hong cerca suo marito, del quale non ha notizie da due anni; lo trova per annunciargli che ha deciso di divorziare.

Cercare qualcuno in una città sommersa (dove, prima di essere ricollocata, viveva la moglie di Han) pare un'allegoria esistenziale della memoria. Simboli mnestici risulterebbero anche altri dettagli: chi scava tombe recuperando il passato (un archeologo amico del marito di Shen); chi demolisce case, distruggendo così il passato; le riprese di un auto a tratti sfuocata nella notte come i ricordi quando si tenta di recuperarli; una carrellata su una serie di orologi.

Oltre al ricollegamento col passato, si ha l'incomunicabilità. Significativa in tal senso è una battuta di Shen, quando commenta sul marito: "Il vero problema è che non mi ha mai detto niente". Scrivendo dall'Italia, ma solo per questo aspetto, non per altri, viene in mente Antonioni.

Se il cercare è simmetrico per i due racconti narrati in STILL LIFE, non solo gli esiti sono differenziati, bensì anche la collocazione sociale dei protagonisti: minatore e manovale Han e barcaiola sua moglie, è invece benestante il marito di Shen. Attraverso queste vicende, e con funzione di filo unificante dell'intreccio, ci sono riprese di esterni e interni, voci e volti di persone, scene di lavoro che mettono in luce il dissesto ecologico, l'urbanizzazione accelerata, nuove mentalità e deperimento dei modi di essere tradizionali.

Talora si prefigura, come nei sogni, un quadro che si vorrebbe diverso, ad esempio quando lo scheletro di un edificio alto e svuotato decolla come un razzo; e con la sua sparizione riappaiono i monti che in parte nascondeva. Il regista rivela che questo e altri aspetti fantastici vogliono essere un omaggio alla tradizione fiabesca della regione [1]. Il film, girato in una fase di transizione, ha scopi di registrazione; come dice uno dei personaggi, "non dobbiamo dimenticare chi siamo".

Impegnata psicologicamente e socialmente, questa storia è narrata con uno stile ricercato, fondato sull'elogio della lentezza. "Still life", del resto, significa natura morta (qui "still" è un aggettivo); potremmo però anche interpretare "vita ripresa con inquadrature fisse o pose" (un altro significato di "still" se inteso come sostantivo). In effetti, molte inquadrature sono lente nel movimento e altre si fermano per più secondi di quanto ci si aspetterebbe. A conferma, il documentario DONG, che accompagna il film, mostra lo stesso spaccato sociale attraverso il lavoro di un pittore, oltre che nelle riprese di vita reale.


NOTE

[1] "La zona delle Tre Gole è ricchissima di leggende misteriose. Io volevo rendere omaggio anche a questa tradizione. Mi piace che l'elemento surreale e quello realistico convivano" (STILL LIFE. Intervista al regista e al cast a cura di Elisa Giulidori, http://filmup.leonardo.it/speciale/sanxiahaoren/int01.htm, 6-9-2006).


[Renato Persòli]

15/09/07

Toni Maraini, LA LETTERA DA BENARES

S'intessono in questo libro (Palermo, Sellerio, 2007) trame ben visibili che stringono un padre a una figlia, col legame naturale dell'amore certamente, ma anche con i variopinti fili di conoscenze ed esperienze culturali così diverse e complesse che su quei dati un racconto dall'andamento romanzato non sarebbe infine possibile. Manca, o a prima vista resta invisibile, il luogo dove i rituali di un'affinità si svolgono. Le parole semplici e affettuose di biglietti e lettere brevi registrano il luogo da cui parte il messaggio verso un luogo lontano, l'attività che il mittente sta svolgendo, con l'inserzione di alcune frasi di lessico, non direi familiare, ma intimo, speciale, da quel padre a quella figlia, la minore, quella delle tre che riconosce nella sua passione di vivere in parti diverse del mondo, un'eredità specialmente paterna.

Lo stile del libro è necessariamente ellittico, perché fa riferimento a più di cinquanta anni di storia, vissuta tra Estremo Oriente ed Estremo Occidente, le radici del cuore e della mente, almeno da un certo punto in poi, saldamente radicate nella zona sud del Mediterraneo, a fare propri la cultura e le ragioni dell'Altro.

Per questo il grande amore e il rispetto che porta al padre, non esonera Toni Maraini dal dimostrare una divergenza importante sul modo di confrontarsi ai fatti dell'11 settembre. Per Fosco quella tragedia ribadisce una differenza insanabile tra cultura Occidentale e Islam, per Toni che da occidentale ha serenamente vissuto lunghi anni della sua vita in un paese arabo, il Marocco, quel giudizio risulta pregiudiziale, emotivo e in definitiva, non seriamente motivato. Racconta molto dell'autrice questa volontà di "affrontare" il genitore non specialmente sui temi, sempre veri e sempre parziali, della lontananza, della carenza d'amore, quanto sulla capacità di usare i propri mezzi intellettuali per prendere posizione – fondata, certo, e non aggressiva – sui fatti del mondo.

Già precedentemente Toni Maraini aveva dedicato, pubblicandolo sempre con l'editore Sellerio, un libro a sua madre Topazia Alliata, al suo talento artistico, alla sua forte personalità e infine alla sua capacità di riconoscere tra i tanti artisti che ha incontrato quelli di sicuro valore. Ora, scrivendo il libro dell'ascendenza paterna, parlando del padre, della famiglia di lui, della sua cultura antropologica, Toni – anche lei, oltre che scrittrice, antropologa e critica d'arte – accetta di porsi, come l'interprete originale di questa duplice preziosa eredità.

In questo libro così fitto di ricordi, di eventi, di idee, tra i quali non a tutti sarà facile districarsi, ho sottolineato due paragrafi carichi di particolare emotività, che da soli potrebbero essere il seme di nuovi romanzi. Il primo è là dove Toni parla dell'imbarazzo che le ha procurato talvolta la sua condizione di sorella di una scrittrice universalmente nota, il secondo quando racconta del lavoro di catalogazione degli oggetti, dei libri e dei fogli lasciati dal padre, in compagnia delle tre donne della generazione successiva, le sue due figlie e Yoi, figlia di sua sorella Yuki. Questo racconto pacato, di un'attività importante e umile, in cui si possono immaginare scoppi d'entusiasmo in un lago di faticosa noia, mi è sembrato, ripeto, il piccolo romanzo celato, della devozione e della eredità culturale.

In questo episodio il ritratto dell'autrice acquista la sua luce più originale, una personalità che mi ha fatto pensare all'ottimismo e la forza di volontà dei primi monaci benedettini, nel disastro della decadenza. Sì, avverto in Toni Maraini il primato di un'etica razionale e ragionevole, la volontà di diffondere i valori in cui crede, una consapevolezza di cui troppi hanno deciso di fare a meno, perdendo e facendo perdere al mondo la varietà meravigliosa dei suoi significati.


[Piera Mattei]

13/09/07

Gian Paolo Ragnoli, ANDIAMO IN GIRO DI NOTTE


[Was it poetry that led us to the path where these stones from the past were found? Foto di Marzia Poerio]



Andiamo in giro di notte
E siamo consumati da un fuoco che brucia dentro.

Quali sono state le nostre passioni
E dove ci hanno condotto?
La gioia di avere, allora, vissuto
Per una grande idea e per l’umanità
Continua a determinare le nostre decisioni
Anche dopo molto tempo in cui
Gli anni, le sconfitte, i dubbi
Ci hanno reso chiaroveggenti, consapevoli
E senza speranza.

Forse è stata la poesia a condurci nella strada
Pensavamo di doverne attuare il programma
Nella realtà
Nulla ci pareva altrettanto necessario
D’altra parte “L’imagination au pouvoir!”
Sembrava un verso di Rimbaud…

E così ci rivoltammo
Contro la passata e presente organizzazione
Della vita.
È poi finita quell’epoca di incendi
Si dirà: avete perso
Ma non è detto che chi ha perso non avesse ragione.

Tra piazza Verdi e Via Mascarella
In Rue Sebastopol dietro l’ultima barricata
O in una casa di compagni
Piena di fumo e di sogni
Dopo una sigaretta o un bicchiere di troppo
Era facile pensare
Che non avremmo fatto mai nulla di meglio.

11/09/07

Vaikom Muhammad Basheer, MIO NONNO AVEVA UN ELEFANTE


["I asked my grandad to take me to the elephant". Foto di Marzia Poerio]



Titolo originale in Malaylaiam: NTUPPUPPAAKKORAANAENDAARNU (1951). La traduzione italiana di Clelia di Pasquale (Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2006) è dall'edizione francese del 2005.


Questa novella (o romanzo breve) in terza persona è narrata attraverso il punto di vista di Kunniupattumma, la protagonista prima bambina, poi adolescente e giovane, proveniente da una famiglia benestante che per una causa legale inerente alla proprietà della terra da condividere con altri familiari, perdendola, pagate le spese legali e le tangenti a chi di dovere, è costretta a vivere in stato di povertà, con aggravamento dei rapporti tra il padre e la madre della ragazza, che litigano di continuo.

La madre in particolare ricorda i bei tempi andati e fa presente spesso alla figlia che suo nonno possedeva "un elefante con le zanne", mito che si infonde nella mente di Kunniupattumma; costituisce un ritornello per i lettori, ripetuto a intervalli regolari nel testo; viene infine sfatato da alcuni bambini, che prendendo in giro la madre di Kunniupattumma, riducono l'animale fiabesco a un derisorio sintagma ripetuto: "elefante-blatta" (p. 102), col che la storia finisce, verificandosi un matrimonio tra l'interprete principale e il figlio dei vicini, Nisaar Ahamed.

La narrazione è svolta con ottica di apparente semplicità, ottenuta tramite periodare breve e schemi iterativi.

I procedimenti metatestuali sono riposti in frasi come "si credeva in tutto ciò che veniva detto" (p. 30), riferibile tanto alle credenze del villaggio quanto al racconto che si sta leggendo.

C'è un contrasto tra la mentalità tradizionalista della famiglia di Kunniupattumma e quella più spregiudicata di Nisaar Ahamed, per cui MIO NONNO AVEVA UN ELEFANTE è anche sulla linea di confine tra il mantenimento delle norme tramandate e la loro innovazione; e pare propendere in quest'ultima direzione.

Povertà, società rurale, rapporti gerarchici dentro la famiglia, narrazione di tipo orale, ironia moderata e gradevole sono tutti aspetti di questo bel racconto.

L'autore (1908-1994) visse parecchie esperienze, partecipando in prima persona alle vicende di liberazione dell'India, facendo molti mestieri, vivendo per alcuni anni tra gli asceti, per risiedere infine con la moglie e i figli in Kerala.


[Roberto Bertoni]

09/09/07

Gabriella Turnaturi, TRADIMENTO. L’IMPREVEDIBILITÀ DELLE RELAZIONI UMANE


[Insect. Foto di Marzia Poerio]

Vari operatori intellettuali contemporanei hanno tentato di ridefinire non solo gli atteggiamenti e i comportamenti normalmente ritenuti campo proprio della sociologia, quali le collocazioni di classe, gli intrecci tra individuo e collettività e così via, bensì anche altri aspetti, normalmente ascritti alla vita privata e alla psicologia, in un incontro interdisciplinare crescente e fertile tra distinte scienze umane e sull’onda della mutazione che pare si stia verificando, per lo meno nell’Occidente tardomoderno, nel campo dei sentimenti e delle emozioni. Si pensi alle idee di Bauman sull’“amore liquido”, o alle “narrative di vita molteplici” studiate tra gli altri da Giddens, per ricordare solo due degli studiosi che si sono occupati di campi paralleli a quelli tradizionali.

In tale ambito, alcuni anni fa, troppi per proporre una recensione vera e propria, ma non tanti da non vederne ancora l’attualità, il volume di Turnaturi (Milano, Feltrinelli, 2000) punta l’attenzione sul tradimento, proponendosi di interpretarlo in chiave sociologica e come interazione tra due individui o gruppi che hanno creato una condivisione, un “noi” che viene spezzato.

Nei rapporti d’amore e d’amicizia il tradimento può tendere al “mantenimento della relazione” (p. 24), invitando a una ridefinizione di tali rapporti.

“Perché vi sia tradimento bisogna che esso sia percepito e definito come tale da chi è tradito o da chi tradisce” (p. 28).

“Il tradimento è il luogo dell’asimmetria tra le nostre aspettative e la realtà” (p. 32).

La fiducia assoluta e la necessità di lealtà totale dell’adolescenza fanno sì che in questa fase della vita il tradimento venga percepito come tale in casi anche minori come un segreto svelato o una mancanza da parte di amici, ma a meno che non si siano sedimentati come traumi, questi aspetti risultano meno gravi nell’età adulta. Turnaturi fa qui riferimento a Hillman, all’idea di perdere la fiducia primaria e imparare anche a non fidarsi. Il tradimento così diviene parte della crescita e del processo di socializzazione (pp. 35-36).

Tra i tradimenti esemplari in sede storica, l’autrice esamina soprattutto Giuda rispetto a Gesù e il duca di Essex rispetto alla regina Elisabetta; e vede il passaggio teorico verso le concezioni moderne del tradimento in quanto opportunità senza giudizio di condanna, anzi il contrario, in Machiavelli.

Nella tarda modernità il tradimento è diventato più frequente e considerato poco grave, anzi talora non sottoposto a stigmi etici di alcun tipo. Sulla scorta di Sennett, secondo il quale “diminuisce la possibilità di fondare rapporti fiduciari, di sviluppare lealtà e affezione sia verso le singole persone sia verso le organizzazioni e le istituzioni” (p. 127), Turnaturi rileva che si ha una possibilità di tradire più frequente: “il tradimento diventa più diffuso, più accettato e socialmente sdrammatizzato” e “sembra non ricadere in alcun giudizio morale, perso nell’indifferenza […], considerato uno fra i tanti modi di comportarsi” (p. 130); si assiste a una “perdita di rilevanza sociale del tradimento coniugale e del tradimento della fiducia” (p. 131).

Ciò è accresciuto da nuove occasioni di tradimento tramite Internet, ma “già nel modo reale sembra che non ci sia più bisogno di nature leali?” (p. 137).

Non troppo retorico, purtroppo, pare allo scrivente questo interrogativo di Turnaturi in tempi inquietanti come quello attuale.

[Roberto Bertoni]

Aldo Carotenuto, ÉROS E PÁHTOS. MARGINI DELL’AMORE E DELLA SOFFERENZA


[Éros and páthos as conveyed by a stone rose. Foto di Marzia Poerio]

Nella ristampa attuale (Milano, Bompiani, 2006), una nota alla prima edizione del 1986 ribadisce la difficoltà definitoria di un campo come quello dell’amore per eccellenza soggetto alla mutevolezza e a sfuggire ai tentativi classificatori che lo vogliano “ridurre, esaurire, banalizzare” (p. IX).

Tra le chiavi di lettura proposte, pare prevalere l’interpretazione secondo le impostazioni del processo di individuazione che potrebbe condurre a una migliore conoscenza di sé tramite l’esperienza della relazione e di conseguenza a un maggiore rispetto o a una più elevata tolleranza per entrambi i partner.

“Essere implicati significa prender parte alla vita interiore di un’altra persona” (p. 108). Ne consegue che della dinamica di éros e páthos fanno parte corpo, anima, solidarietà, dolore, accettazione delle contraddizioni, solitudine, mancanza, immagine, accettazione dell’irrazionale: tutte dimensioni affrontate nel volume.

Un effetto importante hanno anche le esperienze normalmente vissute come negative e che già alla prima edizione suscitarono reazioni da parte dei lettori, come rivela l’autore, soprattutto riguardo il tradimento: concepito, quando si verifichi, come un sintomo di problemi della coppia affrontabili e forse superabili; e distinto dall’adulterio inteso invece come esperienza non conoscitiva, statica e coinvolgente solo il partner che lo perpetra. “Perché il tradimento assuma una valenza psicologica”, scrive Carotenuto, “dobbiamo inquadrarlo nell’ambito più ampio della fedeltà a se stessi: il tradimento mette in gioco la nostra autenticità” (p. XIV); è una sofferenza collegata al “trauma della perdita” e ha un sostrato edipico (p. 91); riflette l’utopia di un’aspettativa di fiducia piena e totale irrealizzabile nella realtà; è un aspetto di “integrazione dell’ambivalenza” (p. 94); costituisce una dinamica di corresponsabilità tra chi lo perpetra e chi lo subisce.

Secondo Carotenuto, in generale nella relazione a due, proprio quando essa sia autentica e duratura, questo accade:

“[…] la totalità è una dimensione che noi vagheggiamo, ma è più un mito che una realtà. Rinunciare al mito, uscire fuori dalla simbiosi, significa che nel rapporto si sperimenta continuamente la separazione da ciò che si ama, ciò che amo non sarà mai completamente mio. L’accettazione della realtà costringe l’uomo a riconoscere la propria fondamentale e strutturale solitudine anche in quelle situazioni che sembrano scongiurarla” (p. 48).

A ciò si accompagna la necessità della consapevolezza che l’interiorizzazione dell’altro è alla base del rapporto amoroso.

Una delle considerazioni conclusive è la seguente: “Solo con lo sviluppo della consapevolezza possiamo comprendere ciò che è veramente importante per la nostra salute psichica, e cioè che nulla dipende dagli altri” (p. 167). È dunque capace di amare chi riesce a essere profondamente se stesso, cautelandosi anche per quanto possibile dalla sofferenza senza per questo evitare di esporsi?

[Roberto Bertoni]

06/09/07

Vikram Chandra, GIOCHI SACRI


[Can we tie up life? Foto di Marzia Poerio]


Vikram Chandra, GIOCHI SACRI. Titolo originale SACRED GAMES (2006). Traduzione di F.Orsini, Milano, Mondadori, 2007.

Ganesh Gaitonde è a capo di una banda indiana di criminalità organizzata con ramificazioni internazionali, collaboratore di un programma dell’antiterrorismo in funzione contraria al Pakistan, seguace di un guru che ha intenzione di destabilizzare la scena politica con una strategia della tensione fondata su un ordigno nucleare che se esplodesse risulterebbe un attentato della parte avversa. Gaitonde ha per tutta la vita inseguito il potere e la violenza; ha lanciato una diva del cinema che per ottenerne l’appoggio ha calcolato nel proprio interesse di assecondarne i desideri; tratta con una starlet televisiva fallita di nome Jojo, che gli procura amanti a pagamento; ha costruito un rifugio antiatomico e per la disperazione di non ritrovare il suo guru entrato in clandestinità, dopo avere ucciso Jojo che ha avuto il coraggio di rivelargli com’è di fronte a se stesso, si suicida quando, a causa di una soffiata, il commissario Sartaj lo stana. Forse era impazzito, ma forse le trame oscure erano reali e varranno mese a tacere dai servizi segreti che Sartaj coadiuva: quest’ultimo, per ottenere informazioni, denuncia il suo capo che finirà anch’egli suicida.

Questo libro disilluso utilizza con competenza i tratti del romanzo di genere per raccontare una storia basata in parte su un’inchiesta presso la criminalità svolta personalmente dell’autore.

Si mette in rilievo un quadro sociale in cui sono crollati i parametri della coesione: la religione, la famiglia, la rispettabilità delle istituzioni. Troviamo politici senza scrupoli; poliziotti che ricevono bustarelle regolarmente; malviventi affondati nel lusso; gente di campagna; persone della borghesia medio-alta che agiscono per interesse personale; abitanti di quartieri-ghetto. Diversi personaggi sono divorziati; vari sono insoddisfatti. Sembra che le modalità tradizionali della vita associata siano saltate in un’India che cambia con rapidità. Ci si trova in un disincantato “mondo pervaso dal crimine” (p. 409), in cui “il denaro crea la bellezza, il denaro dà la libertà, il denaro rende possibile la morale” (p. 834).

Sartaj è un poliziotto relativamente onesto, in ogni caso determinato a fare il suo dovere, ma flessibile abbastanza e possibilista tanto da risultare vicino alla verità documentaria. Il prezzo della sua indagine è la perdita di un amico e un tradimento perpetrato in nome dell’interesse collettivo. Il comportamento di Sartaj è un misto di moderno e meno moderno, si tratta di un individuo socialmente in transizione.

In GIOCHI SACRI, Chandra pare voglia rendere la totalità, agendo come il suo protagonista: “un poliziotto deve saper osservare tutto, qualsiasi cosa, […] tutto ciò di cui il mondo è fatto” (pp. 120-21). Gli avvenimenti di questo giallo si verificano in concatenazioni secondo le quali “tutto coesisteva in un modo o nell’altro” (p. 964); e sono fondate, come l’indagine solitamente dei polizieschi, su “analisi degli eventi, […] contiguità, congiunzioni, somiglianze, ripetizioni” (p. 392). La vita è intesa come un gioco al di sopra dei personaggi che la popolano, “non è altro che […] lila”, termine che significa un modo di “intendere il mondo e la creazione come giocattoli di Visnù” (p. 60).

L’angolazione narrativa è triplice: il narratore onnisciente insinua i casi i vari personaggi polifonicamente, delineando una storia comune e corale; il discorso indiretto libero in terza persona rende ciò che sa Sartaj; la prima persona di Ganesh racconta un’autobiografia retrospettivamente, dopo la morte, a capitoli alterni a quelli di Sartaj che procedono invece verso il futuro man mano che l’inchiesta si dipana.

Canzoni popolari, riferimenti al cinema di Bollywood, interpretazioni filosofiche, il filo delle notizie provenienti alla carta stampata si intrecciano con i dialoghi e una serie di espressioni colloquiali in lingua hindi spiegate in un repertorio lessicale accluso in appendice.

Romanzo dunque di testimonianza sociale e allo stesso tempo di notevole inventiva, complesso nei confronti della questione del realismo, di ampio respiro sociopolitico, lungo quanto al taglio sul settore di mondo rappresentato, di buona qualità stilistica.


[Roberto Bertoni]

03/09/07

Mauro Ferrari, L'URLO E IL SILENZIO

*

L'urlo e il silenzio: una congiunzione che, come un ponte, ha il duplice scopo di separare e unire: come immaginare uno senza l'altro? L'urlo dell'omicida e il silenzio dell'ucciso; ma anche, specularmente, l'urlo della vittima e il silenzio del carnefice incappucciato.


*

Suono, rumore, urlo, canto, musica; vi si contrappone il solo silenzio. Troppe parole mancanti, come se questa sola bastasse per opporsi a tutti i modi in cui l'Essere segnala la propria presenza: da un lato del muro, i segni; di là, l'assenza. Il non.


*

Dove è l'urlo, dove il silenzio? Quale ci fascia, il nero caos dei suoni (plurali) o il bianco vuoto del silenzio (singolare)? Di qua o di là del muro? Liberi o prigionieri?


*

La differenza sostanziale fra urlo e silenzio: l'intenzione. L'urlo, si sprigioni dallo spasimo del dolore o dalla gioia, dal contrarsi di un corpo condannato o da una danza folle sulla spiaggia, non presuppone volontà; non è coscienza di voler infrangere il silenzio. Il silenzio invece è coscienza di voler infrangere il muro del suono per essere liberi. scelta di non parlare, non urlare, non cantare. Si deve parlare; si sceglie di tacere così come si sceglie di addormentarsi ma non si è liberi di svegliarsi.


*

Wittgenstein: "Di ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere."
Eschilo: "Il racconto è dolore. Ma anche il silenzio è dolore."
Yeats: "La sua mente si muove sul silenzio".


*

Ma c'è anche il silenzio di coloro che s'incamminarono alle docce, ormai spremuto tutto l'urlo e ammutolita ogni volontà di resistere; il silenzio di chi, contratto nel proprio uovo di dolore, non trovò la forza d'urlare, e le ombre che furono proiettate sulla pietra prima d'emettere un solo suono. E la lingua assente di quanti hanno varcato la soglia, e poi il denso indicibile delle anime che non accostano il pellegrino giunto da un altro mondo: tacciono perché sono loro che hanno in mano, per sempre, "ciò di cui non si può parlare", che è sempre morte.
Scelte o necessità? Come potrei scrivere se l'avessi già capito?

01/09/07

Lucetta Frisa, LA TORRE DELLA LUNA NERA


[Pity the lighthouse tower in La Spezia couldn't be fotographed under a black moon. Foto di Marzia Poerio]


Erano chiuse tutte lì, le strane, le disobbedienti, le favorite che non lo erano più, le donne una volta giovani e belle e che ora, vecchie e lamentose, venivano scacciate dai loro signori, le pettegole che parlavano male del califfo, smascherandone la scarsa virilità e le sue sciocche o perverse manìe, le giovani che non riuscivano a soddisfarlo, le sterili e quelle che si rifiutavano di avere figli e scappavano dalle alcove inseguite dai cani, quelle che desideravano occuparsi di qualcos’altro che non fosse solo incipriarsi e profumarsi in attesa del loro turno e avrebbero voluto scegliere da sé l’uomo da amare invece di subire la scelta, che cantavano e improvvisamente mancava loro la voce, danzavano e si facevano male alle caviglie, sorridevano poco, si ammalavano troppo, si chiudevano in un ostinato mutismo con lo sguardo perduto e rifiutavano il cibo, raccontavano visioni avute nel sonno o in giardino, amavano più gli animali degli uomini, piangevano per una sciocchezza o continuavano a piangere senza motivo per ore e ore. Tutte lì asserragliate nella Torre della Luna Nera, così chiamata perché ospitava donne ribelli e per questo ridotte all’invisibilità, o anche Torre delle Poetesse perché chi la abitava scriveva versi per non impazzire; mentre dalla parte opposta della città, si ergeva la Torre del Sole Nero o Torre dei Poeti. Lì i poeti, o i pazzi d’amore, sospiravano da mattina a sera, e si udivano i loro sospiri fin nelle strade sottostanti; sbattevano la testa contro i muri, chiamavano per nome le loro amate, viste una sola volta o mai in tutta la loro vita, scrivevano poesie sulla bellezza di un dito, di un orecchio o di un sopracciglio, e vedevano seni, nuche, piedi, capelli e occhi femminili dappertutto e si masturbavano gridando e ridendo, raccontavano storie assurde come fossero vere picchiando furiosamente chi metteva in dubbio le loro parole, rimpiangevano l’infanzia fino a tentare il suicidio, e cantavano a squarciagola per non udire mai il silenzio.

Ma nella Torre della Luna Nera o delle poetesse, forse avvenivano più fatti e più turbamenti, si pativano più dolori che in quella del Sole Nero o dei poeti. Le donne, vecchie e giovani, si ingegnavano in ogni modo e maniera per riuscire a sopravvivere e, tra di loro, due ce n’erano dal carattere carismatico: Sheila e Amina.

La prima le incitava a tener duro, a danzare anche se tristi e disperate, ad essere amiche e solidali, raccontarsi sogni e desideri, inventare giochi e canzoni, occuparsi dei fiori, dei gatti, degli uccelli affamati e della semina di nuove piantine per ogni stagione. Interveniva quando qualcuna di loro minacciava una lite o una malinconia esagerata, dicendo parole di pace, rivolgendo gli attriti in scherzo. Amina no, Amina
metteva loro sotto gli occhi la dura realtà di prigioniere senza speranza, accresceva il loro tormento, si ingegnava a fomentare rancori, rivalità e maldicenze. Le umiliava, ricattava e tradiva: voleva vederle soffrire come e più di lei.

Come spesso accade, si formarono due “gruppi”: in quello di Sheila, le giovani più ingenue e meno rabbiose, di una mitezza un po’ folle ma innocua. Nell’altro, di Amina, le più insofferenti e aggressive, con meno illusioni e fantasia, non meno folli delle prime, ma di una follia sempre sul punto di esplodere con imprevedibili conseguenze.

In mezzo a tutte queste donne, gli eunuchi finirono come quei bambolotti su cui le bambine sfogano ansie e capricci. Loro confidenti ma anche spie, orecchi tesi a origliare, occhi pronti a interpretare il non visto o l’appena intravisto; con il compito di sorvegliarle e di riferirne gli eccessi ai superiori, o se qualcosa non andava loro a genio. Infine tutti dipendevano, in modo assoluto, dai malumori del califfo e dai malumori di Allah.

Testimoni ambigui e impotenti, gli eunuchi furono investiti di un ruolo supremo, indiscusso, ogni volta che si bandivano le Gare di Poesia. Succedeva spesso. L’idea di queste gare esaltanti era stata di Amina e di Sheila insieme, che la misero in pratica, sempre di buon accordo, almeno per quelle occasioni. E insieme decidevano il momento della proclamazione del concorso: era quando i livelli di malinconia e d’irrequietezza delle donne oltrepassavano certi limiti, quando l’insofferenza per il loro stato si faceva intollerabile, malgrado le pozioni di erbe soporifere o le bevande inebrianti somministrate dagli eunuchi. Erano assemblee tumultuose che cominciavano di notte per poi interrompersi al mattino e riprendere la notte successiva, finché non si assegnavano i premi alle poesie più votate.

I premi, in sé stessi, non avevano valore. Avevano valore i giudizi.

Ma difficilissima si presentava la scelta.

Quali versi erano più belli e profondi? Questi…

Ho avuto un invito ad amare e l’ho accolto. Ora
le lacrime scrivono sulle guance le mie pene d’amore.
Rivelano quello che voglio nascondere, nascondono
quello che vorrei rivelare…

Oppure …

Quando scorrono le mie lacrime assomigliano al vino
perché l’occhio contiene un liquore simile a quello nel bicchiere
Per Allah, io non so più se le mie ciglia hanno versato vino
o se ho bevuto le mie stesse lacrime. Forse in due maniere
si può raggiungere l’estasi: nell’amore e nel pianto.

Quale delle due poesie meritava il premio?

E ancora:

Fui inebriata dai suoi occhi e non dal suo vino
è stato il suo passo deciso ad allontanare il sonno
non mi ha distratto il vino ma il suo collo
non mi ha esaltato il liquore ma la sua voce.
La mia fermezza vacilla per i suoi capelli
e quello che la sua veste cela, i sensi mi rapisce.

O questa?

Si è levato sulla fredda torre un vento di primavera
o dolce vento vieni verso di noi, ognuno
ha la sua sorte e la sua parte in questo dramma,
tu abbi compassione di chi ama e sogna invano
e accarézzalo come un raggio di luna un fragile ramo.

Gli eunuchi erano sempre molto indecisi nei giudizi. Giudicare una poesia non è facile. Il loro imbarazzo mandava su tutte le furie le poetesse che si affannavano a conquistare i loro voti attraendoli con coccole, regali e favori di ogni genere, poi li picchiavano con una verga se non votavano per loro, strappavano i pochi peli delle loro barbette, lanciandogli addosso le coppe vuote o piene di vino e ogni sorta di oggetto a portata di mano. Infine, li travestivano nel modo più ridicolo facendoli sfilare sotto i loro occhi come bestie ammaestrate e… lunghe e larghe risate risuonavano per tutta la torre, cristalli, specchi e lampade tintinnavano. I cani cominciavano furiosamente ad abbaiare. L’apice del divertimento era raggiunto.

Gli eunuchi si vendicavano. Anche loro erano bizzosi e infidi come e più delle donne. Consumavano le loro vendette secondo il livello di gravità delle offese. Se giudicate tollerabili, si facevano giustizia per conto proprio: ecco che una poetessa inciampava, per caso, sui gradini delle scale o sul bordo di un tappeto, un’altra appariva con il corpo e il viso coperto di bruciature. Oppure - e questa era, tra le vendette, la più perfida - cominciavano a parlare del mare.

Parlavano della sua bellezza che guariva ogni male del corpo e dello spirito. Il mare che loro non avrebbero mai visto perché mai sarebbero uscite dalla Torre della Luna Nera: gli ordini erano quelli e, se avessero solo tentato di opporvisi, una morte atroce le attendeva. Dicevano che era vicino, proprio dietro la Torre e quindi alle loro spalle, ma era come se non ci fosse, perché le sue finestre si affacciavano tutte all’interno del cortile.

Quando le offese erano considerate molto gravi, gli eunuchi le riferivano al sottosegretario del califfo, e se il sottosegretario aveva interesse ad ascoltarli, per un qualche motivo, o anche senza motivo, trovava subito il modo di compiacerli. E un bel giorno, una certa poetessa non c’era più. Nessuna traccia di lei: sparita come un’ombra al sole impietoso del mattino. E con lei i suoi abiti e i suoi oggetti personali: e i suoi versi, cancellati per sempre, come non fossero mai esistiti.

Si diceva che la calassero, ancora viva, dentro uno dei pozzi del cortile, abbandonandola lì fino alla morte. Tutte le notti, chi aveva l’udito sottile, poteva infatti percepire i suoi lamenti soffocati, le sue strazianti invocazioni di cui nessuna parola si distingueva. Quelle voci sotterranee di dolore si mescolavano per un po’ di tempo al dolce gorgogliare delle fontane. Per un po’, finché a un tratto, una notte, ecco che ritornava il silenzio.

Furono questi avvenimenti a suscitare in Sheila e Amina un’altra idea straordinaria: suggerire alle compagne di inventarsi una lingua propria, un linguaggio oscuro simile a quello che saliva, di notte, dal fondo dei pozzi quando una di loro, malauguratamente, li abitava: un linguaggio da tradurre in versi musicali e misteriosi, assolutamente inaccessibili agli eunuchi.

Era un modo di comunicare solo tra loro.

Scelsero, per i versi, una parola-chiave, simile a un segnale d’intesa che li apriva tutti.

Questa parola-chiave fu la parola mare.

Oggi mi sono svegliata cantando e cantando ho aperto il mare
Liulao fanderho dahab salam hiulhaooo
nessuno mai lo chiuderà soliuhoo bilam bilah
nur la porta e nur seppur non basta il canto
ma il coraggio, lo voglia o non lo voglia Allah…

Recitava una poetessa, alzandosi in piedi, con voce soavissima.

Al lume di candela ho visto gli occhi delle mie compagne
erano di fuoco più del fuoco perché salubaradan samar sul mare
danzava la nur della nostra luna aperta novelan liubah
ed eravamo sayed sayad viranjubad a un tratto libere…

Rispondeva un’altra con un’intonazione che metteva i brividi.

Ho capito che Allah non si schiera da nessuna parte
da quando kukkikan el devaz coffh coffhan lubeilubai
e perciò una notte shulian shuliei shuliai Sheherazai
il mare mahmad mahmadai noi insieme mahmadà
la porta, con o senza la volontà di Allah…

Le faceva eco un’altra, quasi tremando.

- Che cosa dite? - chiedevano gli eunuchi, strabiliati.
Le donne ridevano.
- Siete diventate pazze? Che modo è questo di fare poesia?
Gli eunuchi cominciavano a innervosirsi.
Le donne ridevano.
- Perché ridete? Smettetela! Siete diventate stupide?
Le donne ridevano.
Si andò avanti così per diverse notti. Le poesie sempre più misteriose, le donne più euforiche, gli eunuchi più rabbiosi.

Nelle notti di luna nera era tradizione far scorrere molto vino; mescolandolo a droghe diverse, tutte le donne, giovani e vecchie, sane e malate, si davano sfrenatamente a danze voluttuose insieme agli eunuchi ; che, nei fumi dell’alcool, battevano piedi e mani dalla contentezza. Tra una danza e una coppa di vino, tra canzoni, carezze lascive, baci e ancora vino, in una di quelle notti senza luna, le poetesse prigioniere fecero ubriacare più del solito gli eunuchi, e con gli eunuchi, le guardie della Torre: quando li videro piombare nel sonno come sassi, si misero a spingere tutte insieme la sua grande porta. E la spalancarono.

Via le ciprie, i profumi, la pigrizia, la noia, la malinconia, la schiavitù. Se ne andarono così, con i soli abiti che avevano indosso, di corsa verso il mare.

Non si saprà mai a quale destino andarono incontro: chi di loro tornò indietro e fu cacciata, torturata o comunque punita dolorosamente, chi cercò i parenti e non li trovò e per chi li trovò fu peggio per loro; chi si inoltrò nel deserto a seguito di carovane e si perse, chi finì tra i mendicanti davanti alle mura della città, chi con la complicità di persone compassionevoli fu aiutata a travestirsi da uomo e si arruolò come mozzo su navi da carico e quando venne scoperta divenne la prostituta della ciurma; chi si ammalò di malattie incurabili, si avvelenò, fu la sposa triste e disprezzata di qualche marinaio povero o mercante ricco, chi venne lapidata sulla pubblica piazza per ordine del califfo o per il capriccio di qualche suo sottosegretario, chi corse nuda sulla spiaggia e si abbandonò per sempre alla furia del mare.

Non si sa veramente come finirono tutte le poetesse della Torre della Luna Nera che vollero fuggire per vedere il mare.

Molte, da quella notte, cominciarono a chiedersi: fui o non fui un giorno prigioniera di una torre? Si chiesero se erano state vittime di un incubo o se l’incubo era quello che stavano vivendo, ora che erano libere. Si chiesero se fossero cadute in una prigionia peggiore della prima. Se a fuggire da quella torre ne era valsa la pena. Tutte domande senza risposta che, dietro i veli delle metafore, continuarono a porsi nei loro versi, consapevoli di voler proseguire, in questo solo modo possibile, il loro impossibile sogno.

CARTE ALLINEATE. Numero 8, Agosto 2007 / Issue 8, August 2007

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INDICE ALFABETICO / INDEX

Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio:

- BETTARINI, Mariella, BALESTRUCCI: UN RACCONTO IN VERSI. Note di lettura di Piera MATTEI, 8-8-07
- ERCOLANI, Marco, BUCHI NEL VUOTO. Testo, 23-8-07
- FERRARI, Mauro, FRAMMENTI. Testo, 15-8-07
- FRISA, Lucetta, CENDRILLON. Testo, 21-8-07
- GALIMBERTI, Umberto, LA SOGGETTIVITÀ CONTEMPORANEA. Note di lettura, 11-8-07
- GRISWOLD, Wendy, SOCIOLOGIA DELLA CULTURA. Note di lettura, 12-8-07
- KADARÉ, Ismail, L’AQUILA. Note di lettura, 9-8-07
- KI-DUK, Kim, TIME. Storie di film di Renato Persòli, 22-8-07
- MAFFIA, Dante, AL MACERO DELL'INVISIBILE. Note di lettura di Piera Mattei, 26-8-07
- MATTEI, Piera, NOTE SU CIBO E POESIA. (3. PRANZI E BANCHETTI). Riflessione, 13-8-07
- MERILL, Jay, ASTRAL BODIES. Note di lettura di Anamaría Crowe Serrano, 17-8-07
- MUGNAINI, Ivano, VERSO IL CASTELLO DEL VISCONTE DIMEZZATO. Testo, 6-8-07; con tre domande all'autore
- PER ANTONIONI. Storie di film di Renato Persòli, 3-8-07
- PER BERGMAN. Storie di film di Renato Persòli, 1-8-07
- LEARCO PIGNAGNOLI E DANIELE BENATI. Note di lettura di Monica Francioso, 20-8-07.
- LEVO ROSENBERG, Margherita, ARTISTI ITALIANI IN FINLANDIA. Mostra, 29-8-07
- SALVADORI, Massimo L., L’IDEA DI PROGRESSO. POSSIAMO FARNE A MENO? Note di lettura, 16-8-07
- SKY, Fotografia e versi di Marzia Poerio; con commento. 5-8-07
- von FRANZ, Marie-Louise, I MITI DI CREAZIONE. Rilettura, 4-8-07