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INDICE ALFABETICO / INDEX
Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.
- ARLETTI, Pia e FERRINI, Franco, AGAPORNIS SUITE HITCHCOCK. Storie di libri e di film di Gabriella MIGNANI, 3-8-2011.
- BORGES, Jorge Luis e JURADO, Alicia, QU'EST-CE QUE LE BOUDDHISME?. Note di lettura di Aurelio DEVANAGARI, 23-8-2011.
- CANNON, Moya, A POEM. Testo con traduzione, 25-8-2011.
- DIVAKARUNI, Chitra Banerjee, SISTER OF MY HEART. Note di lettura, 17-8-2011.
- FERRAJOLI, Luigi, POTERI SELVAGGI. LA CRISI DELLA DEMOCRAZIA ITALIANA. Note di lettura, 7-8-2011.
- HESSEL, Stéphane, IMPEGNATEVI! Note di lettura, 19-8-2011.
- HWANG, Sun-Won, LA PETITE OURSE. Note di lettura, 13-8-2011.
- KOREAN RHAPSODY – A MONTAGE OF HISTORY AND MEMORY. Storie di immagini di Renato Persòli, 21-8-2011.
- KURIUM - NOSTALGIA. Storie di immagini di Renato Persòli, 15-8-2011.
- LA SERIE COREANA. Storie di film di Renato Persòli, 27-8-2011.
- MALERBA, Luigi, TI SALUTO FILOSOFIA. Note di lettura, 9-8-2011.
- MINIATURES. Fotografia e versi di Marzia POERIO, con commento, 1-8-2011.
- MONTOBBIO, Santiago, RIFRAZIONI E CHIAROSCURI, a cura di Clarissa AMERINI (Parte I). Testi con commento e traduzione, 5-8-2011.
- NIGIDO, Pier Giacomo, HAIKU PER LA NOTTE FONDA (I). Testo, 29-8-2011.
- PIZZI, Marina, VIGILIA DI SORPASSO, 2009-2010 [71-80]. Testo, 11-8-2011.
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A cura di / Ed. Roberto Bertoni.
Address (place of publication): Italian Dept, Trinity College, Dublin 2, Ireland. Tel. 087 719 8225.
ISSN 2009-7123
31/08/11
29/08/11
Pier Giacomo Nigido, HAIKU PER LA NOTTE FONDA (I)
[Modern mandala? (Noksapyeong station, Seoul 2011). Foto di Marzia Poerio]
1.
Fanali gialli incombono minacciosi.
Sfrigolano le falene del cuore.
2.
Del rostrato falco segui le terribili volute.
Precipite ferocissima crudeltà.
3.
Acida alba e inquieta.
Sottili ombre sul muro.
4.
Perigliosa luce meridiana.
Abbacinante dissipazione del tempo.
5.
Evanescente estate.
Delibare morte certa.
27/08/11
LA SERIE COREANA
[The child (Seoul 2011). Foto di Marzia Poerio]
Vorremmo spezzare una lancia a favore della serie coreana, o fiction per dirla all’italiana con un termine inglese fuori posto, o drama per utilizzare l’espressione inglese impiegata dai siti internet orientali di sceneggiati, che si avvicina forse di più a uno dei modelli, quello teatrale, l’altro è logicamente il cinema.
Prima di proseguire, comunque, certo, le cautele. In generale le serie sono ripetitive; fanno parte di un panorama di riferimento che si rivolge al pubblico di massa; confermano non troppo di rado i valori dominanti; i personaggi sono abbastanza spesso ricettacoli per la performance di attori e attrici di successo; non sono scarsi i momenti lacrimevoli. Tutto vero.
Detto questo, a parte indicare che ci sono delle eccezioni agli schemi sopra delineati, è però proprio dall’interno di questi congegni, oltre che per altre ragioni artistiche e sociali, che gli sceneggiati coreani colpiscono lo spettatore, o almeno noi in qualità di spettatori, piuttosto positivamente.
Riprendiamo il discorso del secondo capoverso. Le serie sono ripetitive, ma si fondano su archetipi del narrare che aggiornano alla modernità storie senza tempo. Primeggiano i casi patetici (portatori di pathos) dell’orfano abbandonato dalla madre o da entrambi i genitori, che deve conseguentemente trovare il proprio luogo nella vita a contatto con gli altri; l’archetipo della Cenerentola che si innamora del ricco signore, con varianti disparate; l’avidità del potere economico e politico che sfrutta i diseredati; l’autenticità dei sentimenti e dei valori; la ricerca di onestà.
Attorno a questi spunti vengono costruite storie grandiose per la qualità emotiva che intendono ispirare, di solito in sedici, venti o cinquanta puntate. In TWINKLE TWINKLE, lei è figlia di ricchi, l’altra è figlia di poveri, ma sono state scambiate all’ospedale alla nascita: cosa potrà accadere se, in età giovane ma già adulta, la misera prenderà il posto dell’abbiente, frattanto il fidanzato di una è ambito anche dall’altra e ha una madre usuraia che egli stesso contribuisce a mandare in prigione per redimerla. In IRELAND, lei è una coreana abbandonata dalla madre originaria e adottata in Irlanda, che torna a Seùl ventenne e si innamora proprio di suo fratello tra gli undici milioni di abitanti della capitale della Corea del Sud, senza sapere che si tratta del parente, eppure trascinata da un destino infausto inarrestabile. In THE SNOW QUEEN, lui è disederedato e pugile, lei figlia di genitori potenti; dopo un’iniziale avversione si innamorano, anche qui trasportati dal destino che non consente abbandoni e rinsavimenti, fino al decesso di lei per malattia. In SCENT OF SUMMER, lei ha subito un’operazione chirurgica che le ha sostituito il cuore con quello di un’altra e per una stranezza che viene spiegata un po’ come destino, un po’ come mistero della scienza, il cuore nuovo la porta irresistibilmente verso l’ex fidanzato della donatrice. E così di seguito.
Se gli spunti narrativi sono caratterizzati da questi elementi semifiabeschi e da esagerazioni situazionali, nondimeno la quotidianità dei personaggi (interpretati di solito da attrici e attori notevoli per la bravura) viene eseguita in chiave mimetica in ambienti comuni e riconoscibili: spesso nella città di Seùl verificabile dall'osserazione e dall'esperienza concreta, con riprese in quartieri, luoghi, abitudini, dettagli, rituali che vanno dall’alimentazione, ai matrimoni, al traffico massiccio, ai maggiori e minuti dettagli della vita.
Il riso e il pianto che vivono sulla scena e si trasferiscono a chi osserva non scaturiscono necessariamente (sebbene ciò avvenga in diverse di queste fiction) da motivi futili o da vuotezza. Al contrario, in quelle citate sopra c’è contestazione da parte dei personaggi nei confronti dei valori restrittivi; ci sono svolte significative dei percorsi esistenziali e identitari personali e collettivi; giudizi sociali e politici.
La narrazione è per lo più stringente e articolata, tanto nella vicenda principale che in quelle secondarie, in modo da trattenere l’attenzione, spingendo verso la puntata successiva.
In breve, non sarebbe corretto liquidare semplicemente come commerciale tale produzione vasta. Ci sembra, in sintesi, che tratti distintivi rispetto alle serie occidentali, che pure costituiscono un riferimento per quelle asiatiche e viceversa nel mondo ormai globalizzato, siano la qualità della recitazione; modelli di comportamento che prendono a parametro positivo la modestia e l'altruismo anziché l'individualismo autoriferito, per lo meno nelle opere rivolte a un pubblico dai trentenni a età superiori; il richiamo letterario che frammischia assunti immaginari e realisti; e connotazioni anche ironiche entro coordinate melodrammatiche.
[Renato Persòli]
25/08/11
A POEM BY MOYA CANNON
[The tree was actually blooming. (Bongeunsa, Seoul 2011). Foto di Marzia Poerio]
HAZELNUTS
I thought they knew what they meant
when they said that wisdom is a hazelnut.
You have to search the scrub
for hazel thickets,
gather the ripened nuts,
crack the hard shells,
and only then taste the sweetness at wisdom’s kernel.
But perhaps it is simpler.
Perhaps it is we who wait in thickets
for fate to find us
and break us between its teeth
before we can start to know anything.
NOCCIOLE
Ritenevo sapessero quel che dicevano
affermando che il senno è una nocciola.
Gli alberi di nocciole
vanno cercati tra la boscaglia,
si raccolgono i frutti maturi,
si schiacciano i gusci duri,
per assaggiare il dolce nel nucleo del senno.
Ma forse è più semplice.
Siamo noi magari a aspettare nella boscaglia
che il fato ci trovi,
ci spezzi tra i denti
prima di iniziare a sapere qualsiasi cosa.
[Traduzione di Roberto Bertoni]
23/08/11
Jorge Louis Borges e Alicia Jurado, QU’EST-CE QUE LE BOUDHISME?
[An episode from the life of the Buddha (Bongeunsa temple, 2011). Foto di Marzia Poerio]
Titolo originale QUÉ ES EL BUDISMO?, 1976. Edizione francese: Parigi, Gallimard, 1979
Una nota di Jurado chiarisce che il suo ruolo, oltre che di lettrice di testi a Borges, data la cecità, fu quello di aggiornare la bibliografia critica e mettere a punto l’opera per la stampa, mentre attribuisce a Borges lo stile in cui in libro è redatto, la scelta degli argomenti, il piano generale, in gran parte fondato su appunti utilizzati per una serie di conferenze che egli tenne al Collège Libre d’Etudes Supérieures.
Colpisce non solo l’interesse nei confronti del Buddhismo di per sé, che si accompagna all’altrettanto viva curiosità di Borges verso la metafisica in generale e le religioni, soprattutto giudaico-cristiana e musulmana, ma la precisione sintetica con cui sia la storia che la dottrina buddhista vengono restituite, mentre la voce dell’autore letterario sembra farsi da parte per lasciare il posto alla vita del Buddha storico, alla spiegazione dell’etica della tolleranza e della pace, alla ricerca della via verso la rinuncia connotata da felicità interiore e sconfitta delle emozioni, nonché alla descrizione delle scuole di pensiero mahayana, lamaista, cinese, tantrica, zen.
Ben inseriti nella trattazione didascalica e mai pedante quanto tuttavia esatta sono però, traccia del letterato, i referti della leggenda della vita di Siddharta, la resa della cosmologia buddhista e alcune storie zen.
Un libro che la nostra ignoranza ci ha fatto scoprire solo adesso, trovandolo in una libreria dell’usato di Bruxelles, e che costituisce un momento di nostalgia per un autore, Borges, già amato in passato, come pure un’ottima introduzione al Buddhismo.
[Aurelio Devanagari]
21/08/11
KOREAN RHAPSODY – A MONTAGE OF HISTORY AND MEMORY
[Leeum terrace (Seoul 2011). Foto di Marzia Poerio]
KOREAN RHAPSODY – A MONTAGE OF HISTORY AND MEMORY. Al Leeum (Samsung Museum of Art) di Seùl, dal 17-3-2011 al 21-8-2011
Intervenendo in proposito alla mostra KURIUM su questo stesso numero di "Carte allineate", notavamo come il sentimento del passato e il senso di perdita nel presente provocassero un atteggiamento di nostalgia ben riflesso nelle opere esposte con varietà di possibilità espressive.
L’attualità di tale tematica si ripropone in KOREAN RHAPSODY – A MONTAGE OF HISTORY AND MEMORY, un’altra mostra allestita a Seùl, questa volta nello spazio adibito a esposizioni temporanee del magnifico Museo di Arte Contemporanea “Leeum”.
Gli artisti rappresentati nella mostra sono stati scelti per reinterpretare, recuperando il passato e guardando così al futuro, un secolo di storia della Corea, che comprende l’occupazione giapponese, la guerra tra Sud e Nord, il dopoguerra.
Le opere vengono così esposte in un contesto che non solo ne evidenzia il valore estetico, sempre elevato, ma anche il loro significato sociale in rapporto con le comunità in cui sono nate e a cui si rivolgono.
Della nostalgia di cui sopra, non fine a se stessa, ma in quanto domanda aperta su un passato che si è sfumato a contatto con la modernità, e come a chiedere alle immagini costantemente di spiegarlo, o comunque a investigare quanto esso perduri nella memoria, ci sono sembrate particolarmente emblematiche le opere A DAY IN THE LIFE OF GUBO di Jung Yeon-doo, che reinventa in un video a circuito infinito e con tempi lenti la parte dell’antica Seoul abbattuta dai giapponesi ai tempi del dominio coloniale, ricostruzione intenzionalmente, malinconicamente soggettiva; e con una simile iterazione dell’immagine, ma concentrata questa volta più sul dettaglio che sulla panoramica, CITIES ON THE MOVE, un’opera di Kim So-ja che ripete in un video la stessa scena all’infinito: un carro di materassi coreani multicolori con una donna ripresi dal retro all’interno di un paesaggio nevoso su una strada montana della Corea del Sud, un’immigrazione interna e un universo sociale che si disloca pur restando fermo nella memoria con l’inquadratura iterata dalla sensazione di eternità proposta dal ritorno costante alla medesima scena.
Foto, quadri di impostazione tradizionale, installazioni di vario tipo caratterizzano questa mostra e si propongono, come si legge nella presentazione, di “rappresentare narrativamente le pene vissute dai coreani, nonché la rapidità delle trasformazioni e il dinamismo della storia coreana contemporanea”.
[Renato Persòli]
19/08/11
Stéphane Hessel, IMPEGNATEVI!
[Contemporary humankind as seen in an Eastern city (Seoul 2011). Foto di Marzia Poerio]
Intervista a cura di Gilles Vanderpooten. Trad. di Francesco Bruno. Milano, Salani, 2011
Nel 2010 il pamphlet di Hessel, INDIGNATEVI!, aveva ottenuto primati di lettura, dimostrando di innestarsi su problematiche sentite in questa era di difficoltà per costruire una sensibilità politica nonostante la gravità dei problemi, soprattutto l’impoverimento e la disoccupazione, che colpiscono ampi strati sociali anche in Europa, oltre alle emergenze mondiali della fame, dell’ecologia e del non rispetto dei diritti umani.
In questo secondo testo, Hessel si riallaccia all’esperienza resistenziale in quanto momento di stacco rispetto proprio alla soppressione dei diritti di cui sopra, ma sottolineando con decisione il pacifismo e la condivisione di una democrazia attiva e collettiva che respinga la violenza: “resistere significa che siamo circondati da cose scandalose che devono essere combattute con vigore” (p. 16); “oggi è riflettendo, scrivendo, partecipando democraticamente all’elezione dei governanti che si può sperare di far evolvere intelligentemente le cose: insomma, con un’azione a lunghissimo termine” (p. 17); ma “non è con delle azioni violente, rivoluzionarie, rovesciando le istituzioni esistenti, che si può far progredire la storia” (p. 21).
Da un lato, viene proposta un’attivazione della coscienza degli individui che porti ad azioni responsabili; dall’altro si insiste su una rivalutazione degli organismi internazionali come l’ONU. In particolare, Hessel insiste, giustamente, sugli elementi di base messi talora in secondo piano nelle ideologie, o perché soppressi da regimi autoritari, o perché sottaciuti anche in determinate manifestazioni progressiste come se facessero parte del cosiddetto buon senso, peggio tacciati di idealismo, invece che dimostrarsi fondamenti di civiltà, dunque anche di ogni iniziativa politica. In appendice è appunto riprodotta la DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI, che colpisce alla rilettura per la linearità laica e la correttezza di impostazione per chi sia favorevole a una prassi fondata utopicamente, con rilancio intenzionalmente antimachiavellico, sui principi che rendono vivibile e socializzabile la comunità.
Hessel insiste anche sulla ripresa delle solidarietà, soprattutto in prospettiva ecologista; e su un’integrazione equilibrata tra locale e globale.
Lo slogan che coglie la situazione non solo dei paesi meno sviluppati, ma anche dell’Occidente, è “lottare contro la disperazione” (p. 40), ovvero un salutare ottimismo della volontà.
[Roberto Bertoni]
17/08/11
Chitra Banerjee Divakaruni, SISTER OF MY HEART
Prima edizione 1999. Londra, Black Swan, 2011
La storia è disposta a capitoli alterni in prima persona, narrata ora da una, ora dall’altra delle due protagoniste, Sudha e Anju, cresciute assieme in una famiglia di antiche tradizioni, in cui sono sopravvissute alla morte dei mariti tre donne che esercitano la funzione di madri collettivamente nei confronti delle due ragazze.
Siamo già in questo senso in una situazione di matriarcato; e il racconto incide a fondo le istituzioni tradizionali della società indiana. Non solo perché c’è una critica esplicita dell’istituto della vedovanza, che imporrebbe il ritiro dal mondo delle donne cui è capitata questa sorte, ma soprattutto perché le due giovani vivono con crescente senso di autonomia, e attraversando tragedie personali, il rapporto con le famiglie dei mariti: Sudha respingendo la richiesta della suocera di abortire la figlioletta di cui è incinta e costretta pertanto a divorziare; e Anju subendo un aborto spontaneo con difficoltà. Infine anche Sudha, su invito di Anju, emigrerà negli Stati Uniti, con una soluzione che, se lacera il rapporto con la madrepatria, sembra però per lo meno garantire un livello accettabile di indipendenza personale.
Alle spalle di quanto sopra c’è una difficile storia di famiglia. Il padre di Sudha aveva persuaso quello di Anju a seguire un individuo in una grotta piena di rubini, periti poi entrambi, almeno così sembra, ma nel corso della narrazione la vera biografia del sopravvissuto padre di Sudha si rivela con un’espiazione alla Dostojevskij, o come in una fiaba, o come in un intreccio bollywoodiano (che’ del moderno e della tradizione, con la migliore miscela letterariamente elevata, fa uso Divakaruni).
Frattanto, parecchi sono i riferimenti alla mitologia indiana, che rivive nei nomi e nelle azioni dei personaggi. Compare contemporaneamente spesso il nome di Virginia Woolf, forse per l’introspezione femminile dei personaggi. Il concetto di story, termine ripetuto varie volte, si dipana inoltre nei suoi molteplici significati ed è sempre elemento di sostegno e pietra di paragone con la vita reale.
Romanzo di scavo interiore, di emancipazione femminile, di raffinato gusto letterario.
[Roberto Bertoni]
La storia è disposta a capitoli alterni in prima persona, narrata ora da una, ora dall’altra delle due protagoniste, Sudha e Anju, cresciute assieme in una famiglia di antiche tradizioni, in cui sono sopravvissute alla morte dei mariti tre donne che esercitano la funzione di madri collettivamente nei confronti delle due ragazze.
Siamo già in questo senso in una situazione di matriarcato; e il racconto incide a fondo le istituzioni tradizionali della società indiana. Non solo perché c’è una critica esplicita dell’istituto della vedovanza, che imporrebbe il ritiro dal mondo delle donne cui è capitata questa sorte, ma soprattutto perché le due giovani vivono con crescente senso di autonomia, e attraversando tragedie personali, il rapporto con le famiglie dei mariti: Sudha respingendo la richiesta della suocera di abortire la figlioletta di cui è incinta e costretta pertanto a divorziare; e Anju subendo un aborto spontaneo con difficoltà. Infine anche Sudha, su invito di Anju, emigrerà negli Stati Uniti, con una soluzione che, se lacera il rapporto con la madrepatria, sembra però per lo meno garantire un livello accettabile di indipendenza personale.
Alle spalle di quanto sopra c’è una difficile storia di famiglia. Il padre di Sudha aveva persuaso quello di Anju a seguire un individuo in una grotta piena di rubini, periti poi entrambi, almeno così sembra, ma nel corso della narrazione la vera biografia del sopravvissuto padre di Sudha si rivela con un’espiazione alla Dostojevskij, o come in una fiaba, o come in un intreccio bollywoodiano (che’ del moderno e della tradizione, con la migliore miscela letterariamente elevata, fa uso Divakaruni).
Frattanto, parecchi sono i riferimenti alla mitologia indiana, che rivive nei nomi e nelle azioni dei personaggi. Compare contemporaneamente spesso il nome di Virginia Woolf, forse per l’introspezione femminile dei personaggi. Il concetto di story, termine ripetuto varie volte, si dipana inoltre nei suoi molteplici significati ed è sempre elemento di sostegno e pietra di paragone con la vita reale.
Romanzo di scavo interiore, di emancipazione femminile, di raffinato gusto letterario.
[Roberto Bertoni]
15/08/11
KURIUM - NOSTALGIA
[The square in front of the Korea Foundation (Seoul 2011). Foto di Marzia Poerio]
KURIUM - NOSTALGIA. Sottotitolo: EAST ASIAN CONTEMPORARY ART EXHIBITION. Alla "Korea Foundation Cultural Center Gallery" di Seùl, dal 30-7-2011 al 27-8-2011
Già l'anno scorso ci aveva colpito la qualità di una mostra vista a Seoul, per i suoi contenuti e l'accuratezza della presentazione e dell'apparato culturale di accompagnamento. Sebbene quella (sulla guerra di Corea) e questa, per dimensioni e ampiezza non siano paragonabili, lo sono però per la scelta di un contenuto tematico in cui inserire con coerenza concettuale gli oggetti esibiti.
Si tratta questa volta del motivo della nostalgia che, spiega la didascalia di apertura, deriva dal fatto che "la vita contemporanea è un mosaico di frammenti di memoria accumulati dal passato". Mentre la civiltà attuale, consumistica e sfrenata, corre verso il "materialismo dell'abbondanza", si determina il senso di perdita di quanto è stato e la tendenza a viverla con nostalgia.
Scopo della mostra, spiega la curatrice Kim Sun-hee, è il tentativo di "ricostituire valori positivi che emergano dalla nostalgia e dal passato perduto della generazione attuale".
Dodici sono gli artisti, cinesi, coreani e giapponesi che, su invito degli organizzatori, hanno inviato loro opere: Duan, Gu, Hai, Ishiuchi, Jung, Mizukoshi, Pan, Sawada, Song, Tsubaki, Tu, Won.
L'interpretazione del tema varia dalla ripetitività delle immagini (che per questo crea un effetto di malinconia) di foto di scolaresche in posa a fine ano scolastico, di Sawada, alle miniature fotografiche del periodo maoista di Hai.
Gli artisti con cui, tuttavia, ci siamo sentiti in maggiore sintonia, sono tre.
Pan mette in mostra quadretti tratti da foto di dettagli ripresi a Insadong e in altre zone di Seùl; pone a disposizione del pubblico le foto, che colloca nei cassetti numerati di un armadio sottostante le icone; e invita i visitatori a trovare nella realtà quei dettagli nostalgici, provandolo con foto che ritraggano assieme all'oggetto il ritrovante, il quale riceverà il quadretto corrispondente in regalo. Arte come gioco, coinvolgimento e ricerda dei particolari.
Tu, in OLD IMAGE GALLERY: URBANSCAPE, MEASUREMENT OF PEOPLE AND CITY (SEOUL), scatta foto in bianco e nero, anticate in seppia, di giovanissimi distesi come dormienti o deceduti, o in fila orizzontale per mano, e in altre simili posizioni, di fronte a resti del passato della città sopravvissuti come per caso e a stento all'urbanizzazione accelerata degli ultimi decenni.
Won, nella serie MY AGE OF SEVEN, gioca col fotomontaggio e la ricostruzione grafica, ritraendo una bambina, in tutte le icone presenti, che si trova all'interno di paesaggi immaginati, composti in parte da colorati oggetti del passato, in parte da dettagli di un villaggio rurale o marino di alcuni decenni fa, con un effetto onirico che conferisce autenticità di sogno del passato a queste lastre iperreali fornite di connotazioni di surrealtà.
[Renato Persòli]
13/08/11
Hwang Sun-Won, LA PETITE OURSE

[Looking at water, as a mode of contemplation of life (Seoul 2010). Foto di Marzia Poerio]
Traduzione dal coreano di Choi Mik-yung e Jean-Noël Juttet (1995). Parigi, Le serpent à plume, 1999 [1]
È un racconto che segue il dipanarsi di una vita dall’infanzia fino alla maturità e al primo declino degli anni. Viene narrata con una prospettiva interna al personaggio nonostante la terza persona narrativa, a quadri successivi e con una concatenazione di eventi ben congegnata, che punta sul coinvolgimento emotivo del lettore senza peraltro mai darsi al sentimentalismo.
Gli elementi sociali sono ben marcati: il dominio della classe privilegiata che poteva disporre dei servitori e del contado; la facilità nel coprire uno scandalo di un padrone che seduce una serva che viene per questo allontanata, orfana, dall’unico affetto della nonna materna, recandosi perciò in città, ove l’ingenuità la porta in una casa di gisaeng, o intrattenitrici, ma nel caso specifico, trattandosi di situazioni di semipovertà, anche prostitute.
Sul piano della psicologia personalizzata, la protagonista non perde mai la dignità personale, la disponibilità nei confronti degli altri, infine mantenuta di un mercante di legname in via di arricchimento nella Corea libera dal dominio giapponese e perciò respinta anche da lui, ma sulla via di andare a vivere con un amica senza cedere ad avidità o cadute.
Un’inversione etica, dunque, dato che i valori positivi cono quelli di chi abita tra il fango.
Un mantenimento, forse, di un’etica confuciana nonostante la professione svolta?
Una storia narrata con semplicità voluta e tanto più efficace per questo.
NOTE
[1] Non siamo riusciti a trovare il titolo originale, purtroppo, non riportato nell’edizione di cui ci si è serviti per questa breve nota.
[Roberto Bertoni]
11/08/11
Marina Pizzi, VIGILIA DI SORPASSO, 2009-2010 [71-80]
[Far at a distance wasn't the tide merging with the sky? Foto di Marzia Poerio]
71.
il crollo della mattina
è già occaso
salso sorso senza sosta.
rotocalco di fandonie
dolore stanco
faccenda di bivacco
per atleta monco.
stanza pavida d’avvento
recinto di mattanza.
il crollo del sole vasto
dove è domenica per scuocere
nemica la fidanza dello sguardo.
diadema d’incendio quella malia
creduta dalla sfinge della madre
ai giardinetti quando i fiori c’erano.
orgia d’occaso la nenia di vendetta
i lunedì infiniti di chi resta
staffetta senza un altro abbecedario.
72.
il sale chiuso l’era di melma
la tragedia della scala
la rotta d’intercedere per niente.
autore di periglio la risacca
accantonata a talamo di morte.
chiuso addendo elemosina di scempio
questo cipresso reo di se stesso
passato per le armi appena sùbito.
moria t’inventi uno scalo d’aquila.
73.
l’appello sulla fronte si fa zero
appena la cornucopia d’iride
pianga la nuda carica dell’anno.
74.
il porto di me è lastricato di boia
stato di paglia ilarità di fango;
era di Apollo il tuo fardello
quando ti conobbi apolide.
ora non gemma la faccenda del lutto
tutto s’incrocia in Geremia di malta
atta alle lapidi. così da sùbito ti dirò
che piango come i gemelli in simultanea.
la riva è chiusa e la scalea si mozza
per impedire un vaglio alla staffetta
che non capisce albori né ginestre.
75.
alamaro di pietà voglio aggiungerti
alla gioia delle rondini di ancora
ancora e ancora un altro strido
verso la cialda del dominio darsena.
alamaro di pietà voglio la cintola
gravata dalle chiavi che non aprono
dalla marea congiunta con il cielo.
smorì la stoppia che arringa le cicale
più a nulla servì la contumacia
né la riviera con le ville a picco.
76.
intorno a povere eclissi
l’illusa faccenda di tornare
da rantoli d’occhi morenti.
zona di arringa il cuore palpitante
quando si creda di vincere la gara
con la palude d’ascia.
in palio all’asilo del dubbio il bilico
dell’incrocio più unico che raro
quando s’interrano l’orco e la bevanda.
è la moria del codice guasto
qui non entrare in balìa del panico
ma d’olio d’orcio correre via
dacché nessuna salvezza fa vezzo
al lucido liso pastrano d’origine.
77.
ho voglia di starmene in declino
con le persiane chiuse in far di lutto
senza le luci delle giostre antiche
giù nel cortile proletario. è un tarlo
statico che mi conferma nulla
nonostante la bestemmia del ritiro
sia la guerra della fanga panica.
il roveto sulla spalla è qui gestire
questo simulacro di veleno
che gela le ossa e mordacchia il suolo.
e per domani lo stesso giro in rotta
quando le mani litigano nei pugni
snodate marionette senza fili.
78.
in una sala di collasso ho visto l’indice
della marea conchiusa in un anello
quando la ciotola resta un gran Vesuvio
e le stimmate non giovano la darsena.
così in armonia con le vestali
la scuola elementare in mezzo al bosco
dove l’impatto è solco di sorriso.
in te che cerchi il round di riprenderti
tutta calunnia il fato della stirpe.
da domani il trovatello è l’angelo
che cerchi di far mestiere la caduta.
79.
gerundio di cometa lo sguardo amato
da dentro il visibilio della polvere
al parco delle rondini liberte.
in meno di uno scriba l’abitudine
di mettere soqquadro nella sillaba
per rendere avvenente un pugno d’aquile.
realtà di terra lo splendore d’ascia
quando il netturbino della mia salute
testimonia le valanghe delle chele.
in tutto disappunto voglio andarmene
maretta della costa senza scoglio
innesto dentro l’asma della cella.
svolazzo intramontabile vederti
ora del cielo che conosce l’abaco
e la bacchetta del comando magico.
80.
in realtà ho un apice di morte
impostato nel polso. le credenziali
del saluto se la ridono di cuore.
nulla basta a preferire la demenza
del sacrario, la rotta panica di non
saper guardare né darsene né emisferi.
nel sudario che riveste la sagoma
tutta la gamma del colore stinge
in un bianco beffardo, dado tratto
dall’ossequio del coma. in mano
alla resina del fulcro non sono signora
ma acredine e viltà formano la bara
della rovistata aureola impotente.
la bussola del cranio è un io di credo
senza cuore né balsamo di angelo.
così morrò lapidato d’ansia
con la pelle delle palpebre datate.
[Le strofe precedenti di VIGILIA DI SORPASSO sono uscite su "Carte allineate" in data 27-11-2010, 17-12-2010, 19-1-2011, 21-3-2011, 7-4-2011, 21-5-2011, 3-6-2011]
09/08/11
Luigi Malerba, TI SALUTO FILOSOFIA
[Surreal wall in Brussels. Foto di Marzia Poerio]
Luigi Malerba, TI SALUTO FILOSOFIA. Milano, Mondadori, 2004
Una serie di racconti che, come altri precedenti di Malerba, mentre individuano tic dell’era in cui sono stati scritti, rivelano, tramite lo strumento dell’humour, gli stati d’ansia e di sospensione di personaggi che scartano dalla cosiddetta normalità; frattanto si dipana una scrittura accurata e chiara, che non concede nulla ai registri contorti, propendendo per il paratattico, nondimeno si assesta su uno stile letterario di qualità elevata.
La situazione è di solito un contesto di normalità apparente, in cui personaggi che parlano in prima persona si trovano ad agire e a giustificarsi, come in LA MIA DONNA IDEALE, in cui i sentimenti comuni sembrano non bastare più ai due protagonisti che cercano nuove emozioni fino a quando la loro relazione finisce per svanire nel nulla; del resto, come proprio della società tardomoderna, i sentimenti erano in partenza assopiti (“io non sento niente” e “più che alle emanazioni della natura sono sensibile ai sistemi elettromagnetici e elettronici, insomma alle Tele-Emanazioni”, p. 7).
Uno dei testi si intitola HO SOGNATO J.L. BORGES e certe affermazioni che vi si trovano costituiscono un dialogo metaletterario che riconduce alla poetica stessa di Malerba; come in questo passo: “Il mondo creato da Borges è un luogo parallelo e simmetrico a quello in cui viviamo ma senza i punti di riferimento che ci permettono di descrivere un oggetto, di raccontare una storia, in altre parole di comporre un racconto”. Se fin qui Malerba sfugge a quanto delinea dell’autore argentino, è però vero che anche i suoi racconti “sfuggono ai […] parametri della narrativa tradizionale di cui conservano soltanto gli involucri per trarre in inganno il lettore” [p. 44].
[Roberto Bertoni]
07/08/11
Luigi Ferrajoli, POTERI SELVAGGI. LA CRISI DELLA DEMOCRAZIA ITALIANA
Roma-Bari, Laterza, 2011
Si potrebbe adottare anche per l’Italia la definizione di “postdemocrazia”, data in generale per l’Occidente tardomoderno da Colin Crouch, ovvero una situazione in cui la democrazia partecipativa è svalutata.
Più precisamente, sebbene la democrazia resti in vigore, “la politica e i governi cedono progressivamente terreno alle élite privilegiate, come accadeva tipicamente prima dell’avvento della fase democratica; una conseguenza importante di questo processo è la perdita di attrattiva di argomenti a favore dell’egualitarismo” [1].
Nella postdemocrazia, “gli interessi di una minoranza potente sono divenuti ben più attivi della massa comune nel piegare il sistema politico ai loro scopi; […] le élite politiche hanno appreso a manipolare e guidare i bisogni della gente” [2].
Ponendosi in sintonia con queste posizioni, ma intervenendo sulla situazione italiana nello specifico, Luigi Ferrajoli nota che nel nostro paese si è verificata, tra la fine del ventesimo e il primo decennio del ventunesimo secolo, una “decostituzionalizzazione del sistema politico italiano” [p. VII] e della democrazia [3].
Tale svalutazione è dovuta a fenomeni quali la concentrazione del potere dell’informazione, la scarsa separazione tra potere giudiziario ed esecutivo, il tentativo di delegittimare alcuni aspetti del Parlamento e soprattutto l’identificazione demagogica tra la figura di un leader e le masse popolari, fondata in gran parte anche sulla diseducazione politica.
Tra le varie conseguenze, ne risulta una “passivizzazione politica della società” [p. 53], ovvero una “spoliticizzazione di massa” [p. 48] che disattiva il compito civile di partecipazione e informazione in un ambito comunicativo in cui prevalgono, soprattutto alla televisione, “la diffusione di notizie false, l’omissione o minimizzazione di notizie vere, l’esaltazione del capo, la diffamazione degli oppositori, l’ottundimento delle coscienze e delle intelligenze con spettacoli stupidi e volgari” [p. 49].
In parte, a parere di Ferrajoli, anche certi atteggiamenti della sinistra sono da prendere in considerazione in negativo, in particolare “una specifica forma di qualunquismo nell’elettorato di sinistra: quel particolare primato dell’interesse e della vanità personale che si manifesta nel rifiuto di votare per partiti che non riflettano completamente le proprio idee” [p. 52] e si accompagna a un astensionismo dovuto alla difficoltà di identificare posizioni politiche pienamente corrispondenti alla propria.
I rimedi proposti dall’autore sono la ricostituzione del metodo elettorale proporzionale, l’esclusione dei conflitti di interesse, la riabilitazione della democrazia partecipativa e del dibattito interno ai partiti, la riforma del sistema dell’informazione.
NOTE
[1] C. Crouch, POSTDEMOCRACY, Cambridge, Polity, 2004. Trad. it. POSTDEMOCRAZIA, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 9.
[2] Ibidem, p. 26.
[3] Ferrajoli insegna Filosofia del diritto e Teoria generale del diritto all’Università Roma Tre.
[Roberto Bertoni]
Si potrebbe adottare anche per l’Italia la definizione di “postdemocrazia”, data in generale per l’Occidente tardomoderno da Colin Crouch, ovvero una situazione in cui la democrazia partecipativa è svalutata.
Più precisamente, sebbene la democrazia resti in vigore, “la politica e i governi cedono progressivamente terreno alle élite privilegiate, come accadeva tipicamente prima dell’avvento della fase democratica; una conseguenza importante di questo processo è la perdita di attrattiva di argomenti a favore dell’egualitarismo” [1].
Nella postdemocrazia, “gli interessi di una minoranza potente sono divenuti ben più attivi della massa comune nel piegare il sistema politico ai loro scopi; […] le élite politiche hanno appreso a manipolare e guidare i bisogni della gente” [2].
Ponendosi in sintonia con queste posizioni, ma intervenendo sulla situazione italiana nello specifico, Luigi Ferrajoli nota che nel nostro paese si è verificata, tra la fine del ventesimo e il primo decennio del ventunesimo secolo, una “decostituzionalizzazione del sistema politico italiano” [p. VII] e della democrazia [3].
Tale svalutazione è dovuta a fenomeni quali la concentrazione del potere dell’informazione, la scarsa separazione tra potere giudiziario ed esecutivo, il tentativo di delegittimare alcuni aspetti del Parlamento e soprattutto l’identificazione demagogica tra la figura di un leader e le masse popolari, fondata in gran parte anche sulla diseducazione politica.
Tra le varie conseguenze, ne risulta una “passivizzazione politica della società” [p. 53], ovvero una “spoliticizzazione di massa” [p. 48] che disattiva il compito civile di partecipazione e informazione in un ambito comunicativo in cui prevalgono, soprattutto alla televisione, “la diffusione di notizie false, l’omissione o minimizzazione di notizie vere, l’esaltazione del capo, la diffamazione degli oppositori, l’ottundimento delle coscienze e delle intelligenze con spettacoli stupidi e volgari” [p. 49].
In parte, a parere di Ferrajoli, anche certi atteggiamenti della sinistra sono da prendere in considerazione in negativo, in particolare “una specifica forma di qualunquismo nell’elettorato di sinistra: quel particolare primato dell’interesse e della vanità personale che si manifesta nel rifiuto di votare per partiti che non riflettano completamente le proprio idee” [p. 52] e si accompagna a un astensionismo dovuto alla difficoltà di identificare posizioni politiche pienamente corrispondenti alla propria.
I rimedi proposti dall’autore sono la ricostituzione del metodo elettorale proporzionale, l’esclusione dei conflitti di interesse, la riabilitazione della democrazia partecipativa e del dibattito interno ai partiti, la riforma del sistema dell’informazione.
NOTE
[1] C. Crouch, POSTDEMOCRACY, Cambridge, Polity, 2004. Trad. it. POSTDEMOCRAZIA, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 9.
[2] Ibidem, p. 26.
[3] Ferrajoli insegna Filosofia del diritto e Teoria generale del diritto all’Università Roma Tre.
[Roberto Bertoni]
05/08/11
Santiago Montobbio, RIFRAZIONI E CHIAROSCURI, a cura di Clarissa Amerini (Parte I)
[Ink squeezed out of a cartridge-type soul. Foto di Marzia Poerio]
Clarissa Amerini, RIFRAZIONI E CHIAROSCURI NELLA DIALETTICA POETICA DI SANTIAGO MONTOBBIO
Ripercorrendo la bibliografia dedicata all’opera di Santiago Montobbio (autore nato a Barcellona nel 1966), della quale anche su Internet si trova un’ampia scelta, si rileva un dato ricorrente: l’insistenza di molti critici sugli aspetti del dissenso e del diniego propri della sua poesia. Come dire che essa nega più che affermare qualcosa - com’è senz’altro vero -, ma ciò non significa che essa perda il suo impulso positivo.
Un esempio molto semplice lo offre la poesia PRAGA, che inizia con il verso “Non sono mai stato a Praga”: è curioso rilevare come Montobbio dedichi una poesia ad un luogo che non ha visitato, tuttavia è proprio questo un nucleo della sua poesia, che esplora la negazione per figurarsi gli spazi aperti del desiderio. Praga, la città sognata e mai conosciuta, è la forma visibile che nei versi di Montobbio assumono aspirazioni di un amore che nella realtà ha preso altre strade, allontanandosi: basta forse questo solo esempio a dimostrare come la negazione sia in questo autore un punto di partenza e come attraverso di essa egli arrivi a formulare le proposte del suo pensiero.
Così come la poesia di Montobbio può prediligere spazi inesplorati, la sua vita non è ricca di eventi o cambiamenti radicali, ma si distingue piuttosto per la costanza e per la dedizione alla letteratura (è laureato in Diritto e in Letteratura ispanica ed è attualmente professore di letteratura presso l’ESADE e l’UNED), che lo ha portato anche a collaborazioni e ad amicizie illustri: basti dire che sul suo primo libro HOSPITAL DE INOCENTES (1989) hanno espresso positivi giudizi personaggi del calibro di Ernesto Sábato, Camilo José Cela, Miguel Delibes o Carmen Martín Gaite.
I suoi primissimi versi escono sulla “Revista de Occidente” nel maggio del 1988 e da allora - quanto all’opera pubblicata - egli prosegue con una produzione quantitativamente discreta (solo sei libri) e senz’altro indipendente ed estranea alle mode e ai gruppi che si vanno succedendo. Come brevemente accennato, Santiago Montobbio vive lontano dai rumori del mondo letterario, riservando all’intima mediazione e meditazione poetica il suo più profondo rapporto con la realtà.
La poesia di Montobbio non è un resoconto oggettivo di eventi, ma una sorta di itinerario creativo del desiderio, che attraverso una stretta dialettica della negazione riesce ad affermare contenuti che vanno al di là delle comuni esperienze quotidiane - questo sì, in pieno dissenso con la cosiddetta poesía de la experiencia in voga in Spagna negli anni dei suoi primi tentativi poetici; sebbene non per questo la sua poesia si faccia né astratta né simbolica, ma sia caratterizzata da una sorta di interiore concretezza.
Per entrare nel merito delle dieci poesie che qui presentiamo [1] e della loro propositiva creatività, vogliamo mettere in evidenza, a fianco del comunque visibile impulso alla negazione, la moltitudine di “sí” in esse presenti, che, se consideriamo anche tutte le ripetizioni foniche della sillaba, arrivano ad un totale davvero sorprendente di 107 occorrenze.
Basterà forse citate la poesia NO ES NINGÚN SEGRETO, titolo che in una doppia negazione contiene in realtà una decisa affermazione: nel testo troviamo infatti il sintagma “sí, lo diremos así”, nei versi: “sí, lo diremos así, a la fuerza tendremos nosotros / que vivir así esta tarde, hasta el fin del tiempo”. Nel giro di poche parole, l’affermazione del “sí” si triplica ripetendosi nell’avverbio “así”, in una comunione di suoni e semantica (naturale ma non scontata in poesia) che dall’interno del verso stesso rafforza il senso della locuzione avverbiale “a la fuerza”. Di quale dissenso parliamo allora, se l’avverbio affermativo si impone a più riprese nel testo, richiamando a sé i suoni e anche il significato delle altre parole?
Questa, fra le moltissime altre che il lettore potrà individuare, è una delle caratteristiche più interessanti che danno movimento alla dialettica delle poesie di Santiago Montobbio, che, senza diventare contraddittoria, sfrutta al massimo le possibilità di un dinamico chiaroscuro poetico.
Limitandoci a questo semplice ma significativo spunto, concludiamo offrendo qualche chiave di lettura per le poesie qui proposte, in una selezione compiuta dal poeta stesso.
In EX LIBRIS, partendo dall’assiomatica negazione della propria esistenza (“no soy”), il poeta conclude che essa può essere affermata tramite l’esperienza della scrittura, che si presenta come arma a doppio taglio: da una parte, chi scrive prende coscienza della propria nullità e ne viene ucciso; dall’altra, in virtù di questa stessa consapevolezza, l’autore riesce a rendere testimonianza dell’essere stato: “sí fui”.
In CALLIGRAFIA DELL’AMORE è il titolo stesso a suggerire il tema trattato: l’amore e la traccia che esso lascia di sé. L’amore è qui presentato con una gradazione di chiaroscuri che si sovrappongono: il poeta sceglie dalla sua tavolozza tinte ora violente, ora delicate (“de mariposas y de sangre”), creando un quadro screziato dal grigio fregio ironico e disilluso di un “etcétera”. Vita e amore si corrispondono ed entrambe sconfiggono l’uomo che ama e che scrive; ma lo scrittore è condannato a ben più triste compito: redigere gli atti delle proprie sconfitte.
Fra gli evanescenti scorci di PRAGA, il poeta si nasconde in un sogno, descrivendo luoghi dove non è mai stato. La città descritta è una sua creazione, una realtà ideale, un rifugio raggiungibile solo attraverso la propria scrittura, Praga è la poesia stessa, che diviene unica alternativa concreta di una vita vissuta su altre strade.
In PER UNA TEOLOGIA DELL’INSONNIA, le negazioni si fanno molteplici, come in una stanza di specchi. L’insonnia brucia come un inferno, ma produce lo squarcio attraverso il quale appare il sogno di essere perdonati della colpa di non essere felici. La poesia è qui una doppia voce che sgrida e che consola.
L’apice di rifrazioni del dissenso si raggiunge forse in IL TEOLOGO DISSIDENTE: qui il poeta, per negare la propria vita, arriva a negare persino la morte, che già di per sé è negazione della vita. L’attesa - la “espera”, in spagnolo deverbale da esperar, che ha il duplice significato di attendere e sperare - è qui presentata come una “pupila oscura”, vuota: un’attesa privata della sua implicita speranza.
Il tema di L’ANARCHICO DEI BENGALA può essere riassunto in poche parole prese dall’incipit e dal finale della poesia: “yo soy […] se apagan”. Lo spegnimento di tutte le cose appare qui come la condizione necessaria perché si possa scorgere la propria individualità. Il “se apagan” incarna la stessa negazione che diviene mezzo e occasione poetica per la propria affermazione. I fuochi d’artificio, infatti, non sono altro che la luce emanata dai versi che illuminano la coscienza del poeta e gli permettono di essere a se stesso visibile e, in quell’identità, di permanere più a lungo possibile.
NON È NESSUN SEGRETO: come dietro ogni notte si nasconde una “amenaza”, così dietro ad ogni espediente della scrittura si nasconde la spaventosa consapevolezza di essere nulla. Scrivere offre una duplice coscienza: salvifica, perché in essa si afferma l’esistenza della persona; nefasta, perché quell’esistenza implica la propria finitezza: non ci sono segreti. Questo dice la scrittura, ma la stessa calligrafia ha una storia d’amore, e la stessa la vita intera: “Qui, / in questa inutile terra che ci hanno dato / tutti siamo poeti”.
Nell’ultimo testo proposto, DA PARTE DI CHI?, Montobbio riprende le fragili eppure intense illusioni della giovinezza, quando essere privo di idee sulla vita significava poterle avere tutte. La consapevolezza arriva insieme a una notte ben differente da quelle delle sbornie, fatta invece di addii e privazioni. Resta solo una consolazione della maturità: non essere unici significa anche non essere soli.
In conclusione, in tutti questi testi, Montobbio attraversa una drammatica fase della coscienza esistenziale: siamo tra l’accoglienza di una nuova, più matura consapevolezza e l’istinto di non voler sapere. Il poeta deve compiere il salto: ma la consapevolezza offre ali o le spezza? Che cosa allora negare?
Non sorprenderà, alla fine di queste letture, che Montobbio sia stato spesso etichettato come “poeta del dissenso”; ma occorre precisare che si tratta di una negazione d’intenti del tutto positivi, che dà significato alla poesia e, attraverso di essa, all’inafferrabile realtà.
NOTE
[1] Le prime tre su questo numero di “Carte allineate”; le altre su numeri successivi.
--------------
TRE TESTI DI MONTOBBIO
1.
EX LIBRIS
No es bueno apretar el alma, por ver si sale tinta.
El papel sigue siendo el asesino – el asesino de ti -
y quizá es mejor que la sombra y que sus dagas
por antiguas voces descalzas vayan. Por antiguas voces,
muy lejos del número y sus cárceles, entre nieblas
olvidadas. Pero también pienso que con todo esto
tal vez puedas hacer algún día un cuadernillo;
que con todo esto – rojos, nieblas y niños
que se dicen adiós por las esquinas - quizá sí puedas
reunir unos ilegibles pedazos de diario
para con paciencia zurcirlos, tarde adentro,
hasta que torpemente formen un libro hecho de frío.
Y quizá sobre sus grises tapas de lluvia
puedas tú poner mi nombre antiguo
y, justo debajo, las sabidas fechas
de mi nacimiento y muerte. Y entonces
mi nombre pequeño allí, mi nombre – pobre -
que no sé ya si da pena o si da risa
así grabado en unas tapas
ante las que puedas abrazar las evaporadas siluetas
de unos tristes fantasmas sentimentales que no soy
pero que los viejos papeles tercamente dicen que sí fui.
EX LIBRIS
Non è bene spremere l’anima per vedere se esce inchiostro.
Il foglio continua ad essere l’assassino – l’assassino di te –
e chissà che non sia meglio che l’ombra e le sue daghe
per antiche voci vadano scalze. Per antiche voci,
molto lontano dal numero e le sue prigioni, tra nebbie
dimenticate. Ma penso anche che con tutto questo
forse tu possa fare un giorno un libretto;
che con tutto questo – rossi, nebbie e bambini
che tra loro si salutano agli angoli – forse davvero possa
riunire degli illeggibili frammenti di diario
per ricucirli con pazienza, dentro il pomeriggio,
fin quando goffamente non formino un libro fatto di freddo.
E forse sopra le sue grigie copertine di pioggia
tu possa mettere anche il mio nome antico
e, appena sotto, le consuete date
della mia nascita e della mia morte. E allora
lì, il mio piccolo nome, il mio nome – povero –
che non so più se fa piangere o ridere,
così inciso su delle copertine,
davanti alle quali tu puoi abbracciare le svaporate sagome
di certi tristi spettri sentimentali, che io non sono,
ma che i vecchi fogli ostinatamente affermano che sono stato.
2.
LA CALIGRAFÍA DEL AMOR
La caligrafía del amor está hecha de mariposas y de sangre,
mientras se redondea una o masculla un lobo, en el palito de la t un tonto jazmín suspira,
y asimismo hay que decir que la caligrafía del amor se parece a la de la vida
porque es bastante más que extraña, que la caligrafía y el amor
son peores que la tristeza y que la lluvia, mucho peores, sí,
y que ningún destino es tan horrible y tan hermoso
como el de quienes se envían sueños de pechos y cinturas
aprisionados bajo sellos de diecisiete o sesenta y pico pesetas
-eso depende de la urgencia, también del sitio-
y que en los abortados celofanes del adiós y sus distancias
con gran terquedad fingen creer que para cosas como éstas
aún resulta mínimamente útil el correo.
Desde luego: la caligrafía del amor está hecha de mariposas y de sangre,
mientras se redondea una o sí que más de una vez masculla un lobo, etcétera.
Pero no me habléis de eso, de eso no me digáis nada, por favor,
nada de nada. Porque en tiempos como ése yo llegué a estar muerto
varias veces en un día, y por otra parte muy bien sé
que no existe mayor ruina
que la de saberse condenado al extrañísimo oficio
del ir sin ningún eco levantando
innumerables actas de cómo
tu propia vida te fracasa.
LA CALLIGRAFIA DELL’AMORE
La calligrafia dell’amore è formata da farfalle e da sangue,
mentre se ne perfeziona una o sussurra un lupo, nel tratto della t sospira uno sciocco
gelsomino,
e poi si deve dire che la calligrafia dell’amore sembra quella della vita
perché è ben più che strana, che la calligrafia e l’amore
sono peggiori della tristezza e della pioggia, molto peggiori, sì,
e che non esiste destino così terribile e bello
come quello di chi si manda sogni di seni e fianchi
imprigionati sotto francobolli di diciassette o sessanta e più pesetas
– questo dipende dall’urgenza, anche dal luogo –
e che negli abortiti celofan degli addii e nelle loro distanze
con grande ostinazione fingono di credere che per cose come queste
ancora risulti minimamente utile la posta.
Certamente: la calligrafia dell’amore è formata da farfalle e da sangue,
mentre se ne perfeziona una o così che più di una volta sussurra un lupo, eccetera.
Ma non parlatemi di tutto questo, non ditemi niente, per favore,
niente di niente. Perché in tempi come questi sono arrivato ad essere morto
diverse volte in un giorno, e d’altra parte so molto bene
che non esiste rovina più grande
di quella di sapersi condannato allo stranissimo compito
di andare senza alcun eco compilando
innumerabili atti di come
la tua stessa vita ti sconfigge.
3.
PARA UNA TEOLOGÍA DEL INSOMNIO
Minuciosamente sueño a Dios durante el día
para por la noche poder creer que me perdona.
Desde la culpa de no ser feliz, de no haberlo sido,
desencuaderno mis ojos huecos y de sobras sé
que no dormir es un rastro del infierno.
PER UNA TEOLOGIA DELL’INSONNIA
Accuratamente sogno Dio durante il giorno
e così la notte poter credere che mi perdoni.
Dalla colpa di non essere felice, di non esserlo stato,
scompagino, vuoti, i miei occhi e oltremodo so
che non dormire è una traccia dell’inferno.
[Traduzioni di Clarissa Amerini]
03/08/11
Pia Arletti e Franco Ferrini, AGAPORNIS SUITE HITCHCOCK
Un esordio letterario è sempre una scommessa, ma sembra l'abbiano vinta al primo colpo Pia Arletti e Franco Ferrini, psicologa lei e sceneggiatore lui, entrambi di La Spezia, che hanno dato alle stampe un romanzo scritto a quattro mani, con protagonista niente meno che il genio del cinema Alfred Hitchcock, nell'insolita veste di paziente in crisi psicologica.
AGAPORNIS SUITE HITCHCOCK (Milano, No Reply, 2011) è il racconto, ambientato a Beverly Hills nel 1965, di una psicoterapia brevissima: due sedute che Hitchcock, allora sessantacinquenne, avrebbe avuto (ma la storia è pura finzione) con la psicologa May Romm (quest' ultima veramente esistita), sua consulente nel film IO TI SALVERÒ.
Hitch (così preferisce farsi chiamare, evirando il suo cognome dall'ultima parte cock, che in inglese significa “gallo", o "esemplare maschile di volatile”, ma anche “pene”) sta male: è insoddisfatto del suo ultimo film MARNIE, ma il disagio che avverte è più profondo e, forse, ha radici lontane.
Quando varca lo studio della dottoressa Romm, il genio del cinema mostra tutte le sue debolezze: suda, si agita, somatizza il suo disagio con un irrefrenabile attacco di colite; ma, pur controllandosi per esperienza professionale, è imbarazzatissima anche la dottoressa Romm che, visto il rapporto travagliato che ha avuto col suo paziente durante le riprese di IO TI SALVERÒ, riesce con difficoltà a padroneggiare la situazione.
Il romanzo, dopo un avvio un po' stentato, si snoda con dialoghi serrati e continui colpi di scena, quasi come una pièce teatrale: il lettore è trascinato in un vortice degno di VERTIGO, fino al finale, con una terza seduta mancata, che spiega (anche se non del tutto) il titolo del libro.
Un'opera che lascia qualche perplessità sulle reali intenzioni dei due autori, ma che, letto come divertissement, e per gli appassionati del cinema e di Hitchcock in particolare, è un libro piacevole, pur con qualche (voluta?) inesattezza.
Un libro che, forse, vuole essere una critica alla stessa psicanalisi, o almeno all'idea salvifica di essa e che comunque ci svela, pur nella finzione, molti aspetti reali della personalità del regista inglese. Gli autori, infatti (non dimentichiamo che Ferrini lavora da più di trent'anni nella cinematografia) si sono dettagliatamente documentati, rendendo la storia credibile e mischiando abilmente realtà e finzione. Come nel grande cinema.
[Gabriella Mignani]
AGAPORNIS SUITE HITCHCOCK (Milano, No Reply, 2011) è il racconto, ambientato a Beverly Hills nel 1965, di una psicoterapia brevissima: due sedute che Hitchcock, allora sessantacinquenne, avrebbe avuto (ma la storia è pura finzione) con la psicologa May Romm (quest' ultima veramente esistita), sua consulente nel film IO TI SALVERÒ.
Hitch (così preferisce farsi chiamare, evirando il suo cognome dall'ultima parte cock, che in inglese significa “gallo", o "esemplare maschile di volatile”, ma anche “pene”) sta male: è insoddisfatto del suo ultimo film MARNIE, ma il disagio che avverte è più profondo e, forse, ha radici lontane.
Quando varca lo studio della dottoressa Romm, il genio del cinema mostra tutte le sue debolezze: suda, si agita, somatizza il suo disagio con un irrefrenabile attacco di colite; ma, pur controllandosi per esperienza professionale, è imbarazzatissima anche la dottoressa Romm che, visto il rapporto travagliato che ha avuto col suo paziente durante le riprese di IO TI SALVERÒ, riesce con difficoltà a padroneggiare la situazione.
Il romanzo, dopo un avvio un po' stentato, si snoda con dialoghi serrati e continui colpi di scena, quasi come una pièce teatrale: il lettore è trascinato in un vortice degno di VERTIGO, fino al finale, con una terza seduta mancata, che spiega (anche se non del tutto) il titolo del libro.
Un'opera che lascia qualche perplessità sulle reali intenzioni dei due autori, ma che, letto come divertissement, e per gli appassionati del cinema e di Hitchcock in particolare, è un libro piacevole, pur con qualche (voluta?) inesattezza.
Un libro che, forse, vuole essere una critica alla stessa psicanalisi, o almeno all'idea salvifica di essa e che comunque ci svela, pur nella finzione, molti aspetti reali della personalità del regista inglese. Gli autori, infatti (non dimentichiamo che Ferrini lavora da più di trent'anni nella cinematografia) si sono dettagliatamente documentati, rendendo la storia credibile e mischiando abilmente realtà e finzione. Come nel grande cinema.
[Gabriella Mignani]
01/08/11
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