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INDICE ALFABETICO / INDEX
Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.
- AIME, Marco, ECCESSI DI CULTURE. Note di lettura, 19-8-08
- ANCESCHI, Luciano, GLI SPECCHI DELLA POESIA. Riettura, 25-8-08
- BORDELOIS, Ivonne, ETIMOLOGIA DELLE PASSIONI. Note di lettura, 11-8-08
- EMMERICH, Roland, 10.000 A.C.. Storie di film di Renato Persòli, 23-8-08
- ERCOLANI, Marco, PER LA MANO SINISTRA, 2. Testo, 15-8-08
- FANTATO, Gabriela, CODICE TERRESTRE. Note di lettura, 31-8-08
- MACCIÒ, Francesco, L'OMBRA E LE COSE: DUE POESIE. Testo, 7-8-08
- MARAINI, Fosco, GIAPPONE MANDALA. Note di lettura, 21-8-08
- MAZZUCCO, Melania G., VITA. Note di lettura, 29-8-08
- MONTOBBIO, Santiago, PARÁBOLA Y CENIZO. Testo, 5-8-08
- POND. Fotografia e versi di Marzia POERIO, con commento, 1-8-08.
- RANCHETTI, Michele, POESIE EDITE E INEDITE. Note di lettura di Rosa PIERNO e testi di Michele RANCHETTI, 3-8-08
- ROFENA, Cecilia, AGONICHE. SETTE VARIAZIONI SU SEMPLICI MOSSE INTERIORI. POESIE 2000-2005. Note di lettura di Rosa PIERNO e testi di Cecilia ROFENA, 13-8-08
- STORMY SIX, FINO AL CUORE DELLA RIVOLTA. Storie di musiche di Gian Paolo RAGNOLI, 27-8-2008
- YOSHIMOTO, Banana, CHIE-CHAN E IO. Note di lettura, 17-8-08
- YOUNG, Augustus, BEMUSEMENT. Riflessione, 9-8-08
Rivista in rete di scritti sotto le 2.200 parole: recensioni, testi narrativi, poesie, saggi. Invia commenti e contributi a cartallineate@gmail.com. / This on-line journal includes texts below 2,200 words: reviews, narrative texts, poems and essays. Send comments and contributions to cartallineate@gmail.com.
A cura di / Ed. Roberto Bertoni.
Address (place of publication): Italian Dept, Trinity College, Dublin 2, Ireland. Tel. 087 719 8225.
ISSN 2009-7123
31/08/08
Gabriela Fantato, CODICE TERRESTRE
[Stones on sea-earth. Foto di Marzia Poerio]
Gabriela Fantato, CODICE TERRESTRE, Milano, La Vita Felice, 2008
Sul filo della memoria personale, con riferimenti di ordine familiare, corre un percorso di ampliamento semantico e psicologico.
La parola "viaggio" è citata nella prima poesia della raccolta (il componimento I di UNA GEOMETRIA, FORSE, p. 4) ed è l'itinerario non solo dall'infanzia verso le altre età della vita, ma anche dal testo iniziale verso la riscoperta delle parole che da personali si trasformano in collettive, delle immagini che vanno dall'individualità agli archetipi.
Se il termine "geometria" è da intendersi come riscontro metatestuale, nel contesto "Tento una geometria, / linee e acqua" (di nuovo a p. 4) indica tanto la possibilità del verso quanto quella del riferimento alla natura, al quadro del paesaggio; e un'alternanza di regolarità lineari e di flussi; così dei sentimenti da cui questo volume non si esime, come dei movimenti dei versi, dei contrasti tra fine e principio, scomparse e rinascite. Sia consentito citare per esteso:
"I figli mordono ancora
le dita ai padri per sentire
dove inizia il viaggio.
Perché, ricordi, dicevo anch'io
- perché? nell'età prima che nomina
e divide.
Ancora non si sazia la fame e il giorno
è senza nome.
Tento di ricongiungermi
spalla e braccio come i sassi alla terra,
rinasco ramo e radice.
Resurrezione
nel poco che conosco.
Non che io sappia lo sbocciare esatto
della viola, non l'ordine dell'estate
dentro la morte secca dell'inverno.
Tento una geometria,
linee e acqua".
Il concetto di geometria è ripetuto a p. 26, in (promessa): "una geometria senza memoria", in cui non si attua "la sparizione / nel nero dell'inchiostro". Dunque la poesia non sana le ferite interiori? Non consente i dissolvimenti delle angosce, anzi testimonia di un dolore sempre presente leopardianamente? Con il concreto del ricordo allontanatosi, restano sulla pagina le dinamiche di "un male sottile" (p. 29).
Il male delle origini: di una radice "che non so dov'è iniziata" (p. 341); da cui nel futuro si manifesterà niente altro che un'"eco" / e la notte che ci tiene" (p. 28).
Ma non c'è scorporamento, sebbene l'esperienza del soffrire venga filtrata tramite allusioni ai suoi meccanismi più che agli episodi che la motivano. I riferimenti concreti al dolore appaiono tramite termini quali "morsi" (pp. 29 e 33), "unghie" (p. 29). Vengono citati il "corpo" (p. 43), la "pelle" (p. 63).
La natura incastona i versi, dà origine ai ricordi, pone le condizioni degli interrogativi; come in LA PORTA A SUD (p. 44):
"Adesso la finestra sta aperta
il cielo scivola dentro
porta il vento
e uno stridere di denti.
Attorno il confine si è fatto
coro - lingua di molte voci,
stanze nella promessa di una terra".
La conclusione, aperta, in AI POCHI (p. 72), è questa:
"Il sorriso copre l'assenza dei volti
- non tirare le somme,
non sarà un numero a dire la gioia,
un azzardo nel bianco.
L'addio improvviso come il freddo.
Resta un patto senza abbreviazione
la tua storia.
Un bordo dentro gli occhi.
Solo nel taglio esatto
a volte riposo".
NOTA
Tra le recensioni si veda O. Rossani, NEL NUOVO CODICE TERRESTRE CERCA UN ORDINE PER SENTIMENTI E CORPI (CHE INVECE SI RIBELLANO ALLE REGOLE.
[Roberto Bertoni]
29/08/08
Melania G. Mazzucco, VITA
[Life as happening in a double decker home. Foto di Marzia Poerio]
VITA racconta una vicenda biografica, storica e sociale che frammischia vari generi: il romanzo, la testimonianza e il saggio, disposti a capitoli intercalati con ritmo non simmetrico.
La parte propriamente romanzata parte dal viaggio di Vita a nove anni e di Diamante di dodici anni dal paese di Tufo fino a New York per andare dal padre di lei, che convive con una donna diversa dalla madre rimasta in Italia, circondato da parenti e amici in condizioni di povertà e sfortuna, con lo sfondo della Mano Nera, del proletariato di immigrazione. La storia di affetto dei due ragazzi si trasforma in un fidanzamento contrastato e reso difficoltoso da ostacoli reali eppure somiglianti alle prove della fiaba e dell'epica: il lavoro di Diamante in condizioni di semiservitù presso un cantiere remoto delle ferrovie statunitensi; la caduta di VIta negli intrighi di un seduttore mafioso; il ritrovamento da parte di Diamante, la difficoltà di perdonare; un destino, in parte, ma in parte decisioni di prospettive che riportano Diamante in Italia verso un impiego qualunque e lasciano Vita a New York, dove fonda un ristorante di successo, arricchendosi. In Italia durante la seconda guerra mondiale, Dy, il figlio di Vita, ritrova Roberto, il figlio di Diamante: i due collaboreranno dalle sponde opposte dell'Atlantico per un certo periodo. Sarà Vita, rimasta vedova come Diamante, a cercarlo in età avanzata in Italia, proponendogli di vivere assieme proprio prima della morte di lui.
Su questa vicenda, più complicata di come la si è riassunta, e caratterizzata anche da storie secondarie di altri personaggi, si innesta la ricerca di archivio, macrostoria sociale e microstoria quotidiana sulle condizioni di vita degli emigranti a partire dal primo Novecento, che connota di realismo documentario la narrazione della traversata intercontinentale, la descrizione degli interni e delle strade d'America fino alla resa accurata di pezzi d'Italia tra anni Quaranta e Cinquanta.
Al contempo l'autrice, narrando in prima persona, rende conto in vari capitoli delle proprie visite ad archivi e documenti familiari sulla famiglia Mazzucco, affermando talora che quanto narra si è svolto secondo i fatti accertati (o dati come tali), talaltra per ipotesi ove la documentazione non sostenga il racconto, che così dimostra di essere quello che è: narrazione nata dal reale e che lo modifica nel suo svolgersi, contribuendo però allo stesso tempo a colmare i vuoti della memoria storica e personale, dunque sfociando in una conoscenza più completa, secondo un modello realistico-congetturale che costituisce un elemento di interesse di questa come di altre narrazioni di Mazzucco.
Corredato anche da materiale iconografico, il presente indicativo dà l'impressione che la storia di VITA si svolga come identificando un prototipo di personaggio a emblema di tutte le persone che rappresenta: quegli emigranti, quelle infelicità, quei drammi; ma alternandosi col passato remoto torna continuamente al tempo del narrato, allo spazio del fittizio. La musica appare tramite riferimenti a Caruso, che la protagonista finge nella propria immaginazione essere suo padre e che incontra nella realtà illusoria del romanzo.
Una storia sentimentale tanto assoluta, in parte volutamente melodrammatica, è inserita in un ambiente antiretorico, in cui pare che accanto alla coerenza sentimentale che dura il corso di un'intera vita si accompagnino, nel contorno sociale, prevaricazioni, battaglie tra poveri, incomprensioni reciproche tra Stato ed emigranti, la presenza opprimente della mafia.
Si tratta di un romanzo intelligente, ben costruito, chiaro nonostante le segmentazioni temporali e spaziali, dettagliato e connotativo nel linguaggio che si adatta alla portata di ogni lettore senza perdere in incisività [1].
NOTA
[1] Tra la critica su VITA in Internet, si veda D. Perrone ("Lo specchio di carta", 2004), che contiene links anche a commenti di altre saggiste su vari capitoli del romanzo di Mazzucco.
[Roberto Bertoni]
27/08/08
Stormy Six, FINO AL CUORE DELLA RIVOLTA
“Sabato 12 luglio 2008, Fosdinovo, Museo della Resistenza. FINO AL CUORE DELLA RIVOLTA. ARTISTI PER LA RESISTENZA è un festival della cultura che ha l’obiettivo di far incontrare le giovani generazioni con quel patrimonio di idee e di valori che ci deriva dall’esperienza della Resistenza e la cui conoscenza ancora oggi si dimostra fondamentale nel nostro vivere civile.
Lontani da commemorazioni rituali con FINO AL CUORE DELLA RIVOLTA intendiamo affrontare il tema della Resistenza attraverso le moderne forme di comunicazione artistica (concerti, letture sceniche, videodocumentazione sociale). Con questa manifestazione Archivi della Resistenza - Circolo Edoardo Bassignani (a cui nel tempo si sono affiancate le diverse associazioni che compongono il Comitato dei Sentieri della Resistenza) vuole proporre uno spazio di riflessione e di incontro dove le nuove generazioni possano avvicinare i ‘vecchi partigiani’ per riflettere insieme sul nostro passato, per pensare un domani migliore”.
Così il comunicato degli organizzatori di questo festival molto particolare, che si tiene da quattro anni sulle colline di Fosdinovo, accanto ad un modernissimo museo audiovisivo della Resistenza.
“Con l’esercizio non è niente: solo ci vuole la passione” (Stormy Six, PANORAMA). Non poteva esserci quest'anno per FINO AL CUORE DELLA RIVOLTA un’apertura migliore: gli Stormy Six.
Anche se il nome del gruppo forse non dirà molto ai più giovani crediamo siano sufficienti i versi “Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa: d’ora in poi troverà Stalingrado in ogni città” a far capire a tutti, anche a chi credeva di non conoscerli, di chi stiamo parlando.
Gli Stormy Six, come diceva qualcuno, vengono da lontano. Si sono formati a metà degli anni ’60, al tempo dei “complessi beat”, come venivano chiamati allora, in una Milano in cui le prime tensioni presessantotto convivevano con la scoperta di nuove musiche, il beat, il soul, il rythm’n’blues, il folk revival, che sembravano alludere a un orizzonte diverso, ad un confuso desiderio di cambiare le cose.
Con la loro rigorosa dieta di beat’n’blues, fatta di cover degli Stones, Animals, Them, Small Faces, gli Stormy Six si fecero rapidamente un nome tra i gruppi milanesi e si trovarono anche a far da spalla agli Stones nel loro primo tour italiano, ma già stava arrivando il Sessantotto, alla sensazione che i tempi stavano cambiando si aggiungeva la determinazione di essere, di questo cambiamento, parte attiva. È la storia di una generazione, ma è anche la somma di tante uniche, irripetibili storie.
Quella degli Stormy Six è esemplare proprio perché sono cambiati così tanto nel corso degli anni per rimanere, o meglio per diventare se stessi. Anziché costruirsi una tranquilla carriera come gruppo rock, replicando all’infinito semplici ma efficaci canzoni come ALICE NEL VENTO o ROSSELLA, che gli avrebbero garantito uno spazio sicuro nel settore “Pop di qualità”, hanno scelto di crescere e di cambiare assieme al loro pubblico, imparando sia dalla militanza politica sia dalla pratica musicale, rifiutando sempre di svendere la loro coerenza di militanti ma, altrettanto importante, negandosi a qualsiasi tentativo di ridurli a megafono propagandistico di questa o quella organizzazione della sinistra.
Così sono cresciuti, musicalmente e politicamente, dal country rock de “L’Unità”, dove iniziavano a fare i conti con la storia, raccontando "dal basso" l'unità d'Italia, al confronto con le tradizioni popolari di GUARDA GIÙ DALLA PIANURA, dall’ "invenzione” del progressive folk ne IL BIGLIETTO DEL TRAM fino alle complesse tessiture de L’APPRENDISTA e de LA MACCHINA MACCHERONICA, un viaggio intorno all’identità politica della canzone, da un approccio immediato fino alla sperimentazione di una complessità formale, fino al ritorno, poi, con AL VOLO, a un approccio più diretto, essenziale, in una parola rock.
In mezzo ci sono stati i concerti per tutta Europa, nelle piazze dei paesini siciliani o negli austeri teatri tedeschi, nelle fabbriche o nei circoli culturali, a Casarsa come a Reims, a Macomer come a Tubingen, c’è stata la fondazione, assieme ad altri gruppi e musicisti milanesi, tra cui Moni Ovadia, Guido Mazzon, Tony Rusconi, della cooperativa “L’Orchestra”, che, per qualche anno, costituirà un importante punto di riferimento per l’autoproduzione discografica (UN BIGLIETTO DEL TRAM fu il primo lp pubblicato), per l’organizzazione di concerti, le scuole di musica popolare, l’attività didattica (ricordiamo il manuale di chitarra, curato da Claudia Gallone, su cui si formarono migliaia di chitarristi).
C’è stato l’incontro con gli Henry Cow e il successivo coinvolgimento in “Rock in Opposition”, sorta di internazionale di gruppi indipendenti sotto ogni punto di vista, economico, politico, culturale, che cercavano di proporre, per dirla in breve, una nuova musica per un nuovo pubblico.
C’è stato poi, nel 1983, anche lo scioglimento del gruppo, che alle soglie degli anni ’80 aveva verificato che “il cielo è nero”, gli spazi di autonomia e di gestione antagonista dell’operare musicale ridotti quasi a zero nell’atmosfera mefitica della “Milano da bere”.
Ma erano stati loro a scrivere che “nulla resta uguale a se stesso, la contraddizione muove tutto”, e così ci siamo ritrovati nel ’93 al teatro Orfeo di Milano e poi più volte negli anni, il 25 aprile per gli APPUNTI PARTIGIANI, poi allo Zelig, al Leoncavallo, a Fivizzano, a Cividale e più recentemente a Sesto San Giovanni, il 30 maggio, per il quarantennale del ’68, a chiederci ancora una volta dove è andata a giocare Rossella, a camminare sulla strada gelata e a riflettere che ancora oggi non si sa dove stare.
Se ci pensate bene non è poco, per un gruppo di vecchi ragazzi che “entrò nel mito” più di quarant’anni fa, lanciando fiori al pubblico alla fine dell’esecuzione di LADY JANE…
Sabato 12 luglio a Fosdinovo gli Stormy Six hanno presentato un concerto che attraversa, con un’autoironia e una consapevolezza che crediamo unica, tutta la loro lunga storia.
Alcuni di loro in questi anni hanno continuato, seppur saltuariamente, a suonare, altri, come Antonio Zanuso, il batterista originale, avevano smesso da trent'anni, ma sono bastate poche telefonate e di nuovo professori, architetti, pittori o musicisti erano di nuovo insieme, a riannodare i fili di un'esperienza che non cessa, al di là delle mode culturali del momento, di essere importante.
Cover dei Rolling Stones, THE LAST TIME, di Bob Dylan, CHIMES OF FREEDOM, di uno dei loro maestri, Woody Guthrie, THE UNION MAID, un toccante brano di Mikis Theodorakis e poi le loro canzoni, da PONTELANDOLFO che racconta un eccidio dei "Piemontesi" nel sud dell'Italia appena unita a LA MANIFESTAZIONE, dove una giacca ed un fazzoletto rosso rimasti sul marciapiede sono l'ultimo ricordo di uno studente assassinato durante una manifestazione. Poi l'esecuzione intera di UN BIGLIETTO DEL TRAM, il loro lavoro più conosciuto, un album completamente dedicato alla Resistenza, con canzoni ormai storiche come STALINGRADO, LA FABBRICA e DANTE DI NANNI, per concludere con L'ORCHESTRA DEI FISCHIETTI, dedicato alle manifestazioni operaie nella Milano degli anni '70, un fiume di parole e di suoni che non vediamo l'ora torni di nuovo ad attraversare le nostre strade, da troppo tempo mute.
[Gian Paolo Ragnoli]
Lontani da commemorazioni rituali con FINO AL CUORE DELLA RIVOLTA intendiamo affrontare il tema della Resistenza attraverso le moderne forme di comunicazione artistica (concerti, letture sceniche, videodocumentazione sociale). Con questa manifestazione Archivi della Resistenza - Circolo Edoardo Bassignani (a cui nel tempo si sono affiancate le diverse associazioni che compongono il Comitato dei Sentieri della Resistenza) vuole proporre uno spazio di riflessione e di incontro dove le nuove generazioni possano avvicinare i ‘vecchi partigiani’ per riflettere insieme sul nostro passato, per pensare un domani migliore”.
Così il comunicato degli organizzatori di questo festival molto particolare, che si tiene da quattro anni sulle colline di Fosdinovo, accanto ad un modernissimo museo audiovisivo della Resistenza.
“Con l’esercizio non è niente: solo ci vuole la passione” (Stormy Six, PANORAMA). Non poteva esserci quest'anno per FINO AL CUORE DELLA RIVOLTA un’apertura migliore: gli Stormy Six.
Anche se il nome del gruppo forse non dirà molto ai più giovani crediamo siano sufficienti i versi “Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa: d’ora in poi troverà Stalingrado in ogni città” a far capire a tutti, anche a chi credeva di non conoscerli, di chi stiamo parlando.
Gli Stormy Six, come diceva qualcuno, vengono da lontano. Si sono formati a metà degli anni ’60, al tempo dei “complessi beat”, come venivano chiamati allora, in una Milano in cui le prime tensioni presessantotto convivevano con la scoperta di nuove musiche, il beat, il soul, il rythm’n’blues, il folk revival, che sembravano alludere a un orizzonte diverso, ad un confuso desiderio di cambiare le cose.
Con la loro rigorosa dieta di beat’n’blues, fatta di cover degli Stones, Animals, Them, Small Faces, gli Stormy Six si fecero rapidamente un nome tra i gruppi milanesi e si trovarono anche a far da spalla agli Stones nel loro primo tour italiano, ma già stava arrivando il Sessantotto, alla sensazione che i tempi stavano cambiando si aggiungeva la determinazione di essere, di questo cambiamento, parte attiva. È la storia di una generazione, ma è anche la somma di tante uniche, irripetibili storie.
Quella degli Stormy Six è esemplare proprio perché sono cambiati così tanto nel corso degli anni per rimanere, o meglio per diventare se stessi. Anziché costruirsi una tranquilla carriera come gruppo rock, replicando all’infinito semplici ma efficaci canzoni come ALICE NEL VENTO o ROSSELLA, che gli avrebbero garantito uno spazio sicuro nel settore “Pop di qualità”, hanno scelto di crescere e di cambiare assieme al loro pubblico, imparando sia dalla militanza politica sia dalla pratica musicale, rifiutando sempre di svendere la loro coerenza di militanti ma, altrettanto importante, negandosi a qualsiasi tentativo di ridurli a megafono propagandistico di questa o quella organizzazione della sinistra.
Così sono cresciuti, musicalmente e politicamente, dal country rock de “L’Unità”, dove iniziavano a fare i conti con la storia, raccontando "dal basso" l'unità d'Italia, al confronto con le tradizioni popolari di GUARDA GIÙ DALLA PIANURA, dall’ "invenzione” del progressive folk ne IL BIGLIETTO DEL TRAM fino alle complesse tessiture de L’APPRENDISTA e de LA MACCHINA MACCHERONICA, un viaggio intorno all’identità politica della canzone, da un approccio immediato fino alla sperimentazione di una complessità formale, fino al ritorno, poi, con AL VOLO, a un approccio più diretto, essenziale, in una parola rock.
In mezzo ci sono stati i concerti per tutta Europa, nelle piazze dei paesini siciliani o negli austeri teatri tedeschi, nelle fabbriche o nei circoli culturali, a Casarsa come a Reims, a Macomer come a Tubingen, c’è stata la fondazione, assieme ad altri gruppi e musicisti milanesi, tra cui Moni Ovadia, Guido Mazzon, Tony Rusconi, della cooperativa “L’Orchestra”, che, per qualche anno, costituirà un importante punto di riferimento per l’autoproduzione discografica (UN BIGLIETTO DEL TRAM fu il primo lp pubblicato), per l’organizzazione di concerti, le scuole di musica popolare, l’attività didattica (ricordiamo il manuale di chitarra, curato da Claudia Gallone, su cui si formarono migliaia di chitarristi).
C’è stato l’incontro con gli Henry Cow e il successivo coinvolgimento in “Rock in Opposition”, sorta di internazionale di gruppi indipendenti sotto ogni punto di vista, economico, politico, culturale, che cercavano di proporre, per dirla in breve, una nuova musica per un nuovo pubblico.
C’è stato poi, nel 1983, anche lo scioglimento del gruppo, che alle soglie degli anni ’80 aveva verificato che “il cielo è nero”, gli spazi di autonomia e di gestione antagonista dell’operare musicale ridotti quasi a zero nell’atmosfera mefitica della “Milano da bere”.
Ma erano stati loro a scrivere che “nulla resta uguale a se stesso, la contraddizione muove tutto”, e così ci siamo ritrovati nel ’93 al teatro Orfeo di Milano e poi più volte negli anni, il 25 aprile per gli APPUNTI PARTIGIANI, poi allo Zelig, al Leoncavallo, a Fivizzano, a Cividale e più recentemente a Sesto San Giovanni, il 30 maggio, per il quarantennale del ’68, a chiederci ancora una volta dove è andata a giocare Rossella, a camminare sulla strada gelata e a riflettere che ancora oggi non si sa dove stare.
Se ci pensate bene non è poco, per un gruppo di vecchi ragazzi che “entrò nel mito” più di quarant’anni fa, lanciando fiori al pubblico alla fine dell’esecuzione di LADY JANE…
Sabato 12 luglio a Fosdinovo gli Stormy Six hanno presentato un concerto che attraversa, con un’autoironia e una consapevolezza che crediamo unica, tutta la loro lunga storia.
Alcuni di loro in questi anni hanno continuato, seppur saltuariamente, a suonare, altri, come Antonio Zanuso, il batterista originale, avevano smesso da trent'anni, ma sono bastate poche telefonate e di nuovo professori, architetti, pittori o musicisti erano di nuovo insieme, a riannodare i fili di un'esperienza che non cessa, al di là delle mode culturali del momento, di essere importante.
Cover dei Rolling Stones, THE LAST TIME, di Bob Dylan, CHIMES OF FREEDOM, di uno dei loro maestri, Woody Guthrie, THE UNION MAID, un toccante brano di Mikis Theodorakis e poi le loro canzoni, da PONTELANDOLFO che racconta un eccidio dei "Piemontesi" nel sud dell'Italia appena unita a LA MANIFESTAZIONE, dove una giacca ed un fazzoletto rosso rimasti sul marciapiede sono l'ultimo ricordo di uno studente assassinato durante una manifestazione. Poi l'esecuzione intera di UN BIGLIETTO DEL TRAM, il loro lavoro più conosciuto, un album completamente dedicato alla Resistenza, con canzoni ormai storiche come STALINGRADO, LA FABBRICA e DANTE DI NANNI, per concludere con L'ORCHESTRA DEI FISCHIETTI, dedicato alle manifestazioni operaie nella Milano degli anni '70, un fiume di parole e di suoni che non vediamo l'ora torni di nuovo ad attraversare le nostre strade, da troppo tempo mute.
[Gian Paolo Ragnoli]
25/08/08
Luciano Anceschi, GLI SPECCHI DELLA POESIA
[The initial of the critic's name in the mirror which reflects the world. (From the walls of Garbagna). Foto di Marzia Poerio]
Luciano Anceschi, GLI SPECCHI DELLA POESIA. Sottotitolo: RIFLESSIONE, POESIA, CRITICA. Torino, Einaudi, 1989
Sembra a chi qui scrive sempre attuale questo saggio di Anceschi, in cui l'autore, dichiaratamente, esprime idee maturate in parecchi anni di riflessione, scrittura, intervento culturale sia come docente, sia come critico militante.
Ciò che più si adatta agli interessi dello scrivente è soprattutto il senso di libertà che emerge dalla proposta di una critica fenomenologica che cerca di domandarsi di continuo qualcosa di nuovo sui testi, sondandone significati aperti. Si tratta, sostiene Anceschi, di esaminare "nella sua complessità la vita della poesia nel ricco intrico di relazioni in cui si definisce" (p. 5).
Più che riferire tutti i temi di questo libro, preme ricordare il concetto di poetica, che ben lontano dal porsi come momento di chiusura, rappresenta invece un approccio di apertura.
La ricostruzione della poetica degli scrittori consente una migliore comprensione dei testi: sia essa la "poetica esplicita", ovvero la riflessione della poesia su di sé tramite le varianti dei testi (il "lavorio continuo del poeta che vede e rivede se stesso, che si corregge, che si trasforma", p. 105), l'autoesegesi, l'interpretazione dei testi che si vengono componendo; sia essa "poetica implicita", ricavabile "da rilievi specifici sul testo, dal modo in cui il poeta si destreggia coi suoi strumenti" (p. 38) e tale da portare in luce le "strutture che dànno garanzia e unità a un operare che può solo fingere di essere improvvisato e occasionale" (p. 49).
Questo al di là della precettistica e della normativa stretta; al contrario in un ambito che Anceschi definisce "prammatico", basato sul fare, pur non essendo esente dal chiaro riferimento ai canoni: "la libertà dell'artista, quale sia il fine che egli si propone, sta [...] nel modo con cui si serve delle parole e le manipola; ed è ben chiaro che queste sue decisioni non mancano di avere il loro peso nel determinare o nel trasformare precetti e norme" (p. 55).
Si profila così una critica che viva nell'equilibrio, ovvero "che si organizzi in una specifica sistematicità non vincolante, aperta, mobile, che salvaguardi ogni verità particolare nel suo senso o che possiamo recuperare del suo senso, nel rispetto delle penetrazioni singolari che sono in ogni caso un contributo" (p. 111).
Alla base della comunicazione letteraria c'è il "messaggio". L'autore è per Anceschi colui che "traduce" il messaggio con gli "strumenti adatti". Il lettore è "colui che si procura gli strumenti adatti per ricevere il messaggio trascritto dall'autore" (p. 122).
Con Husserl, Valery e Leopardi a scorta di questo volume, siamo ben oltre una visione restrittiva, che si sente stranamente menzionare a volte riguardo Anceschi difensore esclusivo dalle avanguardie. Paiono invece profondi l'eredità e l'impegno assegnati a chi si occupa di letteratura:
"Nelle difficoltà in cui ci troviamo, come umanità, a vivere, continuiamo a scommettere sulla continuità del lavoro umano nel continuo movimento dei suoi significati. Tutto ciò ha qualche punto di riferimento non già con ciò che diciamo 'sistema' ma con ciò che diciamo 'sistematica'; non chiede definizioni irrevocabili, ma il rilievo di una rete di interrelazioni in un continuo ravvivarsi reciproco dei vari motivi tra loro e in rapporto all'imprevisto; e naturalmente ciò comporta il rispetto di un procedere inteso a metter tra parentesi tutti i significati che si presentano come assoluti, ed è tale che non si appaga mai, nel rispondere alle domande fondamentali, di risposte unilineari con le loro interessate e riduttive discriminazioni. [...]. Tutto si tiene, vive organico, e si scalda [...] negli attriti" (p. 189).
[Roberto Bertoni]
23/08/08
Roland Emmerich, 10.000 A.C.
[Like a shaman's mask (Saint Laurence Church, Genoa). Foto di Marzia Poerio]
Soggetto e sceneggiatura: Roland Emmerich e Harald Kloser. Con Nathanael Baring, Camille Belle, Affif Ben Badra, Cliff Curtis, Mona Hammond, Marco Khan, Jacob Renton, Steven Strait, Grayson Hunt Urwin, Joel Virgel. Voce narrante nella versione inglese: Omar Sharif. Versione dvd Warner Bros, 2008.
Evolet, una bambina dagli occhi celesti, per questo diversa dagli altri, arriva in una tribù di cacciatori che vivono sulle montagne. L'Anziana Madre, o sciamana del villaggio, predice un futuro positivo dovuto alla sua presenza. Si innamora di lei fin da bambino D'Leh, accomunato a Evolet da un destino di solitudine, essendo suo padre partito senza fare ritorno (era andato a cercare uno sbocco alla carestia, come si scoprirà nel seguito della storia). Gli anni passano. Dei razziatori e trafficanti di schiavi, più avanzati tecnologicamente (usano spade di ferro e cavalcano) rapiscono Evolet ormai ragazza e altri membri della tribù, distruggendo le capanne. D'leh, assieme ad alcuni compagni, si mette alla ricerca della giovane, tra traversie che lo porteranno dalla neve alla foresta trpicale al deserto. Stretta un'alleanza con tribù delle zone calde, un piccolo esercito libera gli schiavi che lavorano alla costruzione di piramidi della civiltà in cui è finita Evolet. La giovane pare morta nella rivolta degli schiavi, ma resuscita per un'esperienza magica di trasferimento telepatico della vita dalla sciamana delle montagne a lei. I cacciatori tornano nelle loro terre portando dei semi che permetteranno loro di convertirsi all'asgricolutra, evolvendosi così verso una società più prospera.
A noi è piaciuto questo film, che racconta una storia simile a una fiaba: l'eroe attraversa, alla Propp, difficoltà per coronare la propria storia d'amore, frattanto svolge opera di giustizia, sconfigge nemici più forti di lui con l'aiuto della propria intelligenza, di altri esseri umani e della magia. Segue il lieto fine.
Al contempo, sul piano junghiano, il maschile si congiunge col femminile; e la morte dell'Anziana porta la vita alla Giovane in un ciclo di integrazione.
L'economia di sopravvivenza dei cacciatori e la loro ritualità, col primeggiare del coraggio, nonché lo sciamanesimo, sono resi con una certa efficacia. La tribù nera con cui si alleano i cacciatori è restituita con simpatia umana. La società delle piramidi è rappresentata nelle sue profezie e ritualità che grondano delle frustate agli schiavi.
Gli effetti speciali non sono esagerati, risultano anzi funzionali alla rappresentazione. Memorabile la ricostruzione dei branchi di manak, simili ai mammouth. Notevole la tigre preistorica dalle zanne. Piuttosto credibili le scene di caccia.
Il film si muove con dinamismo. Belli i paesaggi. Piacevole l'insieme.
L'ipotesi della comparsa di una civiltà evoluta alla fine della glaciazione è in parte basata sulle ipotesi di archeologia fantastica di Graham Hancock.
Nell'insieme, in questo melange eclettico protostorico, ma piuttosto, si dovrebbe dire, postmoderno, non mancano coscienza dell'evoluzione e rispetto per le civiltà altre. La parabola è sulla sopravvivenza e sulla fine di culture anche evolute, di cui restano rovine. Succederà anche alla nostra?, si domanda il regista nel dvd con le interviste e le scene espunte.
[Renato Persòli]
21/08/08
Fosco Maraini, GIAPPONE MANDALA
Prima edizione 1971. Milano, Mondadori Electa, 2006. Postfazione di Gian Carlo Calza.
Abbiamo letto volentieri, e ammirato, questo libro di Fosco Maraini, la cui lettura, per la complessità espressa in lingua semplice e per l'intreccio di temi, ci ha dato l'impressione di rendere più vicino un paese di cui ammiriamo alcuni registi e scrittori, ma che non abbiamo mai visitato.
GIAPPONE MANDALA contiene 326 fotografie scattate da Maraini oltre che vari capitoli sul Giappone di ieri e di oggi, interpretato con categorie antropologiche e per accostamento di forme e idee. È un libro interessante, bello da vedere, prodotto in modo graficamente impeccabile.
L'autore coglie il Giappone di circa quarant'anni fa nel momento della trasformazione avvenuta verso l'occidentalizzazione e la modernizzazione, ma con adattamenti delle nuove strutture sulle connotazioni nipponiche sedimentate nei secoli precedenti e con aspetti (quanto ancora vivi nel XXI secolo?) di permanenza dell'antico modo di essere.
Secondo Maraini, "l'immagine definitiva dell'interiorità giapponese è quella di un'armonia pressoché completa tra tradizione e modernità, di una estraneità ridotta al minimo rispetto all'asse del progresso umano" (p. 215). Si tratta di tendenze sia verso l'azione che verso la contemplazione, poli coesistenti.
La natura costituiva al momento in cui Maraini scriveva ancora un elemento importante e vivo, connaturato al modo di essere giapponese come in un mandala: natura come "incarnazione dell'Assoluto" (p. 13), investita da mutamenti stagionali, corrispettivo dei perimetri di altri oggetti, imitatrice imitata come documentano tanto le parti scritte quanto le immagini.
Ben marcate le tradizioni religiose sciamanica, shintoista, buddhista e confuciana coi loro diversi influssi.
Affascinanti le parti sugli ideogrammi, indicati tanto come forme legate alla natura e con influssi sul modo di concepire l'arte ("in questo tipo di segno, arte e natura sono connesse da una rete di relazioni che operano a vari livelli, p. 71); ammirati non solo per il loro significato ma anche per la loro bellezza; fonte di fotografie che paragonano i segni della scrittura a pagode, elementi quadrati, ondeggiamenti dei paesaggi.
Una parte svolgono i riti, il ruolo della donna, le architetture arcaiche e contemporanee.
Lapidaria è una frase del libro che consegniamo al lettore di queste note: "il segreto ultimo del Giappone potrebbe essere il futuro del suo passato" (p. 222).
[Renato Persòli]
Abbiamo letto volentieri, e ammirato, questo libro di Fosco Maraini, la cui lettura, per la complessità espressa in lingua semplice e per l'intreccio di temi, ci ha dato l'impressione di rendere più vicino un paese di cui ammiriamo alcuni registi e scrittori, ma che non abbiamo mai visitato.
GIAPPONE MANDALA contiene 326 fotografie scattate da Maraini oltre che vari capitoli sul Giappone di ieri e di oggi, interpretato con categorie antropologiche e per accostamento di forme e idee. È un libro interessante, bello da vedere, prodotto in modo graficamente impeccabile.
L'autore coglie il Giappone di circa quarant'anni fa nel momento della trasformazione avvenuta verso l'occidentalizzazione e la modernizzazione, ma con adattamenti delle nuove strutture sulle connotazioni nipponiche sedimentate nei secoli precedenti e con aspetti (quanto ancora vivi nel XXI secolo?) di permanenza dell'antico modo di essere.
Secondo Maraini, "l'immagine definitiva dell'interiorità giapponese è quella di un'armonia pressoché completa tra tradizione e modernità, di una estraneità ridotta al minimo rispetto all'asse del progresso umano" (p. 215). Si tratta di tendenze sia verso l'azione che verso la contemplazione, poli coesistenti.
La natura costituiva al momento in cui Maraini scriveva ancora un elemento importante e vivo, connaturato al modo di essere giapponese come in un mandala: natura come "incarnazione dell'Assoluto" (p. 13), investita da mutamenti stagionali, corrispettivo dei perimetri di altri oggetti, imitatrice imitata come documentano tanto le parti scritte quanto le immagini.
Ben marcate le tradizioni religiose sciamanica, shintoista, buddhista e confuciana coi loro diversi influssi.
Affascinanti le parti sugli ideogrammi, indicati tanto come forme legate alla natura e con influssi sul modo di concepire l'arte ("in questo tipo di segno, arte e natura sono connesse da una rete di relazioni che operano a vari livelli, p. 71); ammirati non solo per il loro significato ma anche per la loro bellezza; fonte di fotografie che paragonano i segni della scrittura a pagode, elementi quadrati, ondeggiamenti dei paesaggi.
Una parte svolgono i riti, il ruolo della donna, le architetture arcaiche e contemporanee.
Lapidaria è una frase del libro che consegniamo al lettore di queste note: "il segreto ultimo del Giappone potrebbe essere il futuro del suo passato" (p. 222).
[Renato Persòli]
19/08/08
Marco Aime, ECCESSI DI CULTURE
Torino, Einaudi, 2004
L'assunto principale di questo libro è che sta proprio all'antropologo mettere in guardia contro l'eccesso di differenziazione culturale quando esse creino divisioni e barriere, enfatizzando oltre misura i localismi e insistendo sulla diversità invece che sui tratti che accomunano etnie, società e individui e che sono quelli che meglio consentono la tolleranza.
Così, secondo Aime, accade in casi come quello dell'identià europea fondata su elementi non sempre chiari e distinguibili, sul concetto somatico di gruppo di appartenenza (all'interno di ogni gruppo ci sono distinzioni), sulla definizione di emigrazione e sulle differenze religiose.
L'autore sostiene che "vano sarebbe cercare una purezza originale nelle culture, che sono somma e sottrazione di tutti gli elementi che le hanno attraversate nel tempo" (p. 20).
Aime concorda con Francesco Remotti sull'idea che "l'dentità è un fatto di decisioni" [1]. L'identità viene costruita per ragioni di identificazione, sociali, politiche, d'altro genere, come è successo per esempio nei processi di identificazione nazionale, assiepandosi attorno a simboli e reinterpretazioni della storia. Con invenzioni più evidenti, in certi casi.
Del resto, ogni cultura è di per sé sedimentata storicamente e multiculturale, soprattutto, si potrebbe dire, nel mondo globalizzato.
La tradizione non è mai completamente tale; sessa viene non di rado recuperata a fini di creazione di identità, con aspetti anche di tradizionalismo, o difesa di un'eredità culturale non sempre autentica.
Aime condivide le ipotesi di Benedict Anderson e Arjun Appadurai sull'ampia deterritorializzazione contemporanea.
Rileva inoltre come alcuni problemi visti come aspetti dell'identità sarebbero più propriamente da attribuirsi al terreno del sociale. Perché etichettare gli immigranti, quando il loro momento definitorio principale è la povertà prima della provenienza etnica?
Identità, quindi, come "prodotto culturale", che possono essere "fasulle e inventate quanto si vuole", ma restano "attive sul piano pratico" (p. 101).
Occorre naturalmente misurarsi con questi temi nel mondo contemporaneo, anche se chi scrive queste note, mentre condivide le implicazioni democratiche del saggio di Aime, ritiene al contempo che una negazione totale dell'identità possa a sua volta costituire un limite. Esistono anche il radicamento, l'appartenenza. Forse al meglio si può tentare di far convivere forme di indentità globale e locale, personale e comunitaria, appaiando le varie forme nella società attuale complessa.
[Roberto Bertoni]
NOTA
[1] Francesco Remotti, CONTRO L'IDENTITÀ, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 5.
L'assunto principale di questo libro è che sta proprio all'antropologo mettere in guardia contro l'eccesso di differenziazione culturale quando esse creino divisioni e barriere, enfatizzando oltre misura i localismi e insistendo sulla diversità invece che sui tratti che accomunano etnie, società e individui e che sono quelli che meglio consentono la tolleranza.
Così, secondo Aime, accade in casi come quello dell'identià europea fondata su elementi non sempre chiari e distinguibili, sul concetto somatico di gruppo di appartenenza (all'interno di ogni gruppo ci sono distinzioni), sulla definizione di emigrazione e sulle differenze religiose.
L'autore sostiene che "vano sarebbe cercare una purezza originale nelle culture, che sono somma e sottrazione di tutti gli elementi che le hanno attraversate nel tempo" (p. 20).
Aime concorda con Francesco Remotti sull'idea che "l'dentità è un fatto di decisioni" [1]. L'identità viene costruita per ragioni di identificazione, sociali, politiche, d'altro genere, come è successo per esempio nei processi di identificazione nazionale, assiepandosi attorno a simboli e reinterpretazioni della storia. Con invenzioni più evidenti, in certi casi.
Del resto, ogni cultura è di per sé sedimentata storicamente e multiculturale, soprattutto, si potrebbe dire, nel mondo globalizzato.
La tradizione non è mai completamente tale; sessa viene non di rado recuperata a fini di creazione di identità, con aspetti anche di tradizionalismo, o difesa di un'eredità culturale non sempre autentica.
Aime condivide le ipotesi di Benedict Anderson e Arjun Appadurai sull'ampia deterritorializzazione contemporanea.
Rileva inoltre come alcuni problemi visti come aspetti dell'identità sarebbero più propriamente da attribuirsi al terreno del sociale. Perché etichettare gli immigranti, quando il loro momento definitorio principale è la povertà prima della provenienza etnica?
Identità, quindi, come "prodotto culturale", che possono essere "fasulle e inventate quanto si vuole", ma restano "attive sul piano pratico" (p. 101).
Occorre naturalmente misurarsi con questi temi nel mondo contemporaneo, anche se chi scrive queste note, mentre condivide le implicazioni democratiche del saggio di Aime, ritiene al contempo che una negazione totale dell'identità possa a sua volta costituire un limite. Esistono anche il radicamento, l'appartenenza. Forse al meglio si può tentare di far convivere forme di indentità globale e locale, personale e comunitaria, appaiando le varie forme nella società attuale complessa.
[Roberto Bertoni]
NOTA
[1] Francesco Remotti, CONTRO L'IDENTITÀ, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 5.
17/08/08
Banana Yoshimoto, CHIE-CHAN E IO
Titolo originale CHIECHAN TO WATASHI, 2007. Traduzione di Giorgio Amitrano, Milano, Feltrinelli, 2008.
Il romanzo contiene nell'ultima pagina, en abyme si potrebbe dire, la fabula della storia narrata per esteso in questo volume, così:
"Una donna maniaca dell'Italia, che ci è andata molto spesso, si innamora, lavora grazie alla parentela con la zia, ne approfitta per andare ancora altre volte in Italia dandosi arie di donna d'affari, vive da single ma soffre talmente la solitudine che si prende in casa una cugina un po' strana che non è nemmeno lei una ragazzina, e vivono tutt'e due insieme come due stanche donne di mezza età, e quando un uomo divorziato e scombinato le fa un minimo di avance, ne è lusingata, inizia una storia, e così passa la sua vita" (p. 139).
Questa ricapitolazione della storia di Kaori Morisawa, la protagonista quarantaduenne che narra in prima persona, e di sua cugina trentacinquenne Chie-chan Seto, che vive con lei dopo la morte di sua madre, ed è laconica e bisognosa di accudimento, nondimeno indipendente e profonda, in un ménage quasi di madre e figlia nonostante l'età che le avvicina, non corrisponde veramente a come vanno le cose (e ai misteri della vita personale delle due donne, che si rivelano gradualmente e dosati ad arte nel corso del racconto), bensì a una visione basata sulle apparenze sociali, di cui la narratrice si fa interprete nella conclusione, rivendicando al contempo, non esposta ai più, come spiega nella medesima ultima pagina, la realtà di non grigiore della propria esistenza: "ogni giorno", delucida, "c'è qualcosa che brilla"; e "io sono fatta di un enigma incandescente".
Il contrasto e la coesistenza della piattezza e del lucore sono di per sé momenti interessanti di integrazione degli opposti. La quotidianità è uno di motivi del romanzo, in cui si manifesta quello che accade giorno dopo giorno in quanto significativo, perché un microcosmo di movimenti, azioni, emozioni che al di là della monotonia apparente indica il flusso della vita: "le cose che ci sembrano uguali e stabili in realtà scorrono in modo impercettibile e si modificano, lasciando sempre intravedere qua e là dei segnali" (p. 7).
La storia procede per racconti di atti semplici accompagnati da riflessioni filosofiche, rese con un minimalismo che spinge talora il lettore (forse solo questo lettore?) a tornare indietro, rendendosi conto di avere sottovalutato qualche frase che sembrava poco rilevante, mentre invece conteneva una verità generale che si legava a sua volta più strettamente del previsto alla catena della narrazione. Così il "fatto incredibile che qualunque tipo di desiderio [...] se viene controllato al suo primo manifestarsi può essere tenuto a bada facilmente" (p. 9), mentre rivela qualcosa di meditativo, è un motivo del racconto in quanto sottostà ad alcune decisioni del personaggio che dice io,una Kaori arrivata alla mezza età (come ritiene di se stessa) e più savia dopo una giovinezza in parte movimentata, che vive per anni in uno stato di tranquillità, fino all'apparire di un'emozione d'amore nuova e inattesa, che sarà condotta con consapevolezza ma anche con abbandono: "il fatto che io potessi vivere una love story con un uomo così instabile e dedito alle avventure era una prova di quanto fossi diventata equilibrata" (p. 125); e con ironia: "a me piacerebbe avere un uomo che mi lascia completamente libera e nello stesso tempo mi coccola come potrebbe fare un papà [...]. Però un uomo così non esiste" (p. 95).
C'è un tentativo di accettazione: "per me il mondo non è qualcosa che a un certo punto debba cambiare per diventare come dovrebbe. Il mondo è quello che è adesso, e quello che c'è adesso è il mondo" (p. 130).
Infine, mentre buona parte della vita pratica in questo romanzo si svolge tra oggetti firmati e altre modernità, ci sono elementi di contemplazione e tributi nostalgici: "'la pioggia in Giappone crea un'atmosfera speciale' disse la mamma. [...] Pensai che probabilmente anch'io, se avessi vissuto lontano dal Giappone, l'avrei considerata con la stessa nostalgia" (p. 74). Eppure Kaori stessa va spesso in Italia (un paese citato più volte nel testo con brevi osservazioni a volte pungenti a volte ammirate); e Chie-chan è nata in Australia, dove risiedeva sua madre. Ma forse il ritorno alle origini, anche spirituali, è proprio possibile a causa della globalizzazione, sotto forma di recupero volontario di tradizioni rivelatesi positive proprio perché viste in contrasto con la modernizzazione.
L'amicizia, la solidarietà, l'amore sono tra i temi di questa storia caratterizzata da una tendenza a conoscere e rompere il karma; ovvero, come dice Kaori: gli esseri umani "si fanno male, si pentono, tornano a farsi male, e così via, tante e tante volte. È un errore in cui cadono in molti. Non si accorgono che girano sempre attorno allo stesso punto. Io credo che sbaglino..." (p. 83).
[Roberto Bertoni]
Il romanzo contiene nell'ultima pagina, en abyme si potrebbe dire, la fabula della storia narrata per esteso in questo volume, così:
"Una donna maniaca dell'Italia, che ci è andata molto spesso, si innamora, lavora grazie alla parentela con la zia, ne approfitta per andare ancora altre volte in Italia dandosi arie di donna d'affari, vive da single ma soffre talmente la solitudine che si prende in casa una cugina un po' strana che non è nemmeno lei una ragazzina, e vivono tutt'e due insieme come due stanche donne di mezza età, e quando un uomo divorziato e scombinato le fa un minimo di avance, ne è lusingata, inizia una storia, e così passa la sua vita" (p. 139).
Questa ricapitolazione della storia di Kaori Morisawa, la protagonista quarantaduenne che narra in prima persona, e di sua cugina trentacinquenne Chie-chan Seto, che vive con lei dopo la morte di sua madre, ed è laconica e bisognosa di accudimento, nondimeno indipendente e profonda, in un ménage quasi di madre e figlia nonostante l'età che le avvicina, non corrisponde veramente a come vanno le cose (e ai misteri della vita personale delle due donne, che si rivelano gradualmente e dosati ad arte nel corso del racconto), bensì a una visione basata sulle apparenze sociali, di cui la narratrice si fa interprete nella conclusione, rivendicando al contempo, non esposta ai più, come spiega nella medesima ultima pagina, la realtà di non grigiore della propria esistenza: "ogni giorno", delucida, "c'è qualcosa che brilla"; e "io sono fatta di un enigma incandescente".
Il contrasto e la coesistenza della piattezza e del lucore sono di per sé momenti interessanti di integrazione degli opposti. La quotidianità è uno di motivi del romanzo, in cui si manifesta quello che accade giorno dopo giorno in quanto significativo, perché un microcosmo di movimenti, azioni, emozioni che al di là della monotonia apparente indica il flusso della vita: "le cose che ci sembrano uguali e stabili in realtà scorrono in modo impercettibile e si modificano, lasciando sempre intravedere qua e là dei segnali" (p. 7).
La storia procede per racconti di atti semplici accompagnati da riflessioni filosofiche, rese con un minimalismo che spinge talora il lettore (forse solo questo lettore?) a tornare indietro, rendendosi conto di avere sottovalutato qualche frase che sembrava poco rilevante, mentre invece conteneva una verità generale che si legava a sua volta più strettamente del previsto alla catena della narrazione. Così il "fatto incredibile che qualunque tipo di desiderio [...] se viene controllato al suo primo manifestarsi può essere tenuto a bada facilmente" (p. 9), mentre rivela qualcosa di meditativo, è un motivo del racconto in quanto sottostà ad alcune decisioni del personaggio che dice io,una Kaori arrivata alla mezza età (come ritiene di se stessa) e più savia dopo una giovinezza in parte movimentata, che vive per anni in uno stato di tranquillità, fino all'apparire di un'emozione d'amore nuova e inattesa, che sarà condotta con consapevolezza ma anche con abbandono: "il fatto che io potessi vivere una love story con un uomo così instabile e dedito alle avventure era una prova di quanto fossi diventata equilibrata" (p. 125); e con ironia: "a me piacerebbe avere un uomo che mi lascia completamente libera e nello stesso tempo mi coccola come potrebbe fare un papà [...]. Però un uomo così non esiste" (p. 95).
C'è un tentativo di accettazione: "per me il mondo non è qualcosa che a un certo punto debba cambiare per diventare come dovrebbe. Il mondo è quello che è adesso, e quello che c'è adesso è il mondo" (p. 130).
Infine, mentre buona parte della vita pratica in questo romanzo si svolge tra oggetti firmati e altre modernità, ci sono elementi di contemplazione e tributi nostalgici: "'la pioggia in Giappone crea un'atmosfera speciale' disse la mamma. [...] Pensai che probabilmente anch'io, se avessi vissuto lontano dal Giappone, l'avrei considerata con la stessa nostalgia" (p. 74). Eppure Kaori stessa va spesso in Italia (un paese citato più volte nel testo con brevi osservazioni a volte pungenti a volte ammirate); e Chie-chan è nata in Australia, dove risiedeva sua madre. Ma forse il ritorno alle origini, anche spirituali, è proprio possibile a causa della globalizzazione, sotto forma di recupero volontario di tradizioni rivelatesi positive proprio perché viste in contrasto con la modernizzazione.
L'amicizia, la solidarietà, l'amore sono tra i temi di questa storia caratterizzata da una tendenza a conoscere e rompere il karma; ovvero, come dice Kaori: gli esseri umani "si fanno male, si pentono, tornano a farsi male, e così via, tante e tante volte. È un errore in cui cadono in molti. Non si accorgono che girano sempre attorno allo stesso punto. Io credo che sbaglino..." (p. 83).
[Roberto Bertoni]
15/08/08
Marco Ercolani, PER LA MANO SINISTRA, 2.
["One works in the shade, looking at roots". Foto di Marzia Poerio]
Scrivere per nessuno: gioia non perversa di una preghiera laica.
Verificare in che modo l’indicibile provoca parole.
Le ossessioni non sono incubi ma modi complessi di sviluppare il processo artistico.
Oltre la possibilità, cosa esiste?
Durante il giorno scrivere parole che scaturiscono di notte.
L’aria, spesso, non si accorda alle cose.
Questo libro ha, come autore, chi lo legge e non lo fa morire.
Dove la complice influenza dell’altro e la vorace curiosità dell’uno si compenetrano: il testo apocrifo.
Vedi, se te lo consentirà la corrente.
L’origine è allontanare da sé la propria origine.
Eco di io multipli, l’io.
Libri non come frecce ma come trivelle.
***
Le tenebre plurali, la notte unica.
I prigionieri si avvicinano veloci all’esecuzione annunciata.
Non che la testa faccia male ma quel senso di orrore che preme le tempie.
Nessuna tregua. Vivere è impossibile.
Canto per spiazzare il mio assalitore.
Ammutolire, in mezzo alla folla, e sperare che il proprio silenzio la contagi.
Si potrebbe provare indifferenza anche per la voce di Tom Waits?
Scrivo per non ferirmi di più.
Non riascolto. Evito di respirare. Preparo la cena, ma non per me.
Certe carnagioni stupefacenti tolgono la voglia di rappresentare la bellezza.
Il mare attraversato, troppo mobile, pericolosamente immenso.
Ogni cecità, quando non sia veggenza, è incapacità di vedere.
***
L’arte, quando è iperbole o spoliazione, arriva al cuore di sé.
Se appaiono dei lampi, la valle diventa silenziosa.
Il rumore che immagini quando si aprirà la porta.
Si nasce da una carenza. Si arriva a una metamorfosi.
Ripeto con le mie parole le idee degli altri, perché diventino mie.
Le nuvole mutano sempre. Non come le pietre, o come certi deliri.
Uno sconosciuto giudica pazzo lo sconosciuto che gli sorride.
Perché mi sveglio come se qualcuno avesse dormito dentro di me?
Ci sono dei tramonti, da qualche parte del mondo, che non riesco ad immaginare.
I sordi lo sentiranno risuonare, il colore?
Non ci sono che immagini. E, alla fine, non si riesce più a vedere nulla.
Si lavora nell’ombra, osservando le radici.
***
Camminare con la testa sempre voltata.
Fa notte. Inizio a scrivere nella pagina che non vedo.
Il miraggio rende le cose fantasmi credibili.
Quando non si sogna, le notti sono troppo buie.
Aveva l’incubo di cadere nel mondo.
Non si tenne eretto per una forma di vendetta contro gli uomini.
La scrittura non libera dalla scrittura.
Ci sono ricordi che, inutilmente, attribuiscono a me.
La pagina è scura, e da riscrivere sempre.
Ci sono abissi che solo chiudendo gli occhi dimentico.
Si scrive soli e al buio, mai essendo adulti.
Se un sogno è segreto allo stesso sognatore, può essere ancora sognato.
Solo i venti si oppongono all’aria.
***
L’artista vive dentro un sonno vigile, da cui trasfigura il mondo.
Se l’idea è originale, la lingua si adatti all’idea, trovando forme nuove.
La poesia vive nel sonno che ne matura il risveglio.
Le parole, scritte e riscritte, non pérdono energia.
Ogni poesia reale è una fulminea distruzione/ricreazione del mondo.
Le verità sono soprassalti.
Una visione del mondo senza commenti, sonomama, cioè «così com’è».
Invecchiare significa arrendersi alle risposte.
Trascorse gli anni a raccontare gli incubi della mente materna.
I veri artisti si nascondono attraverso le loro opere.
Attendere. Scrivere. Tornare ad attendere.
Menzogne da cui urgono verità.
***
Resto nella gioia di non capire.
Mi è accaduto di sentire messaggi precisi in lingue che non conoscevo.
E' vero ciò che ci travolge, ma di cui possiamo restituire una traccia.
Alla fine, avendo prodotto fantasmi, diventarlo.
Scrivere quanto basta a respirare.
Se un sogno è segreto allo stesso sognatore, può essere ancora sognato.
Poesia è tradurre in parola quanto sarebbe impossibile descrivere con il linguaggio.
Un libro di appunti è una casa in cui non ripararsi.
L'arte come non-vita che deve essere viva.
Ripeto, con le mie parole, le idee degli altri, perché diventano mie.
Uscire da una forma penosa, ma mobile, per entrare in una forma immobile, destinata a putrefarsi.
Il possibile che appare sulle rovine di ogni possibile.
***
Il poeta subisce il mondo come un universo già perduto, che potrebbe ritrovare con l'atto della parola.
Inventarsi una zona inabitabile, ed esserci.
Chi scrive esita a svegliarsi o a prendere sonno.
Non conciliante e non prevedibile, per eccesso di utopie, l’arte costringe ineluttabilmente a fallire.
La visione è l’inizio.
Arrivo alla metafora come un annegato rivede la superficie del mare.
Mai dubitare che la nostra arte non reinventi, fosse anche in un dettaglio, il mondo già creato.
Scrivendo mi allontano dall'uomo che sono stato prima di quelle parole.
Il turbamento non si oppone alla chiarezza. E' la chiarezza.
Nessun linguaggio, se è autentico, sa esprimere la veggenza.
I diversi zampilli nascono da una sorgente comune, avvolta nella stessa notte.
Nessuna vetta che le radici non vedano. La verità è consistenza.
Certi destini esigono determinati linguaggi.
NOTA
La prima parte di PER LA MANO SINISTRA è uscita su "Carte allineate", n. 17, in data 16-5-2008 (ERCOLANI, Marco, PER LA MANO SINISTRA, 1).
13/08/08
Cecilia Rofena, AGONICHE. SETTE VARIAZIONI SU SEMPLICI MOSSE INTERIORI. POESIE 2000-2005
Verona, Anterem Edizioni, 2007
Un lavoro che torce le parole, le rivolta, le spreme, le scompone e le monta in maniera differente andando a cercare non il senso canonico, ma guardando fra gli interstizi, quasi che il significato fosse un ponte gettato fra sillabe pressoché omofoniche: “Vespero l’inghiotte crepuscolo, \ vespro della beata amicizia, \ valetudini d’onore e valore \ vale all’oblio della notte ostacolo”. Senso è ciò che vive ovunque, che alligna sui sonori confini, che penzola fra i versi, che s’annoda ove sono cesure. Sonorità flautate e desuete ci portano a cavallo di un’onda a percorrere marine distanze in pochi istanti, quanto dura la lettura di dieci versi non avari, una volta che l’onda ci abbia deposti sulla riva, di profitto: abbiamo compreso poetico senso, abbiamo riallacciato attraverso il suono le vie dei sensi che parevano interrotte, abbiamo riattivato significati che giacevano inerti, non più tentati. Non è forse in questo che consiste il vero lavoro della conoscenza in senso lato: creare/riattivare legami e relazioni che parevano cosa morta o inutile o semplicemente cosa non ancora veduta? “e nuova la sera sopravviene \ lo sguardo d’alabastro traspare \ un senso che prende per mano \ la musica avvicinando”. E Cecilia Rofena li saggia tutti i modi per far scaturire dalle cose sfiorate dallo sguardo il suono interiore che si fa corporeo. E qui sarebbe facile per noi dire che il suono che esala fluente dalle poesie della Rofena sia coincidente con quello che proviene dalle stesse cose osservate. Il rumore delle onde del mare è altro dalla sonorità che le parole tessono. Che siano riconoscibili come simili è un miracolo che avviene raramente. Nella poesia della Rofena accade, appunto. E accade senza che mai vi sia rinunzia a un significato individuabile con precisione, senza che mai vi si rinunci ai valori sintattici. È attraverso il suono che avviene quella impalpabile lievitazione di significati che dal senso precipuo espande nell’aria la propria farinosa sostanza disegnando ulteriori costellazioni di senso. Corre obbligo sottolineare come la poesia della Rofena sia una poesia armata di tutto punto, una solida costruzione concettuale: “eterno è il mutamento, natura \ è vivere a tempo, infine \ paterno è insegnamento, \ storia è infanzia \ verità del tempo”.
E se poesia è sempre autobiografia, quella di Cecilia è intessuta di ricordi che vengono da trascorsi secoli, da ambiti antichi, fusi eppure individuabili al tempo stesso. E, in particolare, all’interno dei generici ambiti culturali, s’individua frequentemente presente l’ambito geografico, dove la geografia si fa leggendo i luoghi, ascoltandone i rumori, riconoscendo la traccia umana: “Mani a raccogliere i frutti \ giri interrotti fra cielo e terra \ salenti dirupi, salienti scambi \ fra nubi e numi i sentieri”. Né ultimo in ordine d’importanza è il colloquio continuo e inesauribile, indifferente alla soluzione unitaria che riassorba in sé i concetti opposti, tra dimensione metafisica e dimensione fisica. Vi è, infatti, un dialogo incessante, nella nostra esistenza, fra l’anelito a sentire l’infinito e l’ancorarsi agli episodi quotidiani, ma entrambi i due estremi provengono dalla medesima natura e dunque la Rofena, sulla scorta della lezione di Wittgenstein, mostra che a saper vedere si scorge che tutto non solo può coesistere, nella descrizione, ma che può combaciare se sappiamo attuare un’esperta mediazione, non totalizzante, non mai esaustiva, fra natura, cultura, percezione, sentimento e ragione: “Eppure l’onda ricorda \ e a volte sprofonda \ più fonda la verità accorda \ al reale carità e fonda \ da sola la realtà \ eolica corda”. Ecco, dunque, che il lavoro del poeta è ricreazione del mondo che abitiamo, poiché fa del mondo di uno solo il mondo di tutti.
[Rosa Pierno]
DUE POESIE DI CECILIA ROFENA
1.
IN ESISTENTE
Infinito
sciogliersi
nel petto
finissimo
pianissimo
trama
a perdersi in fondo
un soffio d’alito breve
ripetersi basso e alto
trema
si spezza il fiato
infinito anelito
oltre se stesso
perdersi di nuovo
l’uno per l’altra
perdersi in iato.
2.
DACCAPO
Eterna mente
Sempre l’eterno ti sfugge
e apparti frammenti di te,
d’eventi, d’istanti, secondi.
Rammendi le parti.
Rammendi le parti,
attendi i ricordi distanti,
parti frante, spiaggia
dell’onda di memoria
bagna la riva che ti tocca,
ricorda l’io, s’infrange
e trabocca di sensi,
segni, segui sempre
il sempre vivente
non si spegne l’eterno
rifulgere t’affonda
d’ora in ora, d’ora in poi
rifugge l’onda e sempre
riafferri il senso,
luce che t’inonda
è aurora, rintocca
e inventi l’eterno
ora per ora,
sempre di nuovo,
sulla tua bocca.
NOTA
AGOGICHE di Cecilia Rofena è vincitore del Premio Speciale della Giuria Opere Scelte - Regione Veneto.
Un lavoro che torce le parole, le rivolta, le spreme, le scompone e le monta in maniera differente andando a cercare non il senso canonico, ma guardando fra gli interstizi, quasi che il significato fosse un ponte gettato fra sillabe pressoché omofoniche: “Vespero l’inghiotte crepuscolo, \ vespro della beata amicizia, \ valetudini d’onore e valore \ vale all’oblio della notte ostacolo”. Senso è ciò che vive ovunque, che alligna sui sonori confini, che penzola fra i versi, che s’annoda ove sono cesure. Sonorità flautate e desuete ci portano a cavallo di un’onda a percorrere marine distanze in pochi istanti, quanto dura la lettura di dieci versi non avari, una volta che l’onda ci abbia deposti sulla riva, di profitto: abbiamo compreso poetico senso, abbiamo riallacciato attraverso il suono le vie dei sensi che parevano interrotte, abbiamo riattivato significati che giacevano inerti, non più tentati. Non è forse in questo che consiste il vero lavoro della conoscenza in senso lato: creare/riattivare legami e relazioni che parevano cosa morta o inutile o semplicemente cosa non ancora veduta? “e nuova la sera sopravviene \ lo sguardo d’alabastro traspare \ un senso che prende per mano \ la musica avvicinando”. E Cecilia Rofena li saggia tutti i modi per far scaturire dalle cose sfiorate dallo sguardo il suono interiore che si fa corporeo. E qui sarebbe facile per noi dire che il suono che esala fluente dalle poesie della Rofena sia coincidente con quello che proviene dalle stesse cose osservate. Il rumore delle onde del mare è altro dalla sonorità che le parole tessono. Che siano riconoscibili come simili è un miracolo che avviene raramente. Nella poesia della Rofena accade, appunto. E accade senza che mai vi sia rinunzia a un significato individuabile con precisione, senza che mai vi si rinunci ai valori sintattici. È attraverso il suono che avviene quella impalpabile lievitazione di significati che dal senso precipuo espande nell’aria la propria farinosa sostanza disegnando ulteriori costellazioni di senso. Corre obbligo sottolineare come la poesia della Rofena sia una poesia armata di tutto punto, una solida costruzione concettuale: “eterno è il mutamento, natura \ è vivere a tempo, infine \ paterno è insegnamento, \ storia è infanzia \ verità del tempo”.
E se poesia è sempre autobiografia, quella di Cecilia è intessuta di ricordi che vengono da trascorsi secoli, da ambiti antichi, fusi eppure individuabili al tempo stesso. E, in particolare, all’interno dei generici ambiti culturali, s’individua frequentemente presente l’ambito geografico, dove la geografia si fa leggendo i luoghi, ascoltandone i rumori, riconoscendo la traccia umana: “Mani a raccogliere i frutti \ giri interrotti fra cielo e terra \ salenti dirupi, salienti scambi \ fra nubi e numi i sentieri”. Né ultimo in ordine d’importanza è il colloquio continuo e inesauribile, indifferente alla soluzione unitaria che riassorba in sé i concetti opposti, tra dimensione metafisica e dimensione fisica. Vi è, infatti, un dialogo incessante, nella nostra esistenza, fra l’anelito a sentire l’infinito e l’ancorarsi agli episodi quotidiani, ma entrambi i due estremi provengono dalla medesima natura e dunque la Rofena, sulla scorta della lezione di Wittgenstein, mostra che a saper vedere si scorge che tutto non solo può coesistere, nella descrizione, ma che può combaciare se sappiamo attuare un’esperta mediazione, non totalizzante, non mai esaustiva, fra natura, cultura, percezione, sentimento e ragione: “Eppure l’onda ricorda \ e a volte sprofonda \ più fonda la verità accorda \ al reale carità e fonda \ da sola la realtà \ eolica corda”. Ecco, dunque, che il lavoro del poeta è ricreazione del mondo che abitiamo, poiché fa del mondo di uno solo il mondo di tutti.
[Rosa Pierno]
DUE POESIE DI CECILIA ROFENA
1.
IN ESISTENTE
Infinito
sciogliersi
nel petto
finissimo
pianissimo
trama
a perdersi in fondo
un soffio d’alito breve
ripetersi basso e alto
trema
si spezza il fiato
infinito anelito
oltre se stesso
perdersi di nuovo
l’uno per l’altra
perdersi in iato.
2.
DACCAPO
Eterna mente
Sempre l’eterno ti sfugge
e apparti frammenti di te,
d’eventi, d’istanti, secondi.
Rammendi le parti.
Rammendi le parti,
attendi i ricordi distanti,
parti frante, spiaggia
dell’onda di memoria
bagna la riva che ti tocca,
ricorda l’io, s’infrange
e trabocca di sensi,
segni, segui sempre
il sempre vivente
non si spegne l’eterno
rifulgere t’affonda
d’ora in ora, d’ora in poi
rifugge l’onda e sempre
riafferri il senso,
luce che t’inonda
è aurora, rintocca
e inventi l’eterno
ora per ora,
sempre di nuovo,
sulla tua bocca.
NOTA
AGOGICHE di Cecilia Rofena è vincitore del Premio Speciale della Giuria Opere Scelte - Regione Veneto.
11/08/08
Ivonne Bordelois, ETIMOLOGIA DELLE PASSIONI
[Tamed lion. Foto di Marzia Poerio]
Titolo originale ETIMOLOGÍA DE LAS PASIONES, 2005. Milano, Feltrinelli, 2007
Le parole che indicano le passioni rivelano nell'etimologia le loro concezioni originarie, che sono poi variate nel tempo in relazione alle ideologie che le connotano, ma riscoprirne le origini etimologiche può contribuire a capirne meglio le connotazioni oltre che il luogo di valorizzazione o presa di distanza che esse hanno avuto nella storia della filosofia: dall'essere ritenute "cancro della ragione" da Kant e "infermità dell'anima" da Platone, all'idea di Hegel che "nulla di importante nella storia si realizza senza passione" (p. 1).
Il termine stesso passione viene fatto risalire da Bordelois alla radice sanscrita eis, collegata a concetti di impeto e movimento (da lì per esempio il latino ire), legata all'idea della collera a sua volta pertinente alla sfera del sacro e del delirio profetico (come dimostrerebbe la derivazione di estro, cioè desiderio intenso, da eis). A queste parallela si delinea un'origine, anch'essa indoeuropea, nella radice men, da cui il greco menis e manis, ovvero l'ira come quella dell'Achille dell'ILIADE omerica, ma di nuovo, pure per questa via, in positivo la profezia (la manteia o divinazione) e la manía nelle accezioni negative.
Un ulteriore collegamento è con la sfera erotica, che si chiarifica ulteriormente nell'analisi dell'origine di amore, partendo dal termine indoeuropeo ma (madre), legato al nutrimento da parte di costei, col che pare confermato per via etimologica anche il rapporto freudiano tra erotismo e nutrimento.
Esaminati nel testo vari aspetti di passioni chiare come l'allegria e scure come la gelosia.
In chiave contemporanea, l'autrice vede un movimento verso il raffreddamento di alcune passioni originarie; ma anche una trasformazione postmoderna delle passioni calde in commercializzazione, così è il mutamento dell'ira in violenza; si è persa l'origine sacra; si valutano ormai positivamente invidia e avarizia.
Uno studio interessante, scritto con chiarezza divulgativa, sull'intreccio tra parola e società.
[Roberto Bertoni]
09/08/08
Augustus Young, BEMUSEMENT
[Book and the mirror (From the walls of Imperia). Foto di Marzia Poerio]
The professional ethic in employing muses for literary purposes is avoidance of intimacy. As observed by Dante Alighieri with Beatrice (Bice Portinari), and Henri Beyle (Stendhal) with Metilde. In Dante’s case it was virtuous, in Henri’s willful. Metilde wouldn’t have minded a fling (he made her laugh), but he was too busy writing a book, DE L’AMOUR (1822), about her resistance to his pleadings, while enjoying the mature charms of Madame Pasta, an opera singer who, when she sang IL CIMENTO to a full house at La Scala, made him think she was publicly celebrating ‘the cementation’ and not ‘the ordeal’ of love, for his Italian was as unreliable as my French. Dante’s poetical pursuit of Beatrice outlived Bice Portinari by thirty years.
Dante first sees Beatrice when she is eight and he is nine. A little girl dressed in soft crimson and a girdle that Giotto used to grace the waist of his Ognissanti Madonna. He goes out of his way to see her in the street, accompanied by maidservants. Each time she passes by, he says a prayer. This is how he started writing poetry. Then one afternoon he encounters her dressed in white and chaperoned by two grand ladies. His ange du passé is a slender young woman. She turns around and greets him with a smile that fills him with such joy he has to go home and tear up all his stupid poems. That night he dreams of a little girl in crimson with a Giotto girdle blossoming into a bride-to-be, Simone Bardi’s, and weeps until his are red. Next day he starts on his life’s work, to compose poetry as never had been offered to any woman before.
LA VITA NUOVA explains what Dante had to do. Find a new language and a state of mind untrammeled by mundane distractions, so a heaven could be created around his love. Only once did they met eye to eye. Though there were little hands flutters when her husband, Simone Bardi, flaunted her to his old school mate. Six years LA VITA NUOVA began to take shape. Signora Bardi died in childbirth and became Beatrice, the Blessed Virgin of his PARADISE.
The story of a muse is a myth drawn together from fragments of archeology. In the case of Stendhal’s Metilde the pots and pans are historically documented, as Henri Beyle kept notes, with diagrams. Metilde Viscontini Dembowski died four years after he published DE L’AMOUR, and he inscribed the date on the flyleaf of one of the many unsold copies, ‘1 May 1825, the death of the writer’ (in English). He contradicted himself in his notebook. ‘I spent most of my life trying to make peace with people. Now I rest in peace with myself… Her death marks the death of my illusions… I think I have found a found a subject that I am equal to.’ Metilde had been the muse perched on his shoulder as he wrote DE L’AMOUR.
Passion had made him tongue-tied in her presence. This obliged him to make a French fool of himself. He become ‘a man of wit’, which was not difficult for him. Drops of blood forming on the blade of the guillotine inspired him to remark, ‘I don’t know how many days afterwards I couldn’t eat meat’, and an army officer ‘decorated at Waterloo retired to become a roué and had so many women that he had become sincere on the subject’.
Henri amused Metilde, and kept his higher feelings for DE L’AMOUR. When she died at thirty five she haunted his profane comedies. LE ROUGE ET LE NOIR and LA CHARTREUSE DE PARME needed a worldly-wise woman in his ear as a ready reference. Not being pure at heart was Stendhal’s genius: his acceptance that knowledge and ignorance are the two sides of the same coin. He continued to amuse his âmes sensibles (the happy few) with his autofictions, the MEMOIRS OF AN EGOTIST. And MY LIFE AS HENRY BRULARD.
I wonder, though, what Metilde thought of DE L’AMOUR? I’m sure someone smuggled it into the prison her house became when she was arrested by the Austrians for being an Italian nationalist. ‘What a lucky escape’, I think. She would not have any time for his sublimations. But Henri had the good taste not to play with the analogy between the May Day death of his revolutionary love, and the ‘death of his illusions’. He had outgrown the muse of DE L’AMOUR, but not Metilde, whom he could not honestly include in his list of thirteen women ‘that I loved, more or less’ (MY LIFE AS HENRY BRULARD). Though he did.
Henri took things more personally as he got older. Whenever he heard the bell of the church in Grenoble, where as a boy he saw his mother’s dead body, he clenched himself in the grip of ‘a dull, dry, emotionless sorrow that is neighbour to anger’. He never lost faith in the republican ideals of his youth (and grandfather), anymore than his love of music and Shakespeare. ‘Napoleon as was (before he crowned himself Emperor) and Cimarosa, Mozart and Shakespeare. These are the names I want on my gravestone, a marble slab in the shape of a playing-card.’ This epitaph is on the flyleaf of my copy of the MEMOIRS OF AN EGOTIST.
Beatrice and Metilde smile on their Dante and Stendhal ‘from the balconies of the heavens’ in the DIVINE COMEDY and DE L’AMOUR, but receive in return ‘the smirking regret’ of posterity (Baudelaire). It is not beyond imagination that it might have been otherwise. If Stendhal had less wit and more sense, and Dante was not bent on transforming prayer into poetry, they might have married their muses. How many children had Beatrice and Dante or Henri and Metilde? Beatrice died at the peak of her fertility, carrying the child of Simone Bardi, who bullied little Dante in school. Would she have survived if it had been a little Dante? Metilde, not in her first flush, would certainly have tried for a son to fight for the Carbonari. As it is, we have to content ourselves with the poetry and two great novels. Dead muses have a purpose in life.
07/08/08
Francesco Macciò, L'OMBRA E LE COSE: DUE POESIE
[From the Parodi hills: tramonto. Foto di Marzia Poerio]
1.
PER EQUORA
Di un tronco nodoso
il riflesso lungo la sfera
più chiara dell’acqua,
tra le palpebre stanche
a filo sull’acqua il riflesso
di un tronco ritorto
che al largo scompare…
la Colchide d’oro, il taglio
di ghiaccio dei monti di Atlante.
Al largo le sierre innevate
le creste celesti cerchiate
di ghiaccio, mentre risale
grumosa la sera nell’occhio
più bianco del lago
2.
L’ALTRA SPONDA
All, all are sleeping...
Non era bene sistemarli là
più nessuno da anni
discende in quel verde franoso
e l’acqua quando si ingrossa
come rocce sbriciolate
li trascina a valle nel torrente
se li porta via in minuscole
lamelle lucenti sul fondo
che nel cielo rivelano gli uccelli
neri in giri lenti
in giri lenti un cerchio
di ombre risalgono leggere
sul finire di ogni giorno
e di ogni contesa e rimangono
intorno a un fuoco tardi fino a sera
a parlare piano di noi ancóra
giù nel mezzo della corrente
noi che in parole semplici
non sappiamo immaginare
nemmeno più una preghiera
una preghiera lungo il filo
fuori uso che ci guida all’altra sponda
dove il bosco ricopre tutto
e si raccoglie
nel cavo di una mano lo stupore
di quest’acqua indifesa
NOTA DELL’AUTORE
La poesia L’ALTRA SPONDA fa riferimento ai Boschetti, un luogo ormai inaccessibile o irriconoscibile nell’intrico della macchia, presso le sorgenti dello Scrivia, nel comune di Torriglia. Un remoto progetto prevedeva di edificare in quel luogo il nuovo cimitero del paese. Ma il progetto fu poi abbandonato, in quanto i Boschetti, oltre che malagevoli, si rivelarono geologicamente instabili.
Le due poesie di questa pagina sono tratte da L'OMBRA CHE INTORNO RIUNISCE LE COSE, Lecce, Manni, 2008, sulla cui quarta di copertina si legge:
“Cose custodisce lo spirito dei luoghi di una Val Trebbia romana, pagana, monastica, ma anche terra di transizione e di frontiera.
E tuttavia, nel dissolvimento di un’identità originaria, nel rifluire di voci rasoterra, dallo zero, dalla cenere che il fuoco ha lasciato, la poesia densa e stratificata di quest’ultima raccolta di Francesco Macciò è anche memoria di un dono, riflesso di una visione che non si specchia in se stessa, ma dice tutto il suo disagio e il suo splendore”.
05/08/08
Michele Ranchetti, POESIE SCELTE EDITE E INEDITE
["If one writes, one does not live". Is this an epitaph for writing, or rather for living?. Foto di Marzia Poerio]
Michele Ranchetti, POESIE SCELTE EDITE E INEDITE, Verona, Anterem Edizioni, 2008,
Aggettivi. Si entra nel libro di Michele Ranchetti, accolti da un susseguirsi scenografico di aggettivi: breve, lungo, vivo, chiaro, cauto, fermo, quasi una danza che nelle sue figure svela ciò che era in posizione arretrata e, tuttavia, lo nasconde al passo successivo. D’altronde, i sostantivi che sostengono tale aggettivazione: idea, mano, luce, mente, gioia, paura, presenza e assenza svelano che esiste un movimento fra astratto e concreto, che costituisce la struttura portante della visione di Ranchetti. Il movimento elicoidale di aggettivi e sostantivi produce l’assoluta equivalenza dell’astratto e del concreto. Ci troviamo così a valutare con Ranchetti che terra e caduta, ardore e morte, violenza e diritto si palesano con la medesima valenza, a nulla vale la loro distinzione metodologica, poiché nella vita, nella percezione, nella rappresentazione tutto si mescola in un solo luminosissimo polverone di barocca memoria: “nubi della ragione”, appunto. Se tutto è riconducibile all’essere, tutto è riconducibile alla formalizzazione di tale essere. Ragione e sentimento costituiscono i poli tra cui si attua il dialogo tra una vita vissuta consapevolmente e una vita male intesa. Precetti, indicazioni morali tracciano il percorso, poiché un percorso giusto esiste, anche se fra mille insidie. In fondo l’errore è nella pretesa che le definizioni siano univoche, che le risposte siano esaurienti, che il percorso da seguire sia univoco. Ranchetti, a partire dalla denuncia di Wittgenstein dell’esistenza degli errori filosofici, formula una personale risposta, un suo personale tracciato formale, di ricerca all’interno della forma sintattica, che gli consente di consegnarci un diario esperenziale paragonabile alle scritture autobiografiche di Sant’Agostino e di Ignazio de Loyola.
Il tempo è una componente essenziale del percorso che si attua attraverso la rappresentazione. La forma ha per suo contrappasso la percezione (di sé e dell’altro) che si attua ripetendosi. Richiamare alla mente ciò che è stato percepito, riproponendolo come rappresentazione senza che l’oggetto esterno sia ancora presente, consente a Ranchetti, sulle orme di Freud, di ritrovarlo, di convincersi che è ancora presente. In questo consiste la modalità di un movimento del pensiero che rende conciliabili concreto e mentale, fisico e metafisico, pur in un anacronismo della contingenza.
Se si scrive non si vive. Se si è in presenza di scrittura, si è in assenza di vita, eppure questa serve a quella e viceversa. Non si convoca la morte all’interno della scrittura poiché sede sperimentale? Scrivere è esperire anche l’impossibile, il paradosso. È farsi carico dell’intersezione fra i limiti stessi delle cose. Movimento a elica crea una schiuma di parole che fa da ponte, capace di sostenere, lì dov’è la frattura fra elementi e concetti eterogenei, il corpo dell’essere umano.
[Rosa Pierno]
DUE TESTI DI RANCHETTI
1.
Il vivo e il morto sono i soli viventi
alla cui lotta assisto: precaria
categoria che libera la folle
decisione all’intendere: vivere
a un solo termine, pietà
per quanto rimane, sola
dottrina il mirabile: acquisto
rivalità di estremi innaturale:
a questo cede la prossima salute
di domini verbali e la passione
dell’uno contro l’altro vive.
2.
I
La previsione non può avverarsi se coincide
con il presente: la poesia si annulla
nell’esistente, la ragione penetra
solo nell’oggi.
II
La previsione non si avvera nell’esistente,
come a volo trascende questa sorte, si libera
d’essere necessaria e conferma
ogni cosa ogni volta se il confronto
non ha misure
III
La ricerca scompare nella sabbia
come il rivolo d’acqua che si estingue:
se riappare è per altri e tu che guardi
vedi solo la fine di un tragitto.
poi vedi l’acqua ferma.
NOTA
Il testo qui recensito è vincitore del Premio Speciale della Giuria Opere Scelte – Regione Veneto.
03/08/08
Santiago Montobbio, PARÁBOLA Y CENIZO
1.
PARÁBOLA DEL DISTRAÍDO DE TODO
MENOS DE LO MÁS HONDO DE SÍ MISMO
Tengo mucha imaginación, pero en general no la uso.
De mi propio infierno no huyo.
Para qué va a contar uno historias
que no tengan que ver con uno:
en todo dolor hay algo mío.
PARABLE OF THE ONE DISTRACTED BY EVERYTHING
EXCEPT THE DEEPEST PART OF HIMSELF
I have much imagination, but in general I do not use it.
I do not run from my own inferno.
Why tell stories
that have nothing to do whith me:
in all pain there’s something mine.
(Translated by Kathleen Kirk and Tony Rio)
2.
CENIZO COMO DE PROFESIÓN HE SIDO
he de decir no obstante
que conocí la vida, que recuerdo miradas
con vocación de lagos y también el modo
en que volvías crecida
para mi amor la dicha, aquella
campana oscura
que no teníamos
y la extraña risa
de la vida en
vida.
Después la derrota no nos deja ni cornisas
y así resulta que el ser (que sólo
es ser con otro) para siempre
es sido.
Pero aunque muy común se hace en él
la cobardía del olvido
todavía alguna tarde
madrugadas tengo
si en tu nombre abrazo
lejanías.
A BRINGER OF MISFORTUNE BY PROFESSION
yet I can say
that I have known life, I remember looks
that could have swelled to lakes, the way
you nurtured happiness,
returned it for my love –
dark bell
we never owned,
mysterious laughter
of the life in
life.
Now even the cornices have crumbled
and being (which can only be
with others) for evermore
has been.
But though a cowardly forgetfulness
is spreading through it all,
some evenings I can still
possess the dawn,
embracing in your name
the distances.
(Translated by Rod Riesco)
PARÁBOLA DEL DISTRAÍDO DE TODO
MENOS DE LO MÁS HONDO DE SÍ MISMO
Tengo mucha imaginación, pero en general no la uso.
De mi propio infierno no huyo.
Para qué va a contar uno historias
que no tengan que ver con uno:
en todo dolor hay algo mío.
PARABLE OF THE ONE DISTRACTED BY EVERYTHING
EXCEPT THE DEEPEST PART OF HIMSELF
I have much imagination, but in general I do not use it.
I do not run from my own inferno.
Why tell stories
that have nothing to do whith me:
in all pain there’s something mine.
(Translated by Kathleen Kirk and Tony Rio)
2.
CENIZO COMO DE PROFESIÓN HE SIDO
he de decir no obstante
que conocí la vida, que recuerdo miradas
con vocación de lagos y también el modo
en que volvías crecida
para mi amor la dicha, aquella
campana oscura
que no teníamos
y la extraña risa
de la vida en
vida.
Después la derrota no nos deja ni cornisas
y así resulta que el ser (que sólo
es ser con otro) para siempre
es sido.
Pero aunque muy común se hace en él
la cobardía del olvido
todavía alguna tarde
madrugadas tengo
si en tu nombre abrazo
lejanías.
A BRINGER OF MISFORTUNE BY PROFESSION
yet I can say
that I have known life, I remember looks
that could have swelled to lakes, the way
you nurtured happiness,
returned it for my love –
dark bell
we never owned,
mysterious laughter
of the life in
life.
Now even the cornices have crumbled
and being (which can only be
with others) for evermore
has been.
But though a cowardly forgetfulness
is spreading through it all,
some evenings I can still
possess the dawn,
embracing in your name
the distances.
(Translated by Rod Riesco)
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