["Clear (of?) land". (Westport 2015). Foto Rb]
Antonio Pibiri, Chiaro di terra. Postfazione di Davide
Zizza, Forlì, L’arcolaio, 2016
La
fotografia di Saul Leiter, Ana, scattata
a New York nel 1950, e scelta per la copertina del libro di Antonio Pibiri Chiaro di terra, mostra il viso della
donna illuminato solo in parte, mentre il resto è in ombra. Saul Leiter considerava le sue fotografie come
frammenti di possibilità senza fine e questa spiegazione sembra dirci qualcosa anche
di quest’opera di Pibiri in cui i dettagli paiono ridotti all’osso,
all’essenziale, eppure rimandano sempre a altre esperienze, a altre possibilità.
Il titolo della raccolta contiene in sé un’immagine astronomica: con
l’allineamento del sole con la terra e la luna,
e prendendo come punto di riferimento quello lunare, si può assistere, come
hanno potuto fare gli astronauti in orbita nello spazio, alla visione del
nostro pianeta illuminato dal sole, all’immagine della terra che risplende nel cielo. Il chiaro di luna è
sostituito dal chiaro di terra, i dettagli vengono a essere giustapposti a una
visione cosmica e ciò che la terra rappresenta, il basso, l’ombra, sembra
essere fortemente attratto verso l’alto.
I
dettagli e le possibilità senza fine si presentano sin dalla scelta dell’epigrafe
iniziale di Cesare Viviani in cui si auspica un ritorno alla casa madre: “Tutti
ritornano alla casa del Padre. Mai qualcuno che tornasse alla Casa della Madre”.
Questo sembra il percorso che bisogna compiere accompagnati non dal chiarore
lunare, ma dalla luce che nasce sulla terra o che dalla terra proviene. La luce
è quella della poesia, della fotografia, della pittura, forme artistiche in
grado di fermare riflessi essenziali, di creare forme che continuano a
moltiplicarsi di significato, parole che si mescolano a esperienze complesse e
essenziali di vita e di morte in cui si rinfrangono: la vita biologica, la vita
nei fondali marini, il mondo vegetale e animale, la vita umana che pare allontanarsi
dalle sue origini terrestri, ma che in esse risprofonda affondando nell’oceano dell’inconscio.
Il
ritorno alla casa della madre è una discesa verso il regno della madre o delle
madri, eppure la prima immagine con cui si apre la raccolta poetica indica una
strada in salita, anticipata da un’altra epigrafe di Alessandro Ceni, “C’erano vaste zone di vento,
poi niente”. L’attenzione viene a
focalizzarsi su un unico elemento naturale, il vento, richiamando la dimensione
cosmica, il vuoto cosmico, uno spazio geografico in cui oltre al vento sembra
non esserci niente. Chi lascia la via
maestra e si incammina in salita con “daini e stelle”, si porta addosso i
camagli, le protezioni di ferro con cui i guerrieri medioevali proteggevano la
testa, è un soggetto plurale, un “noi” che indica una dimensione collettiva che
si sposta dalla condizione abituale per assurgere all’ “ovile consacrato” in
cui sembrerebbe compiersi un rituale di sacrificio, mentre nel buio sprofondano
i fari notturni e le “case perdute che eravamo”.
Una
delle tante possibilità che si possono percorrere per ritrovare la casa materna
perduta pare essere offerta dall’esperienza della scrittura che l’autore compie
servendosi di quaderni di diverso colore: un quaderno nero per l’”odio in carriera”, un
quaderno verde per il tropismo delle piante e appunti musicali, il bianco per
pungiglioni d’angeli, il rosso per la
vita della carne, il quaderno blu per la penombra della stanza e il quaderno
color terra tabacco corda e legno per il ritorno alla casa della madre.
Il componimento Due epiloghi su tela, diversamente si interroga sulla luce fissata
dalla pittura: al risvegliarsi dal sonno geologico dopo la salita, al ritorno sulla terra con gli occhi “riacuti”,
fatti più acuti nella capacità di vedere.
Dal
sonno geologico
da
mura senza albe ci svegliamo per
comprendere che anche la montagna
con
il suo paesaggio conficcato
o
sepolto di vocazioni stanziali
le
vicende istoriate
non
rimane.
Da
pendici inizia la danza
vorticosa
sale a staccare la cima.
Poi
eccoci – qui per terra
dopo
tanto giungere a noi,
dopo
gli occhi riacuti.
Il
flauto in asse alla luna
nella
selva del Doganiere.
*
“Chi
ha occhi non aspetti occhi!”
Cercali i caduti. Scavarli nei fossi,
due
con l’ombra, due lacune.
-
Punti luce, i cavi scoperti, i fuochi
inerti
–
Non
seguire in coda le torme
a
rana o striscianti sul ventre
errare
le porte. Si allargano
sul
dettaglio –quanti –
a vanvera a tempera
i
ciechi di Bruegel.
Le
immagini del componimento sono racchiuse tra due tele, L’incantatrice dei serpenti di Rousseaux il Doganiere e I ciechi di Bruegel, la prima in cui il
flauto, lo strumento musicale fondamentale nell’esperienza di Antonio Pibiri
che è musicista e compositore, è in asse con la luna e si riflette di luce
lunare, la seconda in cui i ciechi stanno per cadere uno dopo l’altro nel fossato
trascinati dal primo compagno che ha perso l’equilibrio. Le due tele sono separate dalla frase in
discorso diretto: “Chi ha occhi non aspetti occhi”. C’è dunque la visione lunare e la mancanza di
visione degli occhi ciechi che sembrano comprendere in sé, al centro del
componimento, la responsabilità affidata all’individuo nel guardare.
Rousseaux
il Doganiere e Bruegel sono due dei tanti artisti e pittori chiamati in causa
nel libro, Pibiri sembra far camminare il lettore all’interno di un suo
personalissimo museo, come aveva già fatto Antonella Anedda con i quadri
adorati del Catalogo della gioia, e
con i frammenti de La vita nei dettagli e di Isolatria in cui di nuovo la
poetessa si è soffermata sui mondi fermi dei pittori da cui è bandita
la tempesta, come nella carta topografica di Elisabeth Bishop. Qui Pibiri,
attraverso il lunare incanto solitario legato alla musica e il capitombolo nel
vuoto di Brügel, sembra avvisare che tra le varie possibilità di visione il
poeta deve evitare di seguire le torme cieche e scegliere una via solitaria che
però è stata additata da altri artisti.
Il
biografo annota, valuta i traumi attraverso pochissimi riferimenti biografici,
mai riferiti a un io, e subito la nuova
epigrafe di Herberto Helder porta in
primo piano l’esperienza del poeta portoghese
che ribadisce l’importanza di creare parole nuove, l’arma innamorata, e prega
contro la certezza della pena, che pare
incorporare l’esperienza del padre (“Un padre non si accorge di te”), cui si
oppone il sogno che permette psicoanaliticamente di uccidere il padre per arrivare “alla felicità del sembiante”. Come quella di
Helder la scrittura ha bisogno di pigmenti naturali e penne d’oca, di cigno e
di airone, la sola esperienza praticabile, ribadisce Pibiri, che riesce ad
avvicinarsi alla terra.
Un’altra
epigrafe (“fuori dal limbo non v’è l’eliso”), tratta dall’Isola di Arturo di Elsa Morante,
rimanda alla disillusione dell’adolescente che ha conosciuto la vita solo
all’interno dei confini dell’isola e si trova di colpo proiettato in mondi che
non conosce e che lo respingono. Ma qual
è l’isola di Antonio? Si potrebbe pensare alla Sardegna in cui è nato, invece l’isola
ha confini molto più ristretti: è l’Asinara dove da bambino ha trascorso la
prima infanzia e da cui è stato allontanato per poter andare a scuola. L’isola è insieme paradiso e carcere, luogo della
assoluta libertà infantile, e nello stesso tempo spazio di reclusione, casa protesa
verso immensi orizzonti e insieme prigione, penitenziario in cui la pena si espia
stando all’aperto, alla luce.
In
Res derelicta, la terra sacra, la
prima immagine è quella di un abbandono: il cotonificio è sollevato al sole dalle
radici del ficus e del vino, ma quell’immagine pare anche un ricordo o souvenir
interrogato in sogno, quindi un ricordo onirico che ripropone la distinzione
tra l’essere sempre sveglio, il tempo della coscienza, e il tempo del confronto
con l’inconscio: con occhi “meravigliosamente chiusi”. È la memoria sprofondata nella dimenticanza dovuta alla
perdita.
Il
vecchio cotonificio abbandonato nel regno.
Le
radici del ficus e del vino lo sollevano al sole
rompono
la linea retta lì sull’attenti
Per
il garbo di Dio.
Un
dove interrogato in sogno, souvenir
che
appartiene a nessun tempo.
Pietre
in equilibrio la sua certezza.
Non
uno sbavo di seme umano
dentro
il perimetrale.
Di
quei ruderi mio sovrano,
tutto
il tempo sveglio ma con occhi
meravigliosamente
chiusi.
*
Un
aranceto piantato nell’incolto
stretto
da pianterreni a invaso.
La
notte puoi vedere i suoi frutti per terra:
splendono
tra le erbe, nel segreto crespo
di
foglie, e cerchioni arsi in ruggine
(
o era la grande ruota di Duchamp?).
Non
di scorze al suolo l’impressione
ma
tonde lanterne colme di sé, pleiadi,
lampadine
da uno scampanio di ghiere
e
per sortilegio ancora in vita nel buio.
La
bio-luminescenza che radia
una
natura morta, nella stanza
sempre in ombra
del padre.
Vanno
soli a dormire
in
piantagioni notturne
per
il latte caglio dei papaveri.
Con
sé il giallo ocra
ripiegato
nelle tuniche,
i
sacri colori di Bisanzio –
Malgrado
il sonno e i veleni,
non
pensare al Cristo di Holbein:
senza
speranza giace.
“Ma
tu mi svegli se muoio?” dice il bambino.
Pur
distante l’amore
ci
tiene a fuoco nel suo chiaro
mirino,
e per la stessa ragione
bucata
di luce la testa
riprende la ruota
delle mani.
Nuovo
stare al mondo
alle
diecimila creature
come
la più piccola parte.
Pur
nel paesaggio notturno i frutti dell’aranceto sparsi per terra splendono tra le
erbe come lanterne, mentre una domanda racchiusa tra parentesi ripropone
l’immagine di un’opera d’arte, La grande
ruota di Duchamp, in cui una ruota
di bicicletta è fissata su uno sgabello mettendo in congiunzione e in
contraddizione la stasi di chi sta seduto e il movimento, lo spostamento nello
spazio della ruota della bicicletta. La ruota che non si può muovere è
accostata al dipinto di Holbein del Cristo morto rappresentato prima della
resurrezione il cui corpo presenta già segni di decomposizione: A queste due
condizioni si giustappone la domanda del bambino che si confronta per la prima
volta con la morte: “Ma tu mi svegli se muoio”. La conclusione del componimento mostra la
complessità dei giochi di luce e di ombre e evidenzia la possibilità di un
nuovo movimento e di un nuovo stare al mondo.
La
prima sezione della raccolta, in cui sono richiamati i nomi di artisti come il
giapponese Hokusai, dell’americano Cornell e l’epigrafe di Etty Hillesum, si
conclude un’immagine vitale fissata dallo scatto di Leonard Freed, quella dei bambini di Harlem che giocano con l’acqua
che sprizza intorno:
Una
pompa d’acqua fuori controllo per la pressione
picchia
convulsamente sull’asfalto. La coda del
drago.
Ma
il sole esaspera, e i bambini di Harlem accorrono
seminudi,
saltano divertiti tra le sferzate gelate,
in
festa per il refrigerio.
Gli
adulti intorno li guardano
con
in mano le pietre
del
disdegno.
Nelle
altre due sezioni, Visioni dell’ultimo
e Le mani per terra, in cui prosegue serrato
il confronto con altri artisti, da Kokoschka a De Chirico, Ida Travi,
Sinisgalli, Stevens Auden e altri, si intravede nella prima l’immagine della
casa percorsa dai venti, nella seconda quella dell’isola ritrovata.
Hai
suonato i flauti
notte
di vento
con
la mia casa.
Imbracci
premendo la lingua
Contro
il bordo dei vani, gli abbaini,
le
microfessure tra porte e finestre,
le
trombe tibetane sotto il pavimento.
Dai
luce così a un quadrante irrisolto,
assolo
notturno – di frontiera alla
serie
cronica di sempre le
stesse
parole.
Quel
vento lo stesso dio
dato
per apparso
una
volta
per
tutti.
La
vista dell’isola è affidata alle onde di Wellen,
in cui con l’immagine dei ciclisti viene ripresa l’immagine della ruota della bicicletta,
questa volta libera di ruotare, mentre sembra venir meno la parola pronunciata
a voce alta, e prevalere un silenzio carico di gesti che vuole a tutti i costi
comunicare. Ritorna anche il soggetto
plurale, il “noi” del componimento iniziale:
Sul
traghetto per l’isola con noi
una
comitiva di ciclisti sordomuti
l’inquieta
boscaglia dei gesti.
Non
emettono alcun suono.
Sono
smorfie? Sorridono.
Stiamo
tornando dove l’origine
è ignota. Ingenui. Stiamo tornando
con
il mare.
Dove
il Santo e le capre
a
uno sgomento apparire
ci
ricoprono d’oro, di vita selvatica, linnea.
L’odore
del letame sulla via
non
spaventa, somiglia alla terra.
Abbiamo
avuto la stessa opportunità
di
morire, negli anni, degli anni.
Come
ora. Chi più? Chi
meno?
[Rossana
Dedola]