09/05/18

Nicola Curzi, NUCLEO NON ATTINTO


[Genoa 2018. Foto Rb]


Nicola Curzi, Nucleo non attinto. Roma, Aletti, 2018



Nucleo non attinto è il secondo liber poetico a firma di Nicola Curzi, già autore della raccolta Lo scorrere e il rifluire (Sena Nova, 2010) e di altre liriche singole, apprezzate in competizioni letterarie nazionali e apparse in volumi collettanei.

Il titolo della raccolta esibisce a chiare lettere il tema cardine delle poesie in essa contenute, ossia il negativo e la mancanza di senso, che vengono ribaditi, anche se declinati su piani tematici diversi, nei titoli delle tre rispettive sezioni che compongono la silloge: I. Segmento interrotto, II. Calore incompiuto, III. Trasfigurazione mancata. Questi quattro sintagmi, identici per struttura sintattica (sostantivo più aggettivo di senso negativo), costituiscono nella loro sequenza quasi altrettanti capitoli di un percorso narrativo interno al libro e palesano l’ossatura argomentativa che poi le singole liriche (33 in tutto) si incaricano di dimostrare ed esemplificare: la precarietà di significato, la sfiducia nella totalità, la mancanza di un approdo certo nel percorso di senso compiuto dall’io lirico. Il “nucleo non attinto” è infatti per Nicola Curzi l’impossibilità di raggiungere la verità delle cose, l’incapacità di attingere a una dimensione profonda dell’esistenza che dia pienezza di senso al mondo e al soggetto che lo percepisce. Come recita uno dei tanti versi marmorei che puntellano il dettato di Curzi, “il mondo accade e basta”, la realtà si apre al soggetto senza una certezza definitiva da offrire, ricca solo di “assoluti sgretolati”, e l’io esiste in “un involucro di buio”, impossibilitato a raggiungere una comprensione totale di sé e del mondo. Il cuore stesso del poeta è un “vento immutabile e muto”, un elemento incapace di entrare in risonanza piena con il mondo e che può quindi limitarsi solo a registrare l’incompiutezza del reale.

L’assenza di certezze gnoseologiche e di pienezza vitale viene percepita dal poeta di Senigallia attraverso tre esperienze esistenziali diversi: l’impossibilità di una conoscenza esatta nel rapporto con il reale, sviluppato nella prima sezione, l’incontro con l’altro da sé, che domina la seconda parte, e l’incapacità di cambiamento, con conseguente passaggio dall’azione all’inerzia, che è il tema su cui si chiude il trittico. A questo io lirico mosso alla conoscenza del mondo a tratti sembrano aprirsi degli squarci possibili di senso, dei “varchi” che montalianamente accendono la speranza di attingere alla verità sulle cose (e il verbo che apre la raccolta, “balugina”, sembra rimandare proprio al Montale del Piccolo testamento), ma a differenza del poeta ligure, in Nucleo non attinto nessuna di queste possibilità riesce a concretizzarsi in un’opzione concreta di salvezza e queste ipotesi di senso sono costrette a rimanere interrogativi senza risposta. Anche l’incontro con l’altro, con una figura femminile che fa la sua prima esplicita comparsa nella lirica Lasciai uno spiraglio fioco, non determina una svolta esistenziale e non dà accesso a una sfera più autentica, collocata al di là della “corolla del contingente”: anche dopo l’unione con lei, che viene descritta con potenti immagini sintetiche di corporeo e spirituale, l’io rimane un “cuore di cartapesta” e l’amore un sentimento non totalizzante, esperibile solo “a brandelli”.

Questo stato di incertezza, di mancata adesione a una verità superiore è dunque il tema che informa tutte le liriche della raccolta e che si riflette anche sul piano dello stile. Saldamente incardinate sulla tradizione novecentesca del verso libero, le liriche sono costituite per lo più da versi brevi giustapposti in paratassi tra di loro e hanno un ritmo franto, un andamento discontinuo, rotto da frasi secche, incisive, che sembra mimare l’incapacità di un discorso totale sulla realtà e la rassegnazione del pensiero alla caduta inesorabile di ogni illusione. La cifra distintiva dello stile di Nicola Curzi è il vasto dispiegamento di sinestesie e di arditi accostamenti analogici che si riscontra in ogni testo (“spighe screziate di buio”, “scaleno d’orge”, “occhiate di carezze” alcune delle più memorabili), nei quali tuttavia non va ravvisato un mero repêchage tardo-simbolista ma un’esigenza espressiva più complessa. Più che testimoniare le capacità superiori di un poeta veggente in grado di raggiungere il cuore delle cose, i virtuosismi analogici vengono utilizzati dal poeta marchigiano per trascrivere sul piano verbale l’assurdità del reale, materializzare nel testo l’esperienza di mistero indecifrabile che l’io ha nel confronto con il reale.

In conclusione, Nicola Curzi, per quanto alle prime esperienze di scrittura di una silloge in sé conclusa, si pone agli occhi dei lettori come un poeta maturo, dotato di un bagaglio concettuale solido e ben delineato e consapevolmente imparentato con una tradizione tutta novecentesca di ‘stile oscuro’ che però nei suoi versi non cede mai alla ambiguità fine a sé stessa, ma è strutturato da un sapiente controllo degli strumenti espressivi ed è sempre incardinato, anche nel testo più breve, in un preciso percorso argomentativo. Una summa, per stile e per contenuto, di tutta la raccolta è la lirica seguente, che, attivando un interessante dialogo con il più noto carme di Orazio, si presenta come uno dei vertici di Nucleo non attinto, collocato forse non a caso nel centro geometrico del libro:

“Tentasti infine i calcoli babilonesi
e nel ghigno del loro responso
leggesti un eterno presente,
un’immanenza piatta e ultima.

Era il grigio costante
non infranto dalla linea eburnea
che discrimina i sì dai no.

Odio abitarti,
abitarti è un tepore 
incapace a dischiudersi”.



[Luca Zipoli]