30/04/10

CARTE ALLINEATE. Numero 39, Aprile 2010 / Issue 39, April 2010

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INDICE ALFABETICO / INDEX

Le voci elencate qui sotto senza il nome dell'autore sono state scritte da Roberto Bertoni. Foto di Marzia Poerio / Entries listed below without the name of the author were written by Roberto Bertoni. Pictures by Marzia Poerio.

- ACCERBONI, Laura, IO RITORNO E GUARDO; IO STO; VI DICO. Testo, 19-4-10.
- AMENÁBAR, Alejandro, AGORÀ. Storie di film di Renato PERSÒLI, 27-4-10.
- BONOMO, Annalisa, LA TRADUZIONE INTERSEMIOTICA DI THE LORD OF THE RINGS. Riflessione, 23-4-10.
- CONA, Cristina, LA LINGUA IDEALE. Riflessione, 9-4-2010.
- DATTANI, Mahesh, MORNING RAGA. Storie di film di Renato PERSÒLI, 5-4-2010.
- FENG Lin, JIAN Zhao, KEMIN Huang, PALADINS IN TROUBLED TIMES. Storie di film di Renato PERSÒLI, 11-4-10.
- HOU, Yong, MÒ LI HUĀ KĀI. Storie di film di Renato PERSÒLI, 21-4-10.
- MAROTTA, Francesco, IL VERBO DEI SILENZI. Note di lettura di Rosa PIERNO, 29-4-10.
- MEDEA DI EURIPIDE E DI PASOLINI. Appunti, 15-4-10.
- MONTOBBIO, Santiago, EL ANARQUISTA DE LAS BENGALAS. Testo, 3-4-2010.
- ORACLE. Fotografia e versi di Marzia POERIO, con commento, 1-4-10.
- PIZZI, Marina, L'INVADENZA DEL RELITTO [50-59]. Testo, 7-4-10.
- ROBERTI, Rossana, MATERNALE. Note di lettura di Piera MATTEI, 13-4-2010.
- THE BOLLYWOOD READER, a cura di DESAI, Jigna e DUDRAH, Rajinder. Storie di film di Renato PERSÓLI, 27-4-10.

29/04/10

Francesco Marotta, IL VERBO DEI SILENZI

Spinea (Venezia), Edizioni del Leone, 1991

Che il silenzio renda nudi è metafora terribile a cui Francesco Marotta consegna valore più che metaforico, simbolico, nel suo non recente, ma non per questo archiviabile libro IL VERBO DEI SILENZI. Titolo quanto mai esplicativo della disamina che vi si conduce e della lotta che vi si ingaggia. Silente sta per nudo. Se non si può articolare, posizionare, confrontare, sviluppare con il linguaggio, si sta di fronte al mondo nudi, inermi. Ma silenzio può anche essere utile strumento per analizzare il funzionamento del linguaggio, in una sorta di esperimento. Infatti, persino la semplice fonazione, articolazione più prossima all’afasia totale che alla parola, può essere considerata appiglio, inizio, possibilità. L’articolazione in fonemi pare, inoltre, trovare analogia nella frammentazione del reale, nella parcellizzazione dei fenomeni, in quella frantumazione con cui la realtà si manifesta e che solo noi riconduciamo, o almeno ci proviamo, a unità. “Riflessi come in un occhio / sbarrato” a cui corrisponde “Un verbo che impone la memoria / stretto dentro il pugno.” A rimarcare che l’interpretazione e la classificazione non dipendono solo dalla volizione, ma sono attività necessarie: non se ne può fare a meno. Potremmo forse qui essere autorizzati a pensare che è proprio questo che caratterizza l’attività del poeta.

Il lavoro irrinunciabile del poeta porta in evidenza un fiotto di cose fratturate e scollegate, di faglie e scoscendimenti. Marotta impone per un istante il silenzio a se stesso solo per liberarsi dalle griglie già precostituite che il linguaggio porta con sé: elementi spuri, rovine, orpelli, per fare respirare la realtà, percependola prima di fissarla attraverso la lingua: “La notte non frappone / più mura / tra ombra e sole. / Cancellata la lingua / che con voci di creta / tende reti di nomi”. Tuttavia, se Francesco restituisce “geometrie di ore”, “trame di luce”, “margini sottratti”- in questa desiderata sospensione linguistica – ciò equivale già a una confessione: non solo dalla lingua non si esce, ma egli stesso produce una lingua che letteralmente crea la realtà. Siamo qui nel poderoso alveo della grande tradizione che usa la poesia come indagine sui mezzi conoscitivi, importante quanto poco frequentato. Ci si avventura su queste perigliose acque solo dopo aver maturato un’esperienza forgiata attraverso una lunga confidenza con gli strumenti filosofici. Ma non è certo questa, di Marotta, una poesia che fa la parafrasi di una o più teorie filosofiche. Uno dei mezzi più sicuri per rendersene conto è l’assoluta mancanza di termini tecnici e di sponde o sassetti che servano a rendere riconoscibile la propria appartenenza/aderenza a un precipua teoria filosofica. Anzi, la quasi totalità delle parole presenti si riferiscono a oggetti appartenenti al piano dell’immanenza: dimora, pietre, acqua, luce, lampo, terra, maree, specchio, luce, fuoco, venti. Solo si può dire che la sensazione che si ricava dalla lettura è quella di avere a che fare con oggetti presenti nel pensiero, i quali per questa sola ragione sembrano astratti.

È una poesia il cui pensiero sfrigola come acqua in una padella di olio bollente e pur tramando la realtà si sottrae per fare spazio a una ricomposizione in cui le parole tessano relazioni non logiche, imprevedibili. “Silenzio / - alfabeto dolente del pensiero.” Francesco s’immerge nel fluire della natura: altro tema possente con cui questa silloge si confronta. “Ognuno modella la selce / dei suoi giorni. / A immagine di alfabeti senza labbra / le schegge / che franano il respiro”. Il silenzio utilizzato anche per dare voce alla natura, per farla risuonare ed echeggiare nell’interiorità. Ma una natura in cui il poeta inventa “cieli nell’argilla”, in cui rileva che la pietra ha “carne e voce”, oppure in cui ci sono “Radici che emergono dal lampo / che rischiara i solchi / lungo gli anni”, è una natura esistente solo nel linguaggio. E infatti: “dormono acque assenti / di una lingua che nessun nome / accoglie”. Se qualcosa non è nominabile è assente. Resta solo l’operazione inversa come una prova del nove: “Rigonfia di ogni voce / che senza parole / ascolta”.

La poesia non manca, attraverso i suoi specifici modi, di essere al tempo stesso anche una dimostrazione: “Parole. Dimorano la notte / delle mie labbra. Ne esploro / i sentieri. Le reti.” La natura come lingua, è colei che ascolta ciò che il poeta dice. Non è la quadratura del cerchio, quantunque l’obiettivo fosse un’azione impossibile da compiersi ed estenuante da porsi. E’ un risultato ottenuto come distillazione, è ciò che si è percorso districandosi tra intrecci apparentemente insolubili. E’ ciò che la poesia ottiene di distinguere. E’ il verbo che emana dal silenzio: la nitida, insopprimibile voce che scaturisce dalla poesia.

[Rosa Pierno]

27/04/10

THE BOLLYWOOD READER

A cura di Jigna Desai e Rajinder Dudrah. Maidenhead, Open University Press, 2008


Il volume contiene saggi di impostazione accademica di parecchi autori ed è suddiviso in tre parti: THEORETICAL FRAMEWORKS, RECENT TRAJECTORIES, BOLLYWOOD ABROAD AND BEYOND. Si inserisce nella corrente di rivalutazione di Bollywood e di analisi delle sue ideologie, dei procedimenti formali, delle storie e di altri aspetti da parte della critica universitaria dopo il rigetto da parte dell’intelligentsjia indiana e no, durata parecchi anni e che ha relegato il cinema popolare indiano tra le maglie della cultura popolare esclusivamente. Non che questo tipo di cinema non sia tale, ma necessita in verità di un’attenzione notevole, non fosse altro per il fatto che ha il pubblico più vasto del pianeta, oltre che, almeno a parere di chi scrive, molti dei suoi prodotti, forse non i più recenti, sono forniti non solo di potere di intrattenimento, bensì anche di riflessione e commozione.

Nell’Introduzione, THE ESSENTIAL BOLLYWOOD, i curatori mettono in evidenza come l’egemonia occidentale e di Hollywood nel mondo dei media e negli studi culturali abbia messo in secondo piano il cinema indiano; parallelamente gli studiosi indiani non hanno ingaggiato un’analisi approfondita, snobbando il genere di massa fino a decenni recenti. Viene anche chiarito che il termine Bollywood è piuttosto recente e sostituisce i precedenti “cinema di Bombay”, poi Mumbai, e cinema popolare indiano o di lingua hindi. Si tratta di una storia piuttosto lunga se in India il cinema esiste dal tempo dei fratelli Lumière.

Le interpretazioni spesso fornite comprendono il rapporto di intertestualità rispetto a Hollywood, la ripresa delle tradizioni narrative indiane in generale e del teatro Parsi in particolare, ma al contempo, notano Dusai e Dadrah, occorre considerare che “Indian cinema has been heavily invested in the production of modernity as well”, per esempio nella rappresentazione dell’emancipazione femminile in certi casi (p. 5).

Particolarmente dibattuta la questione del rapporto col colonialismo e il nazionalismo. Se la potenza coloniale britannica si rese conto fin dall’inizio dell’impatto del cinema e pose restrizioni, spesso i film popolari hanno contribuito a rafforzare, dopo l’indipendenza, la concezione della nazione e le sue varie visioni, trasmettendo ideologie della società, della famiglia, della politica. Lo stato esercita la censura sui film prodotti, ma solo di recente ha liberalizzato l’industria cinematografica (1998) e nel 2001 l’ha ufficializzata.

Se uno dei generi, per l’eclettismo, è stato battezzato “masala” (p. 10), esistono sottogeneri, “including the historical, the family social, the gangster/underworld, and the courtesan" (p. 11).

Sottolineato da parecchi critici è il carattere non realista, melodrammatico, composito quanto a compresenza di commedia, dramma e canzoni.

Proprio sulle canzoni, che spesso diventano elementi autonomi dai film in cui sono inserite e motivi di successo di per sé, intervengono Sangita Gopal e Biswarup Sen, che indicano come le canzoni non siano semplicemente elementi di fuga aproblematica, ma componenti della specificità di Bollywood rispetto al cinema occidentale; vettori dell’immaginazione e del fantastico dato che spesso intervengono in sequenze oniriche nella narrazione; depositarie di uno sguardo non di rado “turistico” a causa dell’esotismo delle località in cui talora sono ambientate (p. 151); infine, di recente, momenti non privi di una qualche volgarità che allo stesso tempo si presenta come modernizzante: “modernity is encoded in texts not only by historicist representations of its encounter with tradition […] but also by the irruption of the new and the joyous” (p. 155).

Tra gli altri saggi del volume, tutti di impegno ideologico e solerzia analitica, seguendo non una presunta validità maggiore, ma preferenze personali di argomento e approccio teorico, e menzionandone solo alcuni per il breve spazio a disposizione, si segnalano Ashis Nandy, INDIAN POPULAR CINEMA AS A SLUM’S EYE VIEW OF POLITICS; Parama Roy, FIGURING MOTHER INDIA: THE CASE OF NARGIS; Nicholas B. Dirks, THE HOME AND THE NATION: CONSUMING CULTURE AND POLITICS IN ROJA.


[Renato Persòli]

25/04/10

Alejandro Amenábar, AGORÀ


["That mask was looking at us impassively" (From the walls of Dublin). Foto di Marzia Poerio]


Alejandro Amenábar, AGORÀ. 2010. Sceneggiatura di Alejandro Amenábar e Matéo Gil. Con Oscar Isaac, Ashraf Barhom, Michael Lonsdale, Max Minghella, Rachel Weisz


"Il fanatismo le ha cambiato il volto, la deforma in tutte le ossa", dice un personaggio, Gregorio, a proposito della città di Alessandria del quarto secolo nel testo teatrale LIBRO DI IPAZIA di Mario Luzi [LI, p. 50] [1]. Sono state dimenticate la poesia e la filosofia; e il potere predomina coi giochi politici e il fanatismo che, "infido, travolge chi vi si affida / non meno di chi vi si scontra" [LI, p. 54]. In questo contesto, "le cose che ci accadono intorno / sono spesso grandi e terribili: / Quando gli eventi ci sovrastano / ogni nostro piccolo gesto appare inadeguato e vano" [LI, p. 52].

Riconosciuto dagli editti imperiali il cristianesimo come religione di stato, si determina una situazione di conflitto tra la comunità cristiana e quella pagana, che sfocia in una serie di avvenimenti cruenti, tra i quali la lapidazione di Ipazia, intellettuale che difende la filosofia ellenica e "imperversa, provoca con la sua foga l'ira di molti" [LI, p. 65].

Luzi delinea, tramite le parole di Gregorio, la situazione conflittuale che si determina ad Alessandria: "Gli idolatri alzano la testa e credono nella riscossa; / i patrizi, i mercanti del porto fiutano un vento di rivincita; / i cristiani provocati attizzano i proponimenti di vendetta e distruzione" [LI, p. 67].

Ipazia rappresenta un pericolo per il cristianesimo trionfante proprio perché, rivalutando la tradizione filosofica pagana, si oppone ai nuovi poteri costituiti. Combattiva, l'Ipazia di Luzi crede nella "forza redentrice della nostra voce di scienza e di ragione" [LI, p. 74].

Se nell'opera di Luzi la figura di Ipazia domina con la propria presenza culturale e di testimonianza, ella resta stranamente assente in quanto personaggio recitante, anzi appare direttamente solo in una scena, peraltro decisiva; e il dialogo si svolge soprattutto tra i rappresentanti della chiesa e dell'Impero e il discepolo di Ipazia, Sinesio, sui destini del tempo e delle esistenze.

Ipazia è così significativa, eppure resta in larga misura un’astrazione, dato che di lei, storicamente, non si sa più di tanto. Le testimonianze ne rivelano alcune posizioni culturali e la morte tragica.

Amenábar, nel film AGORÀ, che ha per tema la storia di Ipazia, rende Alessandria concreta con un'interessante ricostruzione architettonica, utilizzando gli strumenti virtuali quanto quelli classici e cercando un'autenticità delle proporzioni degli edifici e dei movimenti delle persone al loro interno. Attualizza il senso dello spazio, unendo il microcosmo al macrocosmo con riprese che salgono dalla terra agli strati soprastanti, il che, oltre a essere un'allusione allo sguardo astronomico di Ipazia, suggerisce una lente temporale, un movimento dal passato all'oggi, forse.

Nel film, Ipazia insegna soprattutto astronomia e difende la libertà di pensiero, la tolleranza, una visione pacifista dei rapporti con gli antagonisti e l'indipendenza femminile. Sul piano personale si contendono il suo affetto, da cui resta equanimamente schiva, lo schiavo Davo, che ella libera e che si unisce ai cristiani (finirà col soffocarla perchè non venga lapidata da viva) e il prefetto e allievo Oreste, che si converte al cristianesimo solo per opportunità politica, ma non è in grado di salvare Ipazia dalla morte per mano dei parabolanti, setta fanatica di monaci. L'incendio dei libri (del Serapeo come sarebbe più storicamente attendibile? O della Biblioteca vera e propria, che però sarebbe avvenuto secoli prima?) è qui a opera della setta che combatte anche gli ebrei e giustizia sommariamente Ipazia, la quale incarna un simbolo di libertà culturale e di razionalità.

Le allusioni a problemi contemporanei di conflitti interreligiosi sembrano piuttosto patenti. C'è una tendenza a rovesciare gli stereotipi (mostrando, insomma, "di che lacrime grondi e di che sangue" l'ufficialità del potere). Cirillo (santificato e dottore della Chiesa nella realtà storica) è qui il leader dei fanatici.

Se per gli esterni e le architetture, cui si accennava sopra, AGORÀ ha un versante modernizzante (ma fortunatamente non spettacolare in senso deteriore come in alcune ricostruzioni recenti dell'antico), è al contempo piuttosto teatrale per i testi delle parti dialogate e le posture dei corpi degli attori in tali situazioni; frattanto, però, la dinamica delle sommosse ha un'iniziativa propriamente cinematografica.

Diciamo che è un film da vedere.

Che giudizio ne diamo? Ben costruito, ipotizza sui vuoti della biografia di Ipazia; e, se situa gli ambienti in una dimensione credibilmente antica, non segue una storicità troppo scrupolosa nei concetti e nei comportamenti; piuttosto, anzi, questa dimensione è attualizzante; eppure costringe a pensare e a discutere, magari per dissentire oltre che per concordare.


[Renato Persòli]


NOTE

[1] Milano, Rizzoli, 1078, abbreviato in LI.

23/04/10

Annalisa Bonomo, LA TRADUZIONE INTERSEMIOTICA DI THE LORD OF THE RINGS

Bisogna tener presente che, “come in fondo accade per tutti i generi, ma in questo caso in forme più estese, il genere fantastico si contamina con altri, così che possiamo agevolmente distinguere nel cinema melodrammi fantastici, commedie fantastiche, avventurosi fantastici e polizieschi fantastici” [1].

La trasposizione del neozelandese Peter Jackson non rappresentò il primo tentativo di trapiantare l’imponente macchina narrativa di J.R.R. Tolkien dalla letteratura al cinema ( si pensi, per esempio, alla versione animata dell’opera datata 1978 e diretta da Ralph Bakshi). Del resto è pur vero che “il fantasy è un genere letterario meno adatto di altri a una trasposizione cinematografica” [2].

A chi continua a proporre il 1977 quale data di riferimento dell’ingresso del fantasy al cinema, con STAR WARS, proiettato in anteprima mondiale negli Stati Uniti, non si può che ribattere affermando che il film del californiano George Lucas non rappresentò altro che la perfetta fusione di fantasy e fantascienza, di una sorta di “fantasy nello spazio” lontano dal tradurre la purezza del genere fantasy stesso.

Il cinema, poi, ha da sempre proposto uno spazio istrionico e potenziale in cui si rivela possibile la coesistenza di differenti domini, codici e linguaggi tipici dell’incontro/scontro con la trasmutazione segnica che regolamenta il processo di ogni traduzione intersemiotica; in particolare riferimento all’incontro con le forme del romanzo, la traduzione cinematografica dirige l’attenzione ora verso una possibile “intensificazione” del testo scritto ora in direzione di un’irreversibile “spersonalizzazione” dello stesso. Alla luce dell’ormai abusata distinzione proposta da Roman Jakobson nel suo saggio del 1959 dal titolo “On Linguistic Aspects of Translation” [3], tra traduzione endolinguistica, interlinguistica e intersemiotica [4], non si può non constatare come il contatto tra sistemi segnici differenti anche all’interno del medesimo universo linguistico riproponga il macro concetto di “traduzione” come spazio privilegiato di riflessione linguistica a trecentosessanta gradi. È poi vero che: “La traduzione intersemiotica, cioè fra segni appartenenti a sistemi diversi, è un’operazione cui continuamente ricorriamo. Si può dire che la composizione di un segno trovi generalmente il proprio completamento nel rinvio di quel segno a un segno di tipo diverso” [5].

La traduzione per il grande schermo della trilogia tolkeniana THE LORD OF THE RINGS, rappresenta per la nostra epoca una mirabile impresa translinguistica ed intersemiotica, intesa a condensare un’opera letteraria di più di 1400 pagine in una serie di sequel che presero avvio nel 2001 e si conclusero nel 2003 [6].

Nonostante i possibili casi di deletion (necessari a questioni di spazio-tempo intimamente connesse al mantenimento del plot principale) la sceneggiatura di THE LORD OF THE RINGS costituisce una tra le più fedeli mai adattate a partire da un tessuto narrativo tanto lungo. Nemmeno le numerose trasposizioni di Dickens, Tolstoj o quelle di altri tra i più noti autori del Novecento hanno mai raggiunto un tale grado di fedeltà dei tratti salienti di un simile intreccio.

Ciò che qui proponiamo è ricomporre alcuni tra i percorsi del passaggio dal testo originario sino alla sua rielaborazione filmica.

Il primo riguarderebbe il notevole ampliamento del ruolo di Arwen, figlia dell’Elfo Elrond, interpretata sulla scena da Liv Tyler, e della sua storia d’amore con il principe Aragorn, che se nella versione stampata veniva addirittura relegata ad una delle appendici, in quella in celluloide assume invece maggiore spessore proprio in merito al viaggio di Frodo, che la principessa incontra e salva (al posto dell’elfo Glorfindel, nel film del tutto assente) dall’attacco dei potenti Nazgul. Con ogni probabilità:

“L’aggiunta delle scene con l’attrice Liv Tyler (che immancabilmente dovevano essere numerose per motivi commerciali) non ha guastato tanto, anzi, ha colto un aspetto centrale della storia che altrimenti poteva rimanere nell’ombra: il tema della morte e dell’immortalità che emerge prepotentemente proprio attraverso le drammatiche vicende della storia d’amore tra l’Uomo Aragorn (…) e la dama elfica Arwen” [7].

Arwen diviene dunque il simbolo di un popolo, quello elfico appunto, fatto per Tolkien tanto di luce che di tenebre, di magnificenza e di mistero allo stesso tempo (gli elfi sono infatti capaci di guarire e colpire l’avversario con la medesima intensità).

La complessa rappresentazione delle straordinarie virtù della popolazione elfica non è però unicamente affidata alla principessa Arwen. È a Galadriel, catartica bellezza purificatrice, che spettano i panni dello specchio dell’animo umano (l’elfo è in effetti capace di leggere nel suo specchio d’acqua magico); i suoi occhi traducono in superficie i più reconditi ed inconfessabili desideri umani, denudandoli e scarnificandoli sino alla loro aperta confessione (Boromir cede alla volontà di rubare l’Anello a Frodo, proprio nel fatato bosco di Lorien).

Il secondo illustre assente è Tom Bombadill [8]. Il personaggio – ricordiamo - era l’unico a risultare immune all’influenza negativa dell’Anello. Il suo intervento era decisivo per la salvezza dei giovani hobbits durante il loro viaggio verso Brea: per tale ragione una volta salva Frodo, Pipino e Merry, imprigionati dal Vecchio Uomo Salice (anch’esso assente tra i personaggi del film), ed un’altra, salva i mezzuomini aiutandoli ad uscire dai Tumulilande.

Di lui e di tutti gli altri personaggi presenti in questa parte del libro (ovvero una buona parte del libro I), compresi Boccadoro e Fredegario, nel film non vi è alcuna traccia.

L’enigmaticità del personaggio risiederebbe alla base della scelta di Jackson di non inserirlo nella pellicola. A metà strada tra uno sfuggente spirito della foresta - simbolo del più intimo legame e dell’identificazione con la Natura - e un protagonista senza tempo della Storia - attraverso la quale conduce il lettore sulle ali dei suoi antichissimi ricordi - Tom Bombadill rappresenta l’emblema del folclore e della leggenda, del mito e della saggezza popolare che Jackson affida, invece, il più delle volte a Barbarbero e alla “popolazione” degli alberi parlanti. D’altronde, Tolkien non fece mai mistero della sua passione naturalistica e per gli alberi in particolare: “Trees are worthy of reverence (…). They embody (more than just symbolize) both continuity with life in and of the past, in the places and times in which they have slowly grown, and faith in its future, measured in the hundreds and in some cases thousands, of years they can live to [9]”.

Anche Gandalf e l’infelice creatura Gollum non risultano immuni dalla traduzione filmica di Jackson. Mentre all’interno dei tre romanzi, Tolkien affida al mago il compito di ristabilire costantemente il ruolo di ognuno dei protagonisti all’interno del progetto storico cui stanno prendendo parte, nel film, quest’ultimo si trova ad incidere più accidentalmente sulle coscienze dei nove componenti della Compagnia.

Alla maniera di un più classico Merlino, Gandalf riusciva, infatti, ad apparire e scomparire qua e là nella storia, rispondendo ad un’ormai proverbiale puntualità provvidenziale; il rapporto d’interdipendenza tra Gandalf e Frodo ripercorre, quindi, i sentieri della relazione “formativa” che aveva già marcato le dinamiche di Merlino ed il giovane Artù.

La storia cinematografica di schizofrenici alle prese con una doppia (o multipla) personalità traduce la sempre ambigua parabola del doppio, che all’interno della trilogia tolkeniana rintraccia in Gollum-Smeagol un bagaglio di trucchi ed illusioni che al cinema esplodono nella creazione computerizzata della creatura [10].

Nelle mani di Jackson, Gollum - nient’altro che un’infinita massa di pixel sul video di un computer - diventa il vero trionfatore della saga. L’arco drammatico del personaggio venne infatti dilatato: le tre personalità dell’ex hobbit - Gollum il “cattivo”, Smeagol il “buono” e Smeagol il “cattivo” sul Monte Fato - ormai corrotto irrimediabilmente dal possesso dell’Anello prolungatosi per oltre cinquecento anni, rappresentano i reali protagonisti specialmente dell’ultimo episodio della trilogia, THE RETURN OF THE KING, rivelando le tappe evolutive del classico passivo-aggressivo, la cui principale funzione risiederebbe nell’incunearsi tra i maggiori sensi di colpa dei suoi interlocutori.

La Nuova Zelanda di Jackson diventa poi il perfetto doppio della magica ed avventurosa Terra di Mezzo: la riproduzione delle tre colonne dei Re, gli Argonath, imponenti e maestosi insieme ai boschi di Lorien, al fosso di Helm, ai campi del Pelennor, hanno garantito allo spettatore la stessa intimità e la magia affioranti dalla lettura del libro.

Al rapporto poi tra Padron Frodo ed il fido giardiniere Sam, Jackson riversa molta attenzione. Pur “epurandone” i baci, le carezze e le profonde professioni di affetto che tradizionalmente legavano i cuori dei due hobbits [11], il movimento verso il grande schermo ripropone un legame che ha nulla o poco a che fare con l’ottica tradizionale di “servo e padrone” ma che molto, invece, rimanda all’intima e misteriosa interdipendenza tra “eroe e scudiero”, alla maniera di Don Chischiotte e del fido Sancho Panza, altalena penzolante tra follia e normalità, fantasia e realtà, natura e cultura.

L’affaire cinematografico dell’anello non può che concludersi con Christopher Lee nei panni di Saruman, saggio stregone decaduto per corruzione del Male. Proprio Lee fu l’unico tra i protagonisti della pellicola ad incontrare Tolkien in persona, in un pub della campagna inglese, durante gli anni della gioventù, senza però riuscire a trovare il coraggio di rivolgergli la parola.

Con la stessa intensità con cui Tolkien aveva rimesso i due potenti Istari (Gandaldf e Saruman) su di un’unica strada ed in lotta per il medesimo risultato, Jackson riesce a dar vita a due irresistibili vegliardi cinematografici che il popolo degli appassionati del genere faticherà a dimenticare: mentre Saruman, impadronitosi più di tutti gli altri delle astuzie del nemico, finisce col rimanerne irretito e a desiderarle per sé, Gandalf, al contrario, vede accentuarsi, nella volontà del regista, il suo passaggio da the Grey, stregone vagante, ramingo senza fissa dimora e dalla tunica rattoppata, a the White, ovvero allo stato di stregone guerriero, stratega delle vittorie finali, meno ironico ma più severo e deciso.

La rivisitazione di un mito come quello dell’anello del potere, intimamente connesso all’immagine del fanciullo divino messo a dura prova nella delicata fase dell’esistenza dedicata al divenire, partecipò comunque di un circuito che è quello commerciale governato dai mass-media, in cui “anche quando i mass-media diffondono i prodotti della cultura superiore li diffondono livellati e ‘condensati’ in modo da non provocare alcuno sforzo nel fruitore (…). In ogni caso anche i prodotti della cultura superiore vengono proposti in una situazione di completo livellamento con altri prodotti di intrattenimento” [12]. Secondo lo stesso Eco si tratterebbe comunque però di “un rinnovamento stilistico che spesso ha costanti ripercussioni sul piano delle arti cosiddette superiori, promuovendone lo sviluppo” [13].

Casi così eccellenti di traduzioni intersemiotiche (ripensiamo alle celebri rivisitazioni di Kubrick della LOLITA di Vladimir Nabokov, SHINING di Stephen King, BARRY LINDON di W.M. Thackeray, EYES WIDE SHUT da DOPPIO SOGNO di Schnitzler, o a quella de IL DISPREZZO di Alberto Moravia per opera di Jan-Luc Godard, sino alla MADAME BOVARY di Claude Chabrol, solo per citarne alcune tra le più famose) [14], che hanno incontrato le ragioni del mercato culturale scuotendone comunque le dinamiche, affidandosi alla sempre intrigante dimensione teorica delle relazioni tra le arti, partecipano a pieno titolo ai più moderni cultural studies che rintracciano ancora nella traduzione un elemento di misteriose equivalenze linguistiche e di interdipendenza tra le arti capaci di tradurre la comunicazione.


NOTE

[1] R. Campari, CINEMA: GENERI, TECNICHE, AUTORI, Milano, Mondadori, 2002, pp. 89-90.

[2] F. La Polla, autore dell’interessante introduzione ad una delle poche trattazioni monografiche sull’argomento, IL CINEMA FANTASY, di C. Aciuti, R. Esposito, Roma, Fanucci, 1985, p. 7.

[3] R. Jakobson, ON THE LINGUISTIC ASPECT OF TRANSLATION, in SAGGI DI LINGUISTICA GENERALE, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 56-64.

[4] Ibidem, p. 53.

[5] A. Ponzio, TESTO COME IPERTESTO E TRADUZIONE LETTERARIA, Rimini, Guaraldi, 2005, p. 50.

[6] Jackson diresse tutti e tre gli episodi distribuiti dal colosso della New Line Cinema.

[7] A. Monda / S. Simonelli, GLI ANELLI DELLA FANTASIA, Milano, Frassinelli, 2004, p. 258.

[8] A Tom Bombadill Tolkien aveva, invece, dedicato l’intera raccolta dal titolo THE ADVENTURES OF TOM BOMBADILL AND OTHER VERSES FROM THE RED BOOK, Londra, Allen & Unwin, 1962; trad. it, LE AVVENTURE DI TOM BOMBADILL, Milano, Bompiani, 2000. Il volumetto era destinato ad introdurre al suo pubblico di lettori uno tra i personaggi più emblematici della lore tolkeniana. Composta da sedici componimenti (tre dei quali - i numeri 5,7,10 - rintracciabili anche all’interno della trilogia) la raccolta rappresentò un vero e proprio esperimento di versificazione, dai colori della farsa e dello spirito burlesco. Il personaggio che diede il nome all’intero volume - picaresco abitante dei boschi - popola l’intrigante regno di Feeria, insieme a Goldberry (Boccadoro), The Willow-Man (L’uomo salice), The man in the Moon e numerose altre creature fantastiche.

[9] P. Curry, DEFENDING MIDDLE-EARTH: TOLKIEN, MYTH AND MODERNITY, Londra, Harper Collins, 1997, p. 67.

[10] Il personaggio di Gollum venne ricostruito sulla base di una somiglianza fisica con l’attore e doppiatore Andy Serkis, la cui voce e le cui movenze inchiodarono milioni di spettatori dinnanzi alla maschera di pixel alla ricerca del suo ormai proverbiale “tesssoro”.
[11] Sam arriva a pronunciare: “I love him” riferendosi a Frodo nel IV libro di THE TWO TOWERS.

[12] U. Eco, APOCALITTICI E INTEGRATI. COMUNICAZIONI DI MASSA E TEORIE DELLA CULTURA DI MASSA (1964), Milano, Bompiani, 2003, p. 37.

[13] Ibidem, p. 45.

[14] Per un più ampio riferimento alle relazioni tra letteratura e cinema si rimanda all’intero volume di N. Dusi, IL CINEMA COME TRADUZIONE. DA UN MEDIUM ALL’ALTRO: LETTERATURA, CINEMA, PITTURA, Torino, UTET, 2006.

21/04/10

Hou Yong, MÒ LI HUĀ KĀI


[By the tea house. (Shanghai, 1993). Foto di Marzia Poerio]


Hou Yong, MÒ LI HUĀ KĀI. Cina, 2004. Titolo della versione cinematografica in lingua inglese: JASMIN WOMEN; tratto dal romanzo di Su Tong, FUNÜ SHENGHUO (trad. it. VITE DI DONNE, Torino, Einaudi, 2008). Fotografia di Yao Xiaofeng. Musica di Li Ye. Con Joan Cheng, Jiang Wen, Lu Yi, Li Ye, Zhang Ziyi


Mò, Li e Huā del titolo sono i nomi delle tre giovani protagoniste, residenti a Shanghai e interpretate tutte e tre da Zhang Ziyi, ciascuna in una delle tre parti del film intitolate rispettivamente NONNA, MADRE, FIGLIA. L’attrice che recita nel ruolo della madre di ognuna è Joan Cheng. Va subito detto che uno dei pregi notevoli di questa pellicola è proprio l’interpretazione di queste due attrici di rilievo, Zhang Ziyi soprattutto, che qui esplica la vitalità di giovane proposta con talento anche in altri film (in particolare RITORNO A CASA e LA TIGRE E IL DRAGONE) e si cala in tre personalità simili e diverse, manifestando indipendenza, irrequietezza, turbamento come, a tratti, in 2046.

La prima parte è ambientata negli anni Trenta e forse si può dare una data più precisa dato che a un certo punto sembra di notare l’invasione giapponese del 1938. Nel laboratorio fotografico con casa soprastante della madre di Mò arriva un regista che, notata la ragazza, ne fa un’attrice nonché la propria amante con smacco della madre di lei, ma in seguito alla guerra cino-nipponica e per truffe compiute fugge a Hong Kong lasciandola con un figlio che lei ha rifiutato di abortire. Mò torna a vivere con la madre e l'amante di quest'ultima, il quale dopo vari tentativi sta un giorno per sedurre Mò quando la madre sopraggiunge. La madre, non resistendo al trauma, si uccide.

Nella seconda parte, ambientata negli anni Cinquanta, forse verso il 1956, Mò è la madre. Sua figlia Li si innamora di un operaio, lo sposa, tenta di vivere a casa di lui, ma per difficoltà dovute a differenze di abiti e consuetudini, vanno infine a risidere nell'appartamento della madre di lei. Li non può avere figli; la coppia adotta la piccola Huā. Li impazzisce, giungendo, senza alcun fondamento, in base a sue allucinazioni, ad accusare il marito di molestare la bambina. Il marito si uccide. Vittima della follia, Li scompare allontanandosi un giorno lungo i binari della ferrovia per seguire lo sposo deceduto. Huā cresce con la nonna.

Nella terza parte, si direbbe nei primi anni Ottanta, è Huā a innamorarsi dell’uomo sbagliato, un compagno di scuola. Si sposano. Egli completa gli studi in un’università lontana, non rientrando neppure d’estate. Infine va in Giappone e chiede il divorzio nonostante Huā sia già in attesa di un figlio. La nonna la invita ad abortire, ma Huā tiene il figlio.

In tutte e tre le storie, prevalgono il sentimento e la scelta personale della donna sulle convenzioni sociali e sulle ideologie, compresa quella comunista. Il ruolo degli uomini è in prevalenza negativo (non nel secondo episodio, però). Tra madre e figlia e nonna e nipote c’è un rapporto di solidarietà necessaria, ma anche di conflitto. Le anziane sono deluse dal passato e vorrebbero convincere le giovani a modificare ciò che il destino e la testardaggine offrono loro, ma le giovani agiscono ostinatamente di testa propria. Tra la maglie del fato si annida la tragedia; alle spalle di questa, la malattia mentale.

La continuità narrativa, oltre che dalle generazioni che si alternano, è garantita dall’unità di luogo (la casa di Shanghai e più in generale la città). La musica è ottimo accompagnamento dell’azione; anche in questo caso c'è un trait d'union, costituito da una canzone che ha per titolo FIORE DI GELSOMINO, in cinese MÒ LI HUĀ, cioè una combinazione dei nomi delle tre protagoniste [1]. La ricostruzione degli ambienti è accurata. La fotografia di Yao Xiaofeng, la scelta di tinte tendenti spesso verso il verde e con alternanza del chiaro e dell'oscuro, nonché una lentezza (ma non eccessiva) dei movimenti conferiscono sfumature poetiche.


NOTE

[1] Si tratta di una canzone popolare (ripresa tra l'altro in TURANDOT di Puccini). Cfr. 茉莉花, notizie e 茉莉花 in una scena del film.


[Renato Persòli]

19/04/10

Laura Accerboni, IO RITORNO E GUARDO; IO STO; VI DICO

1.

Io ritorno e guardo.
Penso
che solo metà
del volto
possa bastare
per queste strade
che non passano
per questi vetri
che riflettono
anche quello che oggi
manca
per abitudine
di ciò che resta.
Io ritorno e guardo
e nessuno si accorge
se allungo il braccio
e tocco il vago
che segue lo sguardo.


2.

Io sto
come sospeso
io sono
vestito di tutto
perfettamente incline
a questo
giorno
come ad ogni giorno.
Ma io sto
come sospeso
sul normale che
nulla accoglie
e sulla strada
che ancora
non vede
che io sto
come sospeso
ad aspettarla
immobile
da anni.


3.

Vi dico
che i fossi sono
ormai addormentati
sotto ciò che tranquillizza l’uomo
nelle sue vesti di ritorno.

Ora non è più l’andare
nuovamente e ancora
nell’eterno,
che non è più il restare
dei ritrovati.

Annegare nella terra
non è
che un voltarsi degli occhi
che si riprendono
al loro margine
naturalmente.

17/04/10

WHEELBARROW



Wars make victims, and the hope is that any war could finally disappear. All wounded have a right to treatment because they are human beings. The end should not justify the means.

[Foto e didascalia Marzia Poerio]

15/04/10

Roberto Bertoni, APPUNTI SU MEDEA DI EURIPIDE E DI PASOLINI

1. MEDEA DI EURIPIDE

Nella MEDEA di Euripide l’azione si svolge a Corinto, dove Medea e Giasone sono andati dopo la spedizione del Vello d’Oro nella Colchide e la tappa a Iolco ove Medea, per restaurare il regno nelle mani di Giasone, fa in modo con la magia che le figlie di Pelia (il re) lo uccidano. Questa e altre parti della storia sono rivelate dalla nutrice o dal coro come antefatto in varie parti della tragedia, che si concentra sulla vendetta di Medea contro Giasone quando questi decide di sposare Glauce, la figlia di Creonte, re di Corinto. La vendetta di Medea è attuata per mezzo di una veste avvelenata, che fa portare a Glauce dai figli per implorare che almeno loro non vengano esiliati dalla città, come ha invece stabilito Creonte per timore di Medea e della sua magia. Glauce accetta, ma la veste è avvelenata e la uccide. Il padre Creonte si getta su di lei, morendo anch’egli. Al ritorno dei figli, Medea li uccide; la ragione che viene fornita è che sono suoi e non potranno sopravvivere comunque alla gravità dei fatti, ma anche per deprivare Giasone della progenie. Si è assicurata una via di fuga, facendosi promettere dall’ateniese Egeo, senza dirgli del suo piano di uccidere i propri figli e Glauce, che la accoglierà ad Atene, il che avviene. Il viaggio verso Atene si svolge sul carro messo a disposizione dal Sole, nonno di Medea.

La versione di Euripide mette in rilievo soprattutto cinque aspetti:

- 1. la pietà per Medea tradita dal marito e ridotta a “esiliata, / umiliata” e la posizione difficile delle donne;

- 2. La passione cattiva consigliera delle relazioni tra uomini e donne: “un'ira irrimediabile”; l'idea positiva, al contrario, dell'amore vissuto con moderazione.

- 3. La vendetta come forma di rappresaglia forte nei confronti del torto subito. La tragedia si interroga se questo sia giusto o meno e sul fatto che “ciò che è giusto è errore”, come dice il Coro; e più oltre manifesta simpatia umana per Medea, ma rammenta l'esistenza delle leggi e avverte Medea che non può sulla base di esse uccidere i figli.

- 4. L’imprevedibilità degli eventi umani, o come dice il Coro a conclusione della tragedia: “L'inatteso è il modo di operare degli dèi. / la morale di questa storia”.

- 5. Medea è simbolo di una situazione storico-sociale primitiva. Medea è un personaggio di una cultura magica, che “spaventa” come dice Creonte. Secondo Giasone il luogo di provenineza di Medea è incivile, in contrapposizioone alla Grecia intesa come sede di civiltà e razionalità. Più ancora, di nuovo Giasone dice di avere condotto Medea in Grecia dal suo paese "primitivo"; ritiene che l’atto di Medea non lo avrebbe potuto commettere una greca; la definisce mostruosa e selvaggia.


2. MEDEA DI PASOLINI

L’approccio nella versione cinematografica di Pasolini è di rimitizzazione [1]. C’è una lettura basata su fonti classiche (il Centauro Chirone di cui parla Pindaro in relazione a Giasone; parti della spedizione degli Argonauti narrata da Apollodoro; e nell’ultima parte del film un rifacimento della tragedia di Euripide). La continuità è data dalla storia, dalla recitazione e da aspetti ideologici.

In particolare, occorre riferirsi all’idea di Pasolini che il mondo arcaico fosse stato devastato dalla civiltà industriale; e potesse e dovesse riemergere la visione arcaica e populista di CENERI DI GRAMSCI (1956):la “vita proletaria [...] anteriore” al socialismo, più che “la [...] sua lotta”, “la sua coscienza”. Ecco che su queste basi Pasolini scrive: “urlo, mi indigno contro la distruzione delle culture particolari, perché [...] vorrei che le culture particolari fossero un contributo, un arricchimento e entrassero in rapporto dialettico con la cultura dominante” [V, 52-54]. La ricostruzione pasoliniana di MEDEA, insomma, è fondata su uno degli atteggiamenti della nostalgia moderna del passato, che valuta il mito positivamente

C’è un registro etnologico. Si veda la scena del sacrificio all’inizio del film, ricostruita come se fosse un rituale vero, religioso. In questo senso l’aspetto di culto del mito è importante.

Il mito come rievocazione archetipica si nota nel rapporto di Medea col Sole (scene a Corinto quando Medea medita l’uccisione dei figli).

Il contrasto tra civiltà e barbarie è indicato in tutto il film. La prima parte, il sacrificio, ma anche la rappresentazione della popolazione di Medea, è di tipo tribale, quindi anche il primitivismo del mito ha un ruolo importante. Sul piano psicologico si sottolineano l’oracolo, il destino, l’ineluttabilità degli eventi. Si evidenzia il contrasto tra la visceralità antica e il cinismo moderno, per esempio nel diverso atteggiamento degli Argonauti e di Medea nella scena in cui si allontanano dalla Colchide. Inoltre l’appello di Medea, nella stessa scena, alle forze magiche (“Guardo il Sole e non lo riconosco”) indica la perdita dei poteri fuori della sua terra, fuori dal contesto olistico in cui il mito esiste come credenza e fatto rituale allo stesso tempo. I poteri vengono recuperati quando Medea decide di compiere un altro atto rituale per punire la civiltà che la esclude sottraendole Giasone e i figli. Giasone stesso dice a Pelia, riguardo al Vello d’oro: “Questa pelle di caprone, lontana dal suo paese, non ha più alcun significato”.

“Hai conosciuto due centauri, uno sacro e uno sconsacrato, che sono dentro di te”, afferma Chirone in forma umana quando Giasone torna nella civiltà a Corinto; e rivela il “disorientamento di donna antica in un mondo che ignora ciò che ha perduto”. Il Centauro vecchio, quello in forma metà umana e età equestre, già visto all’inizio del film, è il mondo arcaico, mentre il nuovo è la razionalità e la modernità e allo stesso tempo rappresenta la voce del regista e la sua opinione sui fatti.

C’è una tendenza universalistica. Il mito è globalizzato, appartiene a popoli di tutto il pianeta, come segnala la commistione di motivi greci e di altre culture. Per esempio, nelle scene a Corinto, nella casa di Medea, il tutore dei figli suona una cetra cantando in giapponese. La scena delle donne, successiva a quella dei cavalli nella prima parte, è accompagnata musicalmente da un coro di donne bulgare. La prima parte del film, che nella storia di Apollodoro si svolge nel Mar Nero, è girata in Cappadocia.


NOTE

[1] P.P. Pasolini, MEDEA, Milano, Garzanti, 1970 (testo del film). Film: MEDEA, LE MURA DI SANAH, dvd Rarovideo.

13/04/10

Rossana Roberti, MATERNALE

Castel Maggiore (Bologna), Book, 2003


Forse per comprendere questo libro, che condensa in poche pregnanti liriche l'essenza di una vita, anzi forse di due, occorre partire dalle parole di Grazia Livi, che l'autrice pone all'inizio, in esergo: "Ho sempre pensato a me stessa come a una donna che scrive. Il genere a cui appartengo è distinzione e orgoglio per me. E' all'interno del mio genere, e dell'esperienza del mio genere, che io trovo le parole necessarie. Non c'è altro luogo che questo."

Partiamo quindi non da quanto è posto come assoluto, ma da quanto "è sentito" come sostanziale realtà : nascita, sviluppo e voce nella linea dell'onnipotenza materna. Orgoglio e prigione?

La madre è in sé inizio, nutrimento e parola. Cosa avviene allora se quel seno è vuoto, se quel labbro è muto, se quel corpo è legnoso, se quelle braccia sono incapaci di aprirsi nell'atto della protezione?

“Madre di legno / dai seni disseccati / quanto tempo m'hai tenuta / affamata alla tua gonna”: questi sono i primi versi del libro, che colpiscono per la loro forza, per il tono violento d'accusa.

La figlia sarà mai in grado di accettare senza recriminazione e dolore questo individuo che la natura, come fa, con leggerezza, ho posto nella condizione necessaria alla quale è totalmente impari? O sempre quella figlia, anche da adulta, rimpiangerà e avrà da recriminare, dolorosamente, sul nutrimento che mai ha ricevuto?

Negare il nutrimento a un neonato è sentito come l'atto più crudele. Il ricordo del seno arido, avaro, non può essere tuttavia un vero ricordo. E, potrebbero esserci state altre donne, delle zie per esempio, di cui si scrive, in chiusura di libro, nella conversazione tra l'autrice e Merys Rizzo. Donne dal seno in ogni senso più generoso, a placare quella fame, ad acquietare il grido.

La bambina, che dentro la donna adulta è rimasta, come se della madre avesse un'idea platonica perfetta, accogliente, generosa, è delusa dal confronto, addolorata e come uccisa dal dolore per la realtà che le tocca sperimentare. La madre è sempre anche la matrigna delle fiabe. Annoiata prima dalle richieste fisiche della bimba, dalla sua fame, è pronta poi all'invidia, al castigo per la il corpo che cresce e sboccia.

“Madre di ferro / la tua scure pronta implacabile m'ha tagliato / ogni germoglio che m'avrebbe fatta /altra da te”. L'assenza d'amore materno, poiché la madre è l'universo intero, diviene odio verso se stessa, verso quella bambina malamata, ovvero richiesta d'amore infinito, inappagabile, irreale:

“Ho cara una piccola volpe
sotto la camicia
con folli unghiette mi scava la carne
non io ce l'ho messa
povera me
donna-volpe che si strazia
con mulinello di zampe feroci
si fa male
perpetuamente

sta scritto: nessuno
può separarsi da sé”.

Una storia d'amore frustrato, una favola crudele.

Un piccolo libro che ha il peso di un sasso. Rime asciutte, affilate, essenziali. Se anche questa soltanto fosse l'eredità della madre, forse sarebbe già molto: “Un'anima forte: con una spilla a balia / me l'appuntò mia madre / al bavaglino”.

Ma la storia esce dai limiti della favola. La madre da vecchia, è diventata lei la bambina bisognosa, da accudire. La storia si conclude nel più naturale dei modi, con una morte che infine riconcilia le due donne:

“Nel ricordo ho lavato
la tua morte
[…] oggi l'ho stesa pulita stillante
quasi
irriconoscibile;
Ora, mamma se vuoi
puoi prendermi in braccio”.

Questa poesia racconta esperienze personalissime in modo e con tono che le trasformano in mito, racconto in cui il lettore si riconosce. Tornando a chiudere il cerchio aperto con le parole di Grazia Livi, MATERNALE di Rossana Roberti, nella sua crudezza, nella sua stringatezza, innalza un monumento al legame matrilineare, del quale non si potrà infine dare un giudizio in base al bene o al male sperimentato, ma solo in base alla forza che si riconosce aver agito e agire in chi scrive, e, per suo tramite, attraverso la poesia, in altre nate di donna.


[Piera Mattei]

11/04/10

Lin Feng, Zhao Jian, Huang Kemin, PALADINS IN TROUBLED TIMES


[Red Lanterns in Soho. Foto di Marzia Poerio]


Lin Feng, Zhao Jian, Huang Kemin, PALADINS IN TROUBLED TIMES. Sceneggiato televisivo cinese. 2008. Tratto con modifiche dal romanzo DATANG YOUXIA ZHUAN di Liang Yusheng (scritto tra il 1963 e il 1964). Con Victor Huang, Lu Chen, Liu Tianyue, Shen Xiaohai, He Zhuoyan

Ambientato nel periodo del regno dell'imperatore Xuanzong della dinastia Tang (685-762), e sullo sfondo della ribellione del principe An Lishang che instaurò per alcuni anni un impero Yan in conflitto con quello Tang, la storia di DATANG YOUXIA ZHUAN racconta le imprese di alcuni cavalieri erranti, o esperti di arti marziali, rientrando così nel genere Wuxià.

Gli avvenimenti storici provocano la rappresentazione di movimenti di truppe dinamici, battaglie e assedi, la ricostruzione di costumi e interni ben eseguiti, lo scalpitio dei cavalli e il clamore delle spade e delle lance, una concretezza del movimento e dell'azione, i percorsi attraverso palazzi signorili, locande di città e di campagna, attendamenti.

In parte i comportamenti dei personaggi sono realistici; ma in larga misura si frammischiano il magico e il reale. Medicine alchemiche e portentose salvano dal confine tra la vita e la morte. Veleni letali addormentano per sempre. I cavalieri protagonisti volano più che saltare e combattono secondo codici d'onore ideali, che preferiscono il rischio della vita all'infrazione delle regole dell'etica e della giustizia, proteggono l'ordine contro il caos e i deboli contro i forti. In parte, infine, certi elementi della recitazione sono fissati nei gesti attendibili di personaggi intenti a essere ciò che il copione detta: il malvagio come An Lishang, il pusillanime come il figlio che lo uccide.

Come proprio dell'epica, a una storia principale si affiancano altre linee narrative parallele e intrecciate con quella fondamentale. Così abbiamo Tie Mule e i suoi parenti e amici che si mettono al servizio di Xuanzong, compiendo varie imprese, mentre i loro destini personali vengono dipanati tramite una serie di equivoci, chiarimenti e difficoltà. La signorina Wang, che sembrava una nemica, è in realtà dalla parte dei giusti. I promessi dalla nascita si ritrovano. Gli amori sorgono anche tra campi avversi. La famiglia mantiene un ruolo determinante. I patti si siglano con brindisi copiosi. L'abnegazione ha i suoi premi nel ricordo da parte degli eredi dei loro antenati. La commozione si alterna alla commedia.

In THE SEVEN BASIC PLOTS, fornendo una lettura junghiana della narrativa di vari periodi storici e paesi, Christopher Booker rileva tra l'altro che "in order to reach a full happy ending, the story must culminate in an act of liberation from the dark power which produces a final image of integration with life" [1].

Le forze del male esistono in questa narrazione epica cinese, impersonate da vari personaggi, tra i quali troneggia Yang Mulao.

Yang Mulao, per opera di An Lishang, ha perso da giovane il figlio Tie Mule, credendolo inizialmene deceduto; ha trascorso un periodo da servo e cavia di un alchimista di cui finalmente si libera, vivendo altri anni in solitudine e apprendendo poteri quasi invincibili nelle arti marziali e nell'uso dell'energia interiore e cosmica. Yang Mulao è spinto dalla vendetta e dalla sete di potere invece che dalla rettitudine e dal disinteresse; si trasforma così in una figura dell'Ombra, anche iconicamente, viso coperto da un cappuccio e guanti neri (recente riapparizione di questo archetipo è il Vader di STAR WARS; oppure a sua volta il Jedi deviato del film statunitense, nell'intertestualità mediatica globalizzata, ha rinfluenzato l'eroe negativo di origine taoista nella versione televisiva cinese?).

Yang Mulao ha fallito nell'integrazione cui accenna Booker; e usa i suoi immensi poteri per vincere contro la luce. Animato, dall' "ultimately self-destructive power of egocentricity" [2] che Booker rileva in altri modelli narrativi, ma che si adattano allo sceneggiato cinese secondo un'interpretazione valida tanto rispetto a categorie di origine junghiana quanto a princìpi di origine confuciana, il personaggio in questione si volge proprio contro coloro "who represent the very values of the Self which he should be realizing in himself" [3]. Ha infatti tradito la missione di "paladino" che aveva all'inizio col nome di Tie Kunlun; e sotto l'identità di Yang Mulao, non riconoscibile dai più, non esita a disfarsi di coloro che si frappongono al suo progetto di conquista del potere, tra cui parenti ed ex amici.

In una delle numerose anagnórisis di DATANG YOUXIA ZHUAN, presentandosi dapprima sotto le false spoglie del vecchio saggio mascherato da folle solitario, sotto il nome di Huangfu Song, un doppio coesistente con l'Ombra impersonata dall'identità denominata Yang Mulao, cerca di insegnare le proprie arti al figlio Tie Mule, che ha ritrovato vivo senza disvelarsi in quanto padre almeno in un primo momento. Finalmente gli si rivela, tuttavia non riesce a convincerlo della propria verità negativa. Tie Mule rappresenta il polo positivo: non subisce le lusinghe dell'Ombra e intraprende un processo di maturazione e riequilibrio che lo fa evolvere dal ragazzo impulsivo che era all'inizio nell'eroe maturo che ha raggiunto il bilanciamento delle varie parti del Sé junghiano.

Nessuno dei due, tuttavia, riesce a uccidere l'altro, non solo perché sono padre e figlio, ma anche perché, nella configurazione archetipica sottostante, sono due facce della stessa medaglia, devono convivere ostilmente finché non troveranno un equilibrio. Sarà un atto di altruismo e dedizione del padre a salvare infine Tie Mule dalla morte. Ucciso da emissari del campo nemico, Tie Mule viene riscattato alla vita da un trasferimento di energia di Yang Mulao, il quale ultimo in tal modo perde i poteri, invecchia e s'indebolisce, infine morirà. L'altruismo riesce a superare le pulsioni negative.

Frattanto, sul terreno ideologico, l'amore paterno ha compiuto un passo che conduce oltre il clangore delle battaglie: Yang Mulao perde la guerra terrena, ma ripara in parte ai torti commessi e viene consegnato alla memoria dei posteri col nome ritrovato, sulla lapide cimiteriale, di Tie Kunlun.

L'amore e il sentimento svolgono un parte importante in questo ipertesto visivo.

Si veda l'esempio di Tie Mule, di cui sono innamorate la promessa sposa, Zhifeng, e la signorina Wang, la quale ultima nel corso delle puntate ritrova la sua vera identità; e quando ciò avviene potrebbe aspirare anche lei alla mano di Tie Mule.

I rapporti tra le due giovani si svolgono con mirabile equanimità (in termini junghiani sarebbero elementi interdipendenti dell'Anima) e con rispetto reciproco.

Entrambe esperte di arti marziali, rappresentano su altri piani due tipi di femminilità diversi: più remissiva e tradizionale in faccende di famiglia la prima; e più ironica e indipendente la seconda.

Si sostengono a vicenda secondo un codice di comportamento cavalleresco, respingendo il sentimento della gelosia in quanto indegno di cuori nobili. Zhifeng alla fine si sacrifica per salvare la vita di Wang, testando un antidoto che la uccide e indicando così l'antidoto giusto da somministrare alla rivale in amore.

Questi non sono che esempi parziali delle trasformazioni, complessità psicologiche, cambiamenti di scenario e allegorie di PALADINS IN TROUBLED TIMES, che abbiamo guardato con interesse e partecipazione emotiva quasi in ogni istante dei 32 episodi in cui è struttturato.


NOTE

[1] C. Booker, THE SEVEN BASIC PLOTS, Londra, COntinuum, 2004, p. 267.

[2] Ibidem, p. 347.

[3] Ibidem, p. 331.


[Renato Persòli]

09/04/10

Cristina Cona, LA LINGUA IDEALE

Personaggio illustre ma praticamente sconosciuto all’esterno del mondo neerlandofono, Simon Stevin merita di essere ricordato per il suo contributo tanto all’arricchimento della sua lingua materna, quanto alla democratizzazione del sapere scientifico. Chi era dunque costui?

Nato nelle Fiandre nel 1548, Stevin fu dapprima contabile (introdusse nei Paesi Bassi il metodo italiano della partita doppia), poi ingegnere e matematico, e infine insegnò all’università di Leida; uno dei più importanti scienziati del suo tempo, si distinse per il suo sapere enciclopedico e l’enorme versatilità delle sue realizzazioni sia concrete che teoriche. Interessato alle applicazioni pratiche della matematica, che illustrò nel libro DE THIENDE (uscito nel 1585), in cui esponeva il funzionamento del sistema decimale (allora pressoché sconosciuto in Europa) e ne propugnava l’uso nei calcoli e nelle misurazioni, pubblicò in seguito altre opere di grande importanza su diversi argomenti scientifici, fra cui i principi della statica, dell’idrostatica e della meccanica, che si caratterizzano fra l’altro per essere scritte in olandese (“Duytsch”, o “Neerduytsch”, come si diceva all’epoca) e non in latino, lingua della cultura e della scienza per antonomasia. Stevin trovava infatti assurdo che la conoscenza di certe cognizioni matematiche e scientifiche dovesse passare per l’acquisizione di una lingua straniera, per di più morta: in tale modo l’accesso al sapere veniva di fatto limitato alle classi più colte e ne restava esclusa la gente comune. E del resto, quando nel 1600 fu nominato docente a Leida, provocò notevole scalpore facendo lezione - fenomeno unico nell’Europa di quei tempi - nella lingua nazionale anziché in latino.

Il contributo di Stevin alla democratizzazione del linguaggio e, con esso, del sapere scientifico fu però radicale anche e soprattutto sotto un altro aspetto: egli infatti è passato alla storia per avere messo in auge una terminologia matematica e scientifica specificamente olandese, o servendosi di parole preesistenti o coniandone di nuove. Anche alla base di questa scelta vi fu un bisogno di chiarezza e di accessibilità: i vocaboli scientifici creati ex novo nel resto d’Europa erano prestiti dal latino, greco e arabo, e in quanto tali oscuri per chi non conosceva queste lingue e li imparava meccanicamente senza comprenderne l’essenza; utilizzando e combinando termini dell’olandese comune il significato risultava invece immediatamente evidente a qualsiasi neerlandofono. Così, mentre per designare le linee parallele e l’orizzonte sia le lingue neolatine che l’inglese e il tedesco ricorrono a soluzioni calcate sui modelli “parallel” e “horizon”, Stevin coniò rispettivamente “evenwijdig” (di medesima larghezza o distanza) e “gezichtseinder” (linea dove termina il campo visivo).

Un’altra motivazione che spinse Stevin a scrivere in olandese e a creare una nuova terminologia fu il desiderio di contrastare il fenomeno della cosiddetta “taalverbastering”, o corruzione della lingua: nell’uso quotidiano tendevano infatti ad imporsi sempre più i calchi dal francese anche quando esistevano parole olandesi perfettamente adeguate ad esprimere determinati concetti. (Un esempio fra tanti, tratto da un documento del 1618: “... capabel om alle importuniteit te excuseren, sal by desen de vrijheit nemen van haere importante occupaties te interromperen ...”). La battaglia condotta da Stevin per la purificazione e l’arricchimento dell’olandese (particolarmente con la pubblicazione del libro UYTSPRAECK VAN DE WEERDICHEYT DER DUYTSE TAEL nel 1586) si inserisce del resto in una più generale visione del mondo, tipica del suo secolo, in cui le influenze culturali del Rinascimento, dell’affermarsi della coscienza nazionale e della Riforma protestante contribuivano a diffondere l’esigenza di una lingua nuova e chiara che potesse diventare patrimonio di tutti. In questo senso, nelle aspirazioni al rinnovamento e alla trasparenza che lo ispiravano, il contributo di Stevin fu per molti versi affine al lavoro di divulgazione delle Scritture svolto nello stesso periodo dai traduttori della Bibbia in volgare.

Simon Stevin realizzò dunque un vero e proprio lavoro di traduzione letterale dei concetti solitamente espressi mediante la terminologia di derivazione latina e greca, sfruttando a fondo le possibilità semantiche offerte dalla lingua olandese, che considerava molto adatta, anzi ideale, per l’utilizzo nel discorso scientifico. A sottendere questa sua convinzione era l’ipotesi, condivisa da diversi suoi contemporanei, dell’“oertijd”, mitica preistoria in cui gli esseri umani avrebbero posseduto una conoscenza istintiva e universale dell’essenza delle cose: conoscenza poi andata perduta, con ogni probabilità contestualmente alla babelica confusione delle lingue. Infatti, secondo Stevin, l’umanità primitiva si era servita di un’unica lingua (“oertaal”) costituita di elementi semplici, monosillabici, corrispondenti ognuno ad un concetto; combinando questi elementi di base per formare nozioni via via più avanzate, i nostri antenati avrebbero creato parole che esprimevano l’essenza del concetto sottostante in maniera direttamente comprensibile a tutti. A suo giudizio il “Duytsch”, caratterizzato da una grande quantità di parole monosillabiche, era più o meno lontano erede di questa lingua originaria e pertanto particolarmente indicato per trattare le questioni scientifiche, non solo nei Paesi Bassi, ma in tutto il mondo civile. Se perciò da un lato i vocaboli da lui creati possono considerarsi traduzioni dal latino e dal greco, dall’altro lato li si può vedere come una traduzione e al contempo un proseguimento ideale dall’“oertaal”.

Il lavoro di divulgazione intrapreso da Stevin sulla base di questi criteri ricevette il sostegno del principe Maurizio d’Orange, di cui divenne dapprima precettore e poi consigliere quando, durante la guerra contro la Spagna, risultò necessario formare un corpo di tecnici qualificati per la costruzione di fortezze e pezzi di artiglieria: giovani del popolo ai quali era necessario insegnare le applicazioni pratiche della matematica in una lingua loro accessibile. La creazione di un apposito lessico scientifico in olandese ricevette poi un forte impulso dall’espansione della navigazione marittima e dell’esplorazione di nuovi oceani e continenti, attività in cui i Paesi Bassi primeggiarono diventando una grande potenza. Geometria, topografia, cartografia, astronomia: tutti questi rami del sapere dovevano venire messi alla portata di capitani e piloti, e i manuali si servirono ampiamente non solo delle scoperte e invenzioni di Stevin, ma anche dei neologismi da lui introdotti.

Fra questi, alcuni termini sono ormai caduti in disuso, ma molti altri sono entrati definitivamente nel lessico olandese. Ricordiamo wiskunde (matematica: da wis, preciso, e kunde, conoscenza: dunque, scienza esatta), scheikunde (chimica: scheiden = tagliare, quindi scomporre o analizzare), meetkunde (geometria: meten = misurare), driehoek (triangolo), raaklijn (tangente: da raken, toccare + lijn, linea), evenwicht (equilibrio: da even, eguale + wicht, peso).

Un’ultima curiosità: la parola “gas” è anch’essa olandese, pur essendo stata coniata non da Stevin ma da un altro scienziato fiammingo: il chimico bruxellese J.B. Van Helmont (1577-1644). Per lungo tempo si era creduto che egli avesse fatto derivare “gas” da “geest” (spirito), termine che avrebbe designato i vapori fuoriusciti dalla storta nella quale venivano effettuati gli esperimenti di distillazione. Oggi invece sembra assodato che si tratti di una sua trasposizione fonetica in olandese del greco “chaos”.


FONTI:

M. Bakker, HET NEDERLANDS ALS IDEALE TAAL IN DE WETENSCHAP, “De Ingenieur” 2,1994.

A. De Cock, SIMON STEVIN, Gent, Boekhandel J. Vuylsteke, 1888
(WEB REF.).

07/04/10

Marina Pizzi, L’INVADENZA DEL RELITTO, 2009 [50-59]

50.

all’urlo della cornucopia
l’angolo che svetta il mondo
il safari di perdere memoria
la sconfitta pendula del sacro.
in mano al gerundio del pianto
il ricordo di dio che mi giocava
accanto fanciullo d’elemosine.
in tutto il frastuono del dolore
l’ora canuta di oscurare specchi
la venuta del ramo che si spezza
dentro il tramestio dell’alba bara.


51.

l’alloro dell’aurora
prenda questo rovistare
questa camicia vuota
suicida contro il treno
dado di scempio
maestro il maestrale delle isole
senza scampo pregne.
immola che si faccia rispetto
il molo solitario al tarlo
che lavora le faccende d’Ercole.
re commise le fidanze d’abaco
per correre in soccorso a chi sviene
idillio di sorriso ben comunque.
invece di elaborare la sorte in svendita
sono la moda di una regina tattica
col pegno del respiro. invano con le meringhe
delle giostre sono in attesa di un respiro
che redima la melma del vano eloquio.


52.

in piena scimitarra ho visto
l’occhio del lupo, il luccichio
al diniego di pregare. così finisce
l’intonaco e il malanno di capitar
infelici. la terra è umida ma solo
di brina in cerca di gemme da aiutare.
mi avvince il cielo che non ebbi
la clausura mortale senza beneficio
né montatura di ponteggio.
tu che cingi le eresie del sale
conta per me le darsene del dubbio
le ferite in cigolio di abbraccio.


53.

ogni mattina squilla il telefono
per la pubblicità. è una speranza
in più che se ne va. nessuno raggiunge
questo trovatello spazio fatto di piante
grasse molto pazienti e vestiti alla rinfusa
per imparare a vivere sotto il dado della
fortuna o la schedina balorda. in era di mansarda
sto sotto il tetto delle ossa e la bravura è carica
di divieti. alcolizzate le finestre del suicidio
è più facile divenire voli, mali inconsolabili
nel lenzuolo immortale! tu lo stiri con i palmi
scheletrici come un tale che ti faccia bastone
ma sei tu che reggi. dall’antenna parabolica
a getto continuo le voci stanno bene. così
si traccia indice del sudario alla faccia del
calendario ammesso tra mille giocatori in ottima
salute boia di risate ed indirizzi veloci e esatti.
è il mass-media bellezza: non ha pietà.


54.

in un mondo di bara voglio morire
fuori. a scapicollo immortale i fiori
immortali. avere l’originale del dio
vivo, toccarlo con la nuca contro il polso
per sentirgli il cuore. chiamarlo bambino
del mio vezzo per staccargli il cielo
e cullarmene. condividere il vizio
della solitudine. darlo in pasto alle preghiere
per esaudirle. un baluginio di giara con
l’olio santo effervescente per tutti.


55.

in un cielo suicida si straluna
la giacca del suicida.
in un mare di debiti si salva
la ressa della vanga.
tu dammi un dollaro che io possa
ossequiare le membra di chi muore.
braccami le ossa che io possa
gridare la cacciata finalmente!
di te non voglio l’ilarità della fine
settimana. un cuore d’asma mi spaventa
nel dividendo del capitale omesso.
ho perso il braccio della lira vuota
in una specola senza universo.


56.

chiamami dalla resina del buio
portami al cantone del sipario
per essere un estro di tornato
presso la nenia che non mi fa dormire
né imitare gli angeli.
portami dove la luce è fioca
e libera la morte.


57.

la culla della strofa è stare in attico
accanto al cielo a fare da traguardo
al dito mignolo che lo può toccare
senza destrezza solo per bellezza.
in pasto all’amarezza della ruggine
la gimcana della resina la casa fredda
minacciata dalla ragione della morte.
labirinto di cimase se intorno al polso
per dare un argine alle lacrime del rito
che a basilica pungono di dolore.
genia del pane la libertà di esilio
andare via con il libro chiuso
verso le soglie delle logiche cattive.
gelo di vestibolo la notte
questa sterpaglia al palo degli uccisi.
la scienza della lavagna è di rimando
edizione della notte dado tratto.


58.

a frutto me ne andrò con far di notte
con il cespuglio dell’agave sul collo
con la mansione del gallo senza alba.


59.

è giorno che straluna nel bicchiere
che detta legge alle maniere darsene
delle ruggini implacate. tu dettami
lo sguardo che mi rapisca nella tua
tasca sola. sono un coriandolo sfortunato,
vivo per scansioni d’ansia. l’acqua chiusa
sa d’infante viscido. le ondulazioni del suolo
hanno le radici ribelli. in regno d’ora
le donne mugolano la perdita del grano
con la cometa in gola a mo’ d’impiccagione.
qui resta l’etica di non potare né l’albero
né la regìa del pianto. dammi l’orto e le
piraterie del sogno. qui si muoia
lo spreco del fondale canaglia di palude.


Le sezioni 1-49 dell'INVADENZA DEL RELITTO sono state pubblicate su "Carte allineate" in data 3-11-2009, 15-12-2009, 19-1-2010, 3-2-2010, 3-3-2010.

05/04/10

Mahesh Dattani, MORNING RAGA

[Morning mistery on water. Foto di Marzia Poerio]


Mahesh Dattani, MORNING RAGA. 2004. Con Shabana Azmi, Hero Prakash, Perizad Zorabian


Il film, ambientato nell’Andhra Pradesh, è parlato in prevalenza in inglese e in parte in Telugu, lingua diffusa nell’India meridionale.

Un giovane, Abbinay, figlio di un agricoltore prospero, cerca di costruire un gruppo musicale che, mentre utilizza risonanze contemporanee, batteria, violino elettrico, pianola, allo stesso tempo mantiene la tradizione. Si rivolge per questo a Swarnalata (impersonata da una delle attrici note di Bollywood, Shabana Azmi), una cantante di musica carnatica che insegna alcuni elementi e tecniche a Pinky, la fidanzata di Abbinay. Il concerto conclusivo del film è un successo.

Affidato a questa trama lineare è un dramma profondo vissuto dai tre protagonisti: un incidente di autobus provocato involontariamente dal padre di Pinky, che guidava in stato di ebrezza e ha ucciso, morendo egli stesso, anni prima degli eventi sopra esposti, varie persone, tra le quali la madre di Abbinay e il figlioletto di Swarnalata, la quale da quel giorno vive rinserrata nel lutto e non ha più cantato in pubblico. Poco per volta questo tessuto di eventi, che è quello fondamentale sotto l’intreccio superficiale, emerge, provocando difficoltà tra i tre personaggi, come pure il loro superamento.

A un terzo livello il discorso si orienta sulla differenza di impostazione tra la modernità di comportamenti e valori di chi è emigrato in città e di chi è restato al villaggio; e sulla divergenza tra generazioni, insita del conflitto tra Abbinay e il padre, in quanto il primo non vuole continuare l’attività del secondo e si dedica a un lavoro proprio.

La natura è presente con la coltivazione dei campi e varie manifestazioni dell'acqua, il verde predominante degli appezzamenti a riso, il brunito delle zolle arate, il rosso dei peperoni piccanti messi a seccare. Le attività artigianali e rurali sono altrettanto presenti, trattate con rispetto e senza stereotipizzazione. L’approccio è umano e oggettivo. Dietro si muove un destino che unisce; la sofferenza che può mutare, tramite la solidarietà e la ricerca interiore dei vari individui, in passaggio oltre la negatività. La cura del trauma è personale quanto sociale.

MORNING RAGA racconta la vita sottovoce, proprio per questo con profondità; e senza annoiare.

Non si tratta in alcun modo di una pellicola commerciale o popolare nel senso bollywoodiano (o, in questo caso, tolliwoodiano), bensì di una resa realistica e meditata; situa la storia narrata in un contesto di convinzioni, azioni, consuetidini autoctone; mette inoltre in rilievo come la modernizzazione provochi atteggiamenti globalizzati coesistenti a quelli tradizionali. Lo strato sociale predominante non è l’alta borghesia, bensì la classe media.

La colonna sonora è notevole per l’integrazione tra raga e arrangiamenti contemporanei, ma anche per la varietà di altri stili e strumenti. La voce nei pezzi cantati da Swarnalata è quella straordinaria di Sudha Ragunathan [1].


NOTE

[1] Il motivo principale (THAYE YESHODA, un raga che ha per tema Krishna), com’è arrangiato nel film, si può ascoltare su YouTube a BRANI DA MORNING RAGA.


[Renato Persòli]

03/04/10

Santiago Montobbio, EL ANARQUISTA DE LAS BENGALAS

Biblioteca Íntima, Barcellona, March, 2005


EL ANARQUISTA DE LAS BENGALAS è stato pubblicato a Barcellona nell’autunno del 2005 ed è stato finalista del Premio Chisciotte 2006 dell’Asociación Colegial de Escritores de España al miglior libro pubblicato nel corso dell’anno.

Le poesie della raccolta sono state scritte nel 1987 e risultano quindi contemporanee a quelle del mio primo libro e di altre pubblicazioni, a cui sono legate da un’intima coerenza, ma allo stesso tempo in esse si riscontrano modi di fare anteriormente assenti.

Le poesie della prima sezione della raccolta DESDE MI VENTANA OSCURA sono dunque vicine a quelle della prima sezione di HOSPITAL DE INOCENTES (Madrid, 1989) e a quelle di TIERRAS (Francia, 1996); questi componimenti sono o devono essere l’espressione di un’anima e alcuni forse sono riusciti ad essere spirito trascendente, nient’altro che coscienza.

Nelle poesie della seconda sezione, EL TEÓLOGO DISIDENTE, troviamo la poesia delle rappresentazioni, dove c’è anche verità e bellezza, che è presente pure nella quarta sezione, EL ANARQUISTA DE LAS BENGALAS, anche se i suoi componimenti assumono un aspetto diverso: in quelli della seconda sezione c’è una rappresentazione depurata, e in quelli della quarta vediamo che le fantasie simboliche hanno i tratti di una maggiore intimità e tristezza.

La terza sezione, LIMBO, è composta da testi in prosa e qualche aforisma, che pubblicò Miguel Delibes nel quotidiano “El Norte de Castilla”, e in qualche modo vi si mescolano componenti d’altri toni raggiungendo risultati che li rendono diversi da qualsiasi altro componimento.

Anche l’ultima sezione, CON BASTANTE OCTUBRE, apporta un nuovo respiro: c’è qualche poesia narrativa, con cadenze morali come quelle dell’ultima sezione di HOSPITAL DE INOCENTES, DRAMATIS PERSONAE, con la quale stringe legami, in generale, per l’andamento meditativo presente in tante delle poesie invi incluse.

Qui però si aggiunge un intenso lirismo, che seppur presente in altri miei libri, ora risulta più dominante. C’è in queste poesie una tristezza essenziale, che voglio pensare che ci salvi e ci restituisca. In tutti i componimenti c’è inoltre una palpitazione vera, e sarebbe bello che, nelle differenti forme che assume, arrivasse anche al cuore del lettore, realizzando un po’ quanto dice l’aforisma di Bergamín: “L’arte è arte di tremare, di commuovere di nuovo”. Dopo aver letto le mie poesie, Carmen Martín Gaite ha scritto: “mi hanno commosso in modo strano, perché escono da un pozzo molto buio e vero”.

Queste diverse poesie si intrecciano intimamente: alcune completano, spiegano e rendono possibile le altre. Con EL ANARQUISTA DE LAS BENGALAS il lettore può ora conoscere più a fondo la mia poesia e capire meglio in che cosa consista, sia nelle diverse espressioni che nell’insieme, e in questo risiede il motivo di maggior importanza della pubblicazione di questo libro.

Provo una grande allegria nel dare notizia della mia poesia in Italia e nella sua lingua (che è nei miei ricordi, dato che è una lingua che ho sentito parlare nella mia infanzia), e voglio in particolar modo esprimere l’onore che rappresenta per me l’invito a farlo dalle pagine di questa rivista.


[Testo di Santiago Montobbio. Traduzione di Nicoletta De Boni]