La
metafora del ponte ha vari significati in questo bel film. È un tronco d’albero,
leggermente livellato sulla superficie superiore; si trova sopra un torrente all’ingresso
del villaggio natale del protagonista, Tashi, che è andato a lavorare in città,
a Mumbai, a miglia e miglia di distanza dal paesello isolato dello Stato
indiano dell’Arunachal Pradesh, nell’Hymalaya, confinante con Cina, Myanmar e
Bhutan, parecchi anni prima con mansioni di web
designer. Tashi ha perso il lavoro, per questo torna a casa: il ponte è in
tal senso un tramite tra il passato e il presente. La prima volta che cerca di
attraversarlo non ci riesce con facilità, deve essere aiutato da un parente, in
seguito dalla ragazza di cui si innamora, che lo prendono per mano per condurlo
sull’altra riva, quella del paese, quindi si tratta di un ponte degli affetti e
della solidarietà. Chiaramente, tanto il ponte, quanto tutta la prima metà del
film segnalano la difficoltà di riadattamento di Tashi. L’apprendimento del
passaggio sul ponte coincide con il graduale riadattamento alla vita del luogo
natio, nonostante l’innamorata, pur ricambiandolo, segua il suo destino di un
matrimonio combinato; e un lavoro alla fine si riprofili per Tashi nella parte più
sviluppata dell’India. Tashi ha recuperato il senso del luogo, un’identità, una
riumanizzazione che lo spingono a restare per occuparsi dei campi e delle
attività della famiglia. Il ponte segnala dunque anche il passaggio tra la modernizzazione e
la società tradizionale, con la scelta significativa della seconda, pur nella
consapevolezza che anche lì prima o poi tutto cambierà.
È una
pellicola antropologica, che indaga senza compiacenza e con precisione le
credenze, le abitudini della vita quotidiana, il lavoro, gli affetti.
[Roberto
Bertoni]