“E allora è assai probabile, s’intende, che
abbia ragione chi legittimava l’obiezione del lettor borghese di fronte al
contegno di Carla e di Michele, per la quale sarebbe sufficiente “fare di Leo
un buon marito e dare a Michele un’amante giovane” [1] per togliere ai due
protagonisti ogni ansia e desiderio di rivolta. Esatto, ed è proprio il
pensiero di Moravia, in fondo. Ma Moravia non crede davvero che quelle due
piccole condizioni siano così piccole come possono naturalmente apparire al
lettore borghese. Perché, per realizzarle, occorrerebbe, e niente di meno, non
soltanto fare di Leo e di Lisa il contrario giusto di ciò che essi sono in
effetti, ma fondare nella concretezza della realtà sociale tutte quelle tali
condizioni che potrebbero permettere una tale trasformazione”.
Così scrive Edoardo Sanguineti a proposito de Gli
indifferenti, il romanzo d’esordio di Alberto Moravia pubblicato [2] nel
luglio del 1929, ed è proprio da quest’acuta
considerazione che si può partire per riflettere sui tre adulti presenti
nell’opera: Mariagrazia, Leo e Lisa. Inutile a dirsi: lo sguardo da “bambino
mal convinto” di Michele, i suoi proponimenti di sincerità, la sua difficoltà
nell’adattarsi, ossia abituarsi a vivere come tutti gli altri, il pubblico
borghese non riesce a coglierli fino in fondo. Perché Carla dovrebbe rifiutare
Leo? Per quale ragione Michele non dovrebbe essere contento di essere ricevuto
da Lisa in casa sua? C’è un motivo per cui Merumeci dovrebbe trattenersi dal
mettere le mani sulla villa? Per una società guasta, corrotta, in cui
l’apparenza conta più della sostanza, tutte queste perplessità sono delle
sciocchezze; non c’è posto per sentimenti autentici.
“Dietro la famiglia Ardengo, c’è la Roma
pretenziosa del Quartiere Coppedè, dei gerarchi che credono di
sprovincializzarsi frequentando la cascina di Valadier, il golf e domandano di
essere ammessi al Circolo della caccia o a quello degli Scacchi [3]".
Ciò che sta a cuore a Moravia è la credibilità e
quel che colpisce di più de Gli indifferenti è la perfetta corrispondenza
del contenuto amorale con l’espressione sbrigativa, arida, disadorna. Nel
tentativo di sbirciare dietro le tende di una famiglia benestante qualsiasi,
Moravia stende un documento lucido e impietoso, che denuncia la sintomatologia
di quella classe a cui lui stesso appartiene, scrive un referto medico, che
mostra i disturbi di cui soffre la borghesia, la quale non solo ha idolatrato
sesso e denaro, ma pure è precipitata in “vanità e indifferenza, meschine
voragini”[4]. Esistono però due tipi di pazienti: coloro
che riconoscono la malattia e quelli che fingono di non averla. Michele
appartiene ai primi, ma gli manca il coraggio di fare una cosa e portarla fino
in fondo, per questo difetta nell’azione; Carla, Maria Grazia, Leo e Lisa, come
pure il lettore borghese, fanno parte dei secondi.
Certamente il personaggio più semplice, ossia
tarato, proprio perché pienamente inserito nell’ambiente ipocrita degli anni
’20 è Mariagrazia. La matura signora Ardengo porta avanti da circa dieci anni
la relazione con Leo Merumeci; tentando inutilmente di nasconderla a Carla e
Michele, maschera ogni tipo di coinvolgimento sentimentale continuando a dare
del “lei” all’uomo davanti ai figli. È la figurina sconfitta, che affoga negli
isterismi. Tormentata all’idea di lasciarsi sfuggire l’amante, che non è più
interessato al loro flirt, quanto a scivolare nel letto della
figliastra, Mariagrazia è ossessionata all’idea del tempo che passa, così
appare una antesignana sottotono della diva del muto Norma Desmond,
protagonista di Viale del tramonto (1960) di Wilder. Non c’è nulla di
male ad avere cinquant’anni, se non se ne vogliono dimostrare venti a tutti i
costi:
“Alzò due dita e compose la bocca come per dire
venti, Carla vide, capì, esitò, poi un’improvvisa durezza devastò la sua anima:
‘Vuole’ pensò ‘che io diminuisca gli anni per non invecchiar lei’; e disobbedì;
‘Ventiquattro’ rispose senza arrossire".
A Mariagrazia non passa minimamente per la testa
che sia Carla la sua “nemica” e non la povera Lisa, oggetto spesso di
immeritate ingiurie, come emerge chiaramente nel discorso indiretto libero del
capitolo VIII: “Tra poco Leo sarebbe partito, sarebbe scomparso nella notte
piovosa; sarebbe andato altrove; in casa di Lisa per esempio; già sicuro, in
casa di Lisa (…). Chissà come si sarebbero divertiti quella notte quei due,
chissà come avrebbero riso di lei”. Mariagrazia, però, “maschera stupida e
indecisa”, come scrive lo stesso Moravia, quella stessa donna che a detta di
Leo “meriterebbe di essere presa a schiaffi per due ore di seguito”, pare
proprio non accorgersi dell’abisso in cui sta per precipitare la figlia, la
quale è spesso confidente delle tante lamentale della madre. Carla sembrerebbe
il personaggio più complesso del romanzo, in realtà sin dalle battute iniziali
si comprende che prima o poi si darà a Leo Merumeci, che le garantirà tutto ciò
che lei aveva sempre desiderato: “vestiti, molti vestiti, viaggi”. Così la
ribellione lascia il posto alla rassegnazione, del resto “Leo o un altro che
importanza ha?”, si chiede continuamente la protagonista ed è la sua una
parabola discendente in cui tutto è “impuro, sudicio, basso”. Con Carla si apre
il romanzo e con Carla si chiude ed è la natura ciclica dell’opera che non
lascia ben sperare che il mondo migliori. Eppure è proprio su questa falsa
promessa che reggono i primi tentativi di seduzione di Leo:
“‘È così vero?’ egli domandò guardandola dal
basso in alto ‘proprio non ne puoi più?’ La vide annuire un poco impacciata dal
tono confidenziale che assumeva il dialogo. ‘E allora’, soggiunse, ‘Sai cosa si
fa quando non se ne può più? Si cambia!’”.
Ed è Leo il perno attorno a cui ruota l’intera
vicenda: “oggetto del desiderio” di Mariagrazia, “aiutante” di Carla,
“antagonista” di Michele. Ma è proprio così? Andiamo con ordine: Mariagrazia
non ama sinceramente Leo, le preme tenerselo soltanto perché intimorita al
pensiero di non essere più attraente (la stessa ragione per cui Lisa desidera
conquistare Michele); “Carlottina” diventa sì donna “grazie” a lui, ma a che
prezzo? D’altronde con Leo in casa nessuno l’avrebbe sposata ed era già
capitato che qualche giovanotto le avesse mancato di rispetto. Ebbene se è vero
che chi aiuta deve farlo disinteressatamente, allora non si può definire
Merumeci un amico in piena regola di Carla; per quanto riguarda Michele, la
definizione di “nemico” andrebbe bene se si prendesse in considerazione
l’equazione “ricchezza = felicità”, ma Leo è allo stesso tempo tutto quello che
il giovane Ardengo detesta e ama, quel che vorrebbe essere e non è e che
probabilmente non diventerà mai. Leo rientra in quella cerchia di uomini che
“vivono di nuda avidità e di cinica libidine, avendo ridotto il loro meccanismo
esistenziale al più elementare scheletro, ai più semplici moventi, alle sole
realtà direbbe Moravia, autenticamente irreducibili: sesso e denaro”.[5] Se con l’arte della dissimulazione riesce a
“conquistare” Carla, non si può dire che altrettanto facilmente riesca a
“comprare” Michele. La narrazione è un continuo crescendo, l’atteggiamento del
giovane nei confronti di Leo potrebbe essere definito come climax: nel terzo
capitolo lo insulta, nell’ottava gli lancia un posacenere, nel quindicesimo
compra una rivoltella per sparargli. Tuttavia a Michele il riscatto non riesce,
difatti, questi ingiuria Merumeci, ma poi come un bambino pentito chiede scusa;
scaglia un portacenere, ma finisce col colpire il bersaglio sbagliato (la
madre); si prefigura Leo morto a terra, ma – inutile dirlo – il colpo di
pistola non parte, proprio perché il giovane si propone di uccidere Leo senza
sentirne realmente l’esigenza morale.
“L’uomo che egli doveva odiare, Leo, non si
faceva abbastanza odiare; la donna che doveva amare, Lisa, era falsa,
mascherava con dei sentimentalismi intollerabili delle voglie troppo semplici
ed era impossibile amarla”.
Basterebbe citare anche il dialogo in taxi tra i
due uomini narrato nel capitolo VII:
“‘Dunque secondo te’ domandò ‘non dovrei
rinunziare a Lisa…’. ‘Ma già, sicuro’, approvò Leo togliendosi di bocca la
sigaretta; ‘prima di tutto perché Lisa non è davvero da buttarsi via; oggi
appunto la guardavo… (…) e poi caro mio, quella è una donna che può dare molte
soddisfazioni che non è una delle solite signorine all’acqua di rose (…) E in
secondo luogo dove la trovi oggi un amante che ti riceverà in casa? Questo per
te che non puoi pagarti una camera o l’appartamento, è una grande comodità;
vai, vieni, entri, esci (…) Lisa non ti costerà un soldo, dico un soldo… Ecco
io non so cosa si possa desiderare di più!’”
Emerge qui la netta antitesi, il divario che
separa Leo da Michele, al quale le parole del patrigno appaiono vuote,
insignificanti.
L’ipocrisia borghese, unita all’istinto
sessuale, trova concretezza nel personaggio di Lisa, “la signora dal corpo
grasso”, ex amante di Leo e amica degli Ardengo, coetanea di Mariagrazia, che
Moravia presenta così:
“Non aveva addosso che una trasparente camiciola
che faceva ancor più corte le sporgenze del corpo, e le gambe erano tutte
scoperte fino alla piega profonda che staccava la rotondità delle natiche dalle
cosce bianche e senza peli, i seni muscolosi, appena più bassi che a vent’anni,
e uscivano per metà con due rigonfi lisci e venati”.
Visto dagli occhi di Lisa, Michele rappresenta
la purezza, “le portava il sole, il cielo azzurro, la franchezza, l’entusiasmo
(…) ne aveva un desiderio insaziabile”; le sembra un altro, il contrario di
quello che realmente è. E Moravia non risparmia nulla a questo personaggio
femminile, che non è tanto diverso da Leo, ma che ben sa mascherare le proprie
intenzioni: “Vivremo lontano dalle cose che ti dispiacciono, vuoi? Da tutte
queste miserie! (…) Ti darò tutto l’amore che posseggo, che ho messo in serbo
per te…”. Lisa non dice espressamente di voler possedere Michele, ma di amarlo,
di desiderare un’intesa più alta, un sentimento di quelli che non si usano più.
Ma Lisa stessa non è limpida e Michele lo sa bene. La condotta ambigua della
donna è segnalata anche dalla descrizione del suo boudoir che “dapprima
faceva pensare: ‘Eh, che bel posticino chiaro e sereno, qui non può che abitare
che qualche giovinetta’; ma se si guardava meglio si cambiava idea; allora ci
si accorgeva che il boudoir non era più giovane del resto
dell’appartamento”. Michele al suo fianco vorrebbe altro: “una donna pura, né
falsa, né stupida, né corrotta”. Questa splendida chimera trova concretezza
nell’immagine della prostituta, che Moravia riprenderà in altri romanzi
successivi come La romana. L’incontro di Michele con una di quelle si
rivela il solo momento in cui il giovane intravede “vere lacrime per vere
sciagure”, proprio perché la donna pubblica, che nell’ottica borghese è figura
negativa, è l’unica che partecipa “delle qualità di tutte le cose vere e
solide, di rivelare ad ogni momento una verità profonda e semplice”.
Dispiaciuta della sua condizione, la prostituta comincia a piangere al pensiero
della madre morta ed è questo punto che Michele si commuove, qualcosa dentro lo
agita ed è lo svilimento di appartenere ad un mondo a lui lontano, in cui
questi si sente straniero. Lo stesso vuoto viene percepito dal giovane alla
vista di una coppia che si scambia tenerezze in automobile: “Era inutile sperare,
quella terra promessa gli era proibita, né l’avrebbe mai raggiunta”.
A Michele non resta che adattarsi. Non deve
apparire casuale che il romanzo – ed è un chiaro riferimento a Pirandello –
termini con una mascherata. Per recarsi al ballo, a cui sono state invitate,
Carla si traveste da Pierrot, Mariagrazia da dama spagnola. Chi sarà il
cavaliere? Leo, padre-amante e amante-genero. Ecco una carnevalata, dove i
ruoli non sono più definibili per quanto innaturali. Il bilancio de Gli indifferenti è deludente: indica non soltanto la completa sconfitta degli
ideali della famiglia tradizionale, ma soprattutto il trionfo dell’individuo
amorale che riesce ad “ottenere sempre quel che vuole”.
BIBLIOGRAFIA
A.
Moravia, Gli indifferenti, Bompiani, Milano, 2008.
A.
Moravia, A. Elkann, Vita di Moravia, Bompiani, Milano, 2007.
C.
Benussi, Il punto su Moravia, Universale Laterza, 1987.
M.
Mascia Galateria, Come leggere Gli indifferenti, Mursia, Milano,
1975.
E.
Sanguineti, Alberto Moravia, Mursia, Milano, 1962.
[1] Tutte le
citazioni, dove non specificatamente segnalato, sono tratte da A. Moravia, Gli indifferenti, Bompiani, Milano, 2008.
[2] S. Guarnieri, Cinquant’anni
di narrativa in Italia, Firenze, 1953, p. 367.
[3]
A Bressanone Moravia comincia a scrivere Gli indifferenti, il romanzo al
quale avrebbe dedicato ben tre anni di lavoro. Lo pubblicherà a proprie spese
con la casa editrice Alpes di Cesare Giardini – “Allora andai da mio
padre e dissi: ‘Guarda che loro vogliono che io paghi’. ‘Quanto?’ mi rispose
tranquillamente. ‘Cinquemila lire’. Ta, ta, ta… Pagò subito, senza dire una
parola” racconterà lo stesso scrittore anni dopo ad A. Elkann – e si rivelerà
una scommessa vincente: 1.300 copie esaurite nel giro di poche settimane.
L’opera, in realtà, sarebbe dovuta uscire presso la rivista “900” come spiega
Moravia nella stessa intervista: “I novecentisti (Marcello Gallian, Aldo
Bizzarri, Pietro Solari, Paola Masino, Margherita Sarfatti) si erano impegnati
con Bontempelli a scrivere ciascuno un romanzo. Ma il solo che scrisse fui io.
Però l’editore di ‘900’ che avrebbe dovuto pubblicare i nostri romanzi, rifiutò
il mio, dopo averlo letto con la motivazione poco lusinghiera che c’era una
nebbia di parole”.
[4] A. Moravia, intervista su
“L’Espresso”, 2 Agosto 1959.
[5] E. Sanguineti, Alberto
Moravia, Mursia, Milano, 1962, p. 41.