Roma, Socrates, 2016
Esce
finalmente in italiano dalla casa editrice Socrates di Roma tradotto da
Valentina Rossini Tasmania blues la
prima opera scrittrice australiana Helen Hodgman, ma nata in Scozia e
trasferitasi appena adolescente alla fine degli anni cinquanta con la famiglia
in Tasmania, la grande isola separata dal continente australiano dallo stretto
di Bass.
Il
romanzo racconta in prima persona la vita quotidiana di una ragazza molto
giovane che si ritrova a dover affrontare una maternità avvenuta troppo presto
e un ruolo familiare nel quale non
riesce a riconoscersi. Immagini nitide accompagnano le difficoltà della
protagonista che si sente estranea a tutto ciò che le capita intorno, non
riesce a partecipare alla vita che le si muove davanti agli occhi, ma può
soltanto osservarla. L’incipit sembra contenere in sé il nocciolo della vicenda
sin dalla prima frase: “Ho osservato tutto fin dall’inizio”. La ragazza abita
con il marito e la figlia neonata nell’ultimo bungalow costruito
accanto alla spiaggia e spostando le tapparelle osserva la costruzione
di un nuovo bungalow, l’arrivo della vicina di casa, il suo ostinarsi a
trasformare in prato un quadrato di aguzzi fili d’erba.
Il
distacco con cui viene osservato il mondo circostante, l’incapacità di
prendervi parte, di farsi assorbire dalle sensazioni e dalle emozioni, è
filtrato attraverso un punto di vista che pur osservando con grande attenzione i
dettagli e riuscendo a far vedere al lettore particolari ingranditi che
altrimenti non verrebbero nemmeno notati, non riesce a dare colore alle
emozioni. L’immagine di una tartaruga marina che si è arenata sulla spiaggia
dopo aver deposto dolorosamente le uova sembra racchiudere in sé la condizione
psicologica in cui si trova la
protagonista, incapace di immergersi nell’esistenza, di condividere esperienze,
di farsi catturare dalla vita, e meno che mai di accettare la maternità. L’istinto
materno pare essersi arenato in una dimensione quotidiana dove domina il vuoto
significativamente segnato da un orologio a muro fermo sulle tre del
pomeriggio. Appena ritornata a casa subito dopo il parto la giovane protagonista
non può far altro che spostare la tapparella per mettersi a osservare la
vicina.
Anche
il paesaggio, la spiaggia accanto alla quale la ragazza vive e che per la sua
bellezza assurda potrebbe stare sulla copertina di una brochure turistica, non
si lasciano catturare, ma respingono e fanno male. Tutto è filtrato attraverso un’immaturità
emotiva che impedisce di vivere, nonostante il desiderio cerchi di rincorrere
la vita, di esaurirsi nell’eccesso che non conosce freni né regole morali. La quotidianità
è infatti scandita dagli incontri con due amanti che la protagonista va a trovare immancabilmente il martedì e il
giovedì affidando la bambina alla madre
del marito proprio scappando dalla
situazione che si lascia alle spalle. Il vuoto emozionale cui il corpo si
ribella cercando di partecipare alla vita, buttandosi a corpo morto nella vita,
non riesce però a essere colmato. Proprio in questo spazio prendono forma i
fantasmi degli antichi abitanti, gli aborigeni tasmaniani perseguitati e
sterminati dai conquistatori bianchi, rivelando l’ombra scura che si accompagna
alla abbagliante luminosità dell’isola. Libro duro, bello, che si legge con emozione
e meraviglia per le forti immagini e per la scomoda verità con cui fa
costantemente confrontare e che ha conservato, nonostante sia stato scritto
negli anni settanta, una forza vitale che non si è minimamente esaurita.
[Rossana
Dedola]