[The Screen (Detail - Lucca 2015). Foto Rb]
Una Napoli grigia e
invernale fa da sfondo alla vicenda di La buona uscita, opera prima di
Enrico Iannaccone, presentata in concorso a Presente Italiano, il
festival che raccoglie ogni anno, a Pistoia, alcune tra le esperienze più
significative del nostro cinema contemporaneo. Il protagonista del film si
chiama Marco Macaluso: un imprenditore spregiudicato che fa fallire l’impresa
di famiglia mettendone al sicuro il capitale all’estero e trovando un
prestanome che, spinto dai debiti, si accolla la responsabilità legale della
gestione aziendale, finendo poi in prigione. La vicenda di Marco si intreccia a
quella di Lucrezia Sembiante, una matura docente universitaria alle prese con
il declino della sua sessualità, dopo una vita trascorsa all’insegna di una
totale e incondizionata libertà: i due, dopo una occasionale frequentazione, si
incontrano un’ultima volta proprio alla vigilia della fuga di Marco verso il
suo paradiso caraibico.
Tra i due
personaggi, in realtà, non esiste una reale comunicazione. Come il Valmont di
Laclos, Marco è perfettamente amorale, nasconde dietro l’affettazione e la
maschera del suo sorriso una disinvoltura assoluta nel trattare gli altri a
proprio utile, non ha consapevolezza del potenziale affettivo insito in ogni
relazione umana. È convinto che la felicità risieda nel taglio dei suoi vestiti, nel
design dell’arredamento di casa e nella qualità del pesce e del vino che
consuma con disarmante dedizione. Non ha il senso del passato – visto che fa a
pezzi l’azienda di famiglia – né quello del futuro, dal quale non sembra
spaventarlo l’abisso della vecchiaia e dell’inaridimento sensoriale e
affettivo: vive in un eterno presente, come un predatore senza coscienza.
Lucrezia, invece, non regge il confronto con il perfetto libertinismo della
marchesa di Merteuil: il culto del piacere, e del potere della sessualità, è
sottoposto in lei all’azione di un pensiero che ne mette in luce i limiti e la
vanità; Lucrezia ha sogni angosciosi, sente la precarietà, insidiata dalla
vecchiaia, della sua fede nell’eros come strumento di conoscenza, scende al
compromesso matrimoniale con un uomo più giovane e da lei, in termini di
esperienza, abissalmente distante: infantile e privo di iniziativa. La sua
maschera solo occasionalmente si apre al sorriso: più spesso è immobile e nello
stesso tempo turbata, come, esemplarmente, nella sequenza delle fotografie
prematrimoniali, che la colgono distante e perplessa.
Iannaccone,
napoletano di nascita, torna nella sua città con l’evidente intento di regolare
i conti. La rappresentazione dello spazio urbano sfugge non solo ai canoni
sublimanti del pittoresco, ma si tiene anche distante dal realismo e dalla sua
tensione verso il verosimile: il mondo e le vicende di La buona uscita,
infatti, non solo non sono vere, ma nemmeno ambiscono a sembrare tali. Prevale
invece una linea figurativa ambigua, a tratti grottesca, volta alla
rappresentazione sfuggente di una nota perturbante, nascosta dietro l’usata
apparenza delle abitudini: l’Unheimlich freudiano, il senso di disagio
che indefinitamente ci può trasmettere un territorio familiare, se sottoposto a
uno sguardo obliquo e straniante. Lo spazio del film è segnato così da un
modello bipolare: la Napoli dei ricchi, con i suoi interni perfetti e
geometrici, i suoi ristoranti di lusso, i suoi centri benessere in riva al
mare, fredda e lineare, ben perimetrata e nettamente distinta dal disordine
scomposto di altri ambienti cittadini: un improbabile e dismesso trenino da
luna-park, le linee neoegizie del mausoleo Schillizzi a Posillipo, alcuni
interni la cui attendibilità viene sporcata da una nota surreale (la
friggitoria ‘verticale’, in cui il protagonista convince il suo prestanome a
firmare le carte che lo porteranno in prigione, il campo di bocce, allagato
dopo la pioggia). In alcune sequenze, il conflitto è tutto all’interno del
quadro: come nella sezione iniziale, in cui il muro dei quartieri popolari
chiude sullo sfondo, con un nettissimo stacco cromatico e visivo, l’azione che
si svolge davanti ai nostri occhi, nel cortile interno del moderno edificio in
cui il protagonista gioca con un catamarano telecomandato. Colpisce, in questa
Napoli fredda e invernale, la quasi assenza del mare, vicino ma spesso
invisibile, come significativamente nella sequenza conclusiva della seduzione,
da parte di Lucrezia, di un giovane pescatore dilettante. Corrispettivo
degradato e artificiale del tema marino sono gli specchi d’acqua che affollano
la rappresentazione dello spazio cittadino: le piscine dei centri termali e dei
ristoranti di lusso, la lunga vasca rettangolare della sequenza iniziale, il
perimetro del campo di bocce, trasformato anch’esso in una precaria piscina.
Allo splendore e alla spontaneità della natura, si sostituisce una sua forma ‘seconda’,
imprigionata nelle strutture urbane come le erbacce che crescono tre le pietre
dei selciati, allegoria di una perdita di immediatezza, vanamente ricostituita
nelle effimere consolazioni della modernità.
Basterebbe tutto
ciò per cogliere la posizione di Iannaccone sulla sua città, la sua distanza da
quel vitalismo che ne segna convenzionalmente l’immagine e il respiro. Sotto lo
sguardo impietoso dell’autore, la realtà cittadina si sfalda in una serie di
frammenti straniati e irrelati, irriducibili a un principio che possa
comprenderli e giustificarli: il selfie spietato del figlio del
prestanome davanti alle serrande chiuse del negozio del padre, in prigione per
salvare la famiglia, le parole ciniche e feroci del fratello del protagonista,
che difende Marco di fronte alle accuse di Lucrezia, la mezza Torre Eiffel in
miniatura del marito di lei, il cedimento del giovane pescatore alle sue
lusinghe non sono che schegge incoerenti di una città senza speranza e
incompiuta, chiusa in un presente che è tutto, incapace di pensare a un futuro.
Iannaccone rifiuta di comporre il quadro e sfugge a ogni esplicito moralismo:
la sua scrittura – episodica, straniata, a tratti inconseguente – risolve l’interpretazione
in una questione di stile, affidando alle forme della narrazione e a una mai
banale relazione tra spazio filmico e personaggio il suo complesso e spietato
sguardo sul mondo.
[Alessandro Marini]