[Armenian Street (Singapore 2016). Foto Rb]
Giancarlo Narciso, Singapore sling, 1998.
Roma, Fazi, 2002
Giallo fondato su un intreccio di
spionaggio industriale e di scandali di appalti di una ditta italiana
denominata Stigmatech e una rete internazionale guidata dal potente
statunitense di origine giapponese Matsuda, questo giallo con colpi di scena,
momenti di azione e vari protagonisti italiani si svolge a Singapore, luogo che
viene reso nella sua realtà con descrizione di vari aspetti sociali e siti
geografici.
In una compagine multietnica, il
narratore in prima persona dichiara il proprio senso di integrazione: “Mi ci
trovo bene. Nessuno è ancora riuscito a farmi sentire un estraneo” (p. 120).
Il “segreto di Singapore” è dichiaratamente
“duro lavoro” (p. 113).
Viene messo in contrasto un modo di
agire non troppo consono alla trasparenza (“è un’azienda italiana e […] la
reputazione del suo paese non è fra le migliori”), col fatto che “gli
investitori vengono attratti qui dalla qualità delle infrastrutture, dalla
chiarezza delle leggi e dalla nostra capacità di farle rispettare. Non
desideriamo che Singapore diventi un rifugio per operazioni illecite e
criminali” (p. 206).
Abbiamo rivolto qualche domanda all’autore.
Qui sotto l’intervista.
Ha vissuto a lungo a
Singapore?
Ho vissuto
con continuità a Singapore per un paio d’anni, grosso modo nei primi anni Novanta,
anche se il mio primo impatto con la città risale al 1975, quando festeggiavano
il primo decennio dalla data di scissione dalla Federazione Malese, e da allora
ho continuato a visitarla con una certa frequenza. Ancora oggi, quando ci vado,
nonostante sia ormai molto diversa dalla Singapore di cui mi sono lasciato
affascinare tanti anni fa, provo un brivido di strana eccitazione a percorrerne
le strade.
Che cosa pensa della maniera
in cui è amministrata Singapore?
Ho sempre
pensato che la città sia amministrata in modo esemplare e considerato Lee Kwan
Yew come uno dei più grandi personaggi politici del ventesimo secolo. In
particolare mi ha sempre infuriato il trattamento che a suo tempo gli venne
riservato dalla stampa internazionale che lo bollò come un despota per il solo
fatto di avere vietato la distribuzione di alcuni giornali e riviste stranieri.
Ricorderà sicuramente l’avvenuto, Mr Lee aveva chiesto - pretesa a mio avviso
assolutamente sensata e legittima - che a eventuali smentite da parte
singaporeana a quanto dai media pubblicato fosse dedicata la stessa visibilità
della notizia originale, richiesta alla quale i giornali si rifiutarono di
ottemperare, scatenando la reazione del governo che ne bloccò la distribuzione.
In poche
parole, sono così entusiasta di come viene gestita la cosa pubblica a Singapore
da considerare un confronto con l’Italia del tutto improponibile. Ciò non
significa che io abbia una visione del tutto acritica, su alcune argomenti non
sono d’accordo, come per esempio la severità, a mio avviso eccessiva, con cui
vengono puniti reati riguardanti sostanze illecite, ma ritengo anche che la
cosa vada vista nel contesto geopolitico locale, Singapore si limita ad
adeguarsi alle politiche dei suoi vicini che non sono certo più indulgenti in
materia.
Perché ha ambientato il
romanzo a Singapore?
Rispetto al
perché ho ambientato il mio romanzo a Singapore, la risposta è semplice.
All’epoca -
primi anni Novanta - avevo scritto solo due romanzi, entrambi ambientati in
America Latina, dove avevo vissuto alcuni anni prima, e sentivo il bisogno di
usare come scenari i posti che frequentavo in quel periodo. Inoltre avevo
deciso di cimentarmi con il genere hard
boiled americano, in particolare con quello che considero il mio romanzo
preferito, The Long Goodbye, di
Raymond Chandler, scrivendone una sorta di remake,
ambientato in Asia e ai giorni nostri, invece che nella Los Angeles degli anni Cinquanta,
e di usare un protagonista italiano invece che americano. Mi serviva inoltre un
setting urbano e mi era sembrata che
la mia Singapore rispondesse ai requisiti atti allo scopo che mi proponevo,
ovvero quello di rappresentare un uomo alienato, malinconico, asociale, che
vive in una città dove potere essere in completa solitudine.
Come agisce per Lei l’Asia a
livello identitario?
Per quanto
riguarda l’influenza dell’Asia sulla mia identità, ho vissuto in tutto dieci
anni, forse più, fra Giappone, Sud Est Asiatico, Subcontinente Indiano e altre
località asiatiche, ho un figlio che ha scelto di vivere e lavorare in Cambogia
e ancora oggi mi ritrovo a passare più tempo in Indonesia, che in Europa. Che
dire? L’Asia, di cui ho assimilato tradizioni, lingue, cultura, filosofia, ha
sicuramente fatto di me un uomo diverso da quello che sarei stato se fossi
rimasto a vivere a Milano, dove sono nato e cresciuto, anche se non sono in
grado di valutare come e quanto.
Vuole ricordare altri suoi
romanzi?
Con il mio vero nome ho
firmato la trilogia di Rodolfo Capitani, composta da Incontro a Daunanda (Premio
Scerbaneco 2006), Singapore Sling (Premio Tedeschi 1998 e soggetto del
film Belgrado Sling, dove la capitale serba prende il posto di
Singapore) e Le zanzare di Zanzibar, oltre ai romanzi Otherside (terzo
classificato al Premio Azzeccagarbugli 2011), Solo fango, Un’ombra anche tu
come me, Sankhara (finalista Premio Scerbanenco 2002), I guardiani di
Wirikuta, al monologo teatrale Eclissi e a numerosi racconti e
novelle.
Inoltre, sotto lo
pseudonimo di Jack Morisco, sono autore di una serie di spionaggio comprendente
a oggi sette titoli per la collana Segretissimo Mondadori, centrata sul personaggio
di Oliver McKeown, nome in codice Banshee, già vice presidente per la sede
singaporeana di una banca d'affari svizzera e ora agente operativo del Joint
Intelligence Directorate di Singapore.
Una mia bibliografia
completa è disponibile su Wikipedia.
Informazioni sulla serie
di Banshee sono disponibili a un'altra pagina di Wikipedia.
[Introduzione e
domande di Roberto Bertoni. Risposte di Giancarlo Narciso, 2016, riprodotte col
consenso dell’autore]