Michelangelo Antonioni, Chung Kuo Cina, documentario RAI, 1972. Testo pubblicato, a cura di Lorenzo Cucu con la
collaborazione di Andrea Barbato, Torino , Einaudi, 1974
Una prima constatazione è la
coerenza estetica di Antonioni. Come nelle prime scene della Notte, la telecamera di Chung Kuo Cina si muove con lentezza
inquadrando per tempi lunghi quanto cade dentro l’inquadratura mentre si
ascoltano i rumori dell’esterno, nel caso della Cina il traffico allora ancora
scarso, le voci fuori campo, i suoni di natura e urbani. I volti sono spesso in
primo piano. La rappresentazione della Cina da parte di Antonioni ci sembra
prima di tutto umana e universalistica.
Rivelatrice la prefazione dell’autore,
che confessa di avere avuto un’idea un che fiabesca della Cina prima di andarci
per girare il documentario e cambiare totalmente prospettiva, con un atto che
egli stesso ritiene di “modestia” appresa dai cinesi (p. VIII), per rivolgersi
invece alla realtà del “paesaggio umano” e dichiarando: “mi sembra positivo non
aver voluto insistere nella ricerca di una Cina immaginata, di essermi affidato
alla realtà visibile” (p. IX).
Antonioni manifesta inoltre la
coscienza dei limiti della propria impresa artistica in Cina, rendendosi conto,
a differenza di altri intellettuali che viaggiarono in Cina nello stesso
periodo, che quanto ha compiuto è semplicemente una raffigurazione dei “cinesi
che ho potuto riprendere in poche settimane di lavoro”. Correttamente, a nostro
parere, ritiene che anche le scene “organizzate” imposte dalle autorità cinesi
non sono una forzatura della realtà, ma fanno parte dell’“immagine che i cinesi
vogliono dare di se stessi” (p. X).
Ne consegue un lavoro non
arrogante, coscientemente parziale, né celebrativo, né denigratorio e per
questo migliore dei reportage alteri e saccenti di altri.
Davvero impressionante, e senz’altro conseguenza di totale incomprensione del punto di vista del regista italiano, la stroncatura da parte dei dirigenti cinesi nel 1974, che oggi si legge online su Peking Review. O, come scrisse Umberto Eco all’epoca, il problema era il differente approccio alle sovrastrutture simboliche da parte di di due culture diverse (citato da Eric Hayot in The Hypothetical Mandarin).
Diverso il giudizio cinese di oggi se un funzionario come Li Xiaodu nota in China Commentary:
Davvero impressionante, e senz’altro conseguenza di totale incomprensione del punto di vista del regista italiano, la stroncatura da parte dei dirigenti cinesi nel 1974, che oggi si legge online su Peking Review. O, come scrisse Umberto Eco all’epoca, il problema era il differente approccio alle sovrastrutture simboliche da parte di di due culture diverse (citato da Eric Hayot in The Hypothetical Mandarin).
Diverso il giudizio cinese di oggi se un funzionario come Li Xiaodu nota in China Commentary:
“Today we can see traces of the director’s intentions in Antonioni’s China. However, we also recognise it is still a good documentary because it presents different aspects of the country, not only catching the enthusiasm of the revolution, but also quiet streets in Beijing, and quiet moments in people’s daily lives. It is not like Leni Riefenstahl’s Triumph of the Will and Olympia, which were made purely for propaganda purposes. But I still remember furious editorials in newspapers, criticizing Antonioni’s China because it intentionally uglified our great socialist homeland”.
[Roberto Bertoni]