[Stoker's Land (Ireland 2016). Foto Rb]
La fantasia umana più intima è direttamente collegata alla paura umana più intima: la morte. Cosa c’è di più umano che avere paura delle morte? La consapevolezza che, inevitabilmente, a un certo punto tutti dovremo smettere di esistere getta da sempre un’ombra sulla mente dell’uomo. Il nostro desiderio di infinto non lo accetta. L’amore, letterariamente considerato antitesi della morte in quanto forza vitale per eccellenza, non può comunque risparmiare l’uomo dal suo destino: tutto finisce con la morte. “Amatevi come compagni di viaggio, con questo pensiero d’avere a lasciarvi […]” [1]: il Manzoni non risparmia i suoi Promessi Sposi da questa amara consapevolezza, e tramite le parole di Padre Cristoforo pone sulla felicità ancora in bocciolo dei due la triste realtà dei fatti. Del resto, la rappresentazione metaforica della vita come un viaggio destinato a finire “in un gran dolore” [2] è uno dei topoi più comuni della letteratura. E se è vero che la letteratura riflette la vita, questo la dice lunga sull’uomo e le sue ossessioni.
Il discorso di Padre Cristoforo, rivolto a due innamorati
prossimi al matrimonio, non è certo incoraggiante: bel modo di iniziare una
relazione pensando alla sua inevitabile fine. Sorvolando sulla seconda parte del
discorso del frate – ci condurrebbe ad un campo troppo complesso – che fa
riferimento alla fede cristiana in una vita dopo la morte, io credo che questo
pezzo del Manzoni racchiuda in sé un pensiero che più intimamente umano non si
può: quello della morte che incombe anche sulle cose più belle. La morte
annulla tutto e non c’è niente che si possa fare. Niente, a parte immaginare.
Da qui la fantasia più profonda degli uomini: sconfiggere non solo la paura
della morte – le religioni ci provano da secoli – ma la morte stessa, diventare
immuni alla morte.
Questo spiega l’immensa popolarità della fantasia
vampiresca: i vampiri sono immortali. La letteratura popolare vampiresca ha
radici antiche, e va fatta risalire alla notte dei tempi: leggende sui ‘non
morti’ si possono trovare, seppur in varianti consistenti, in innumerevoli culture.
Non è inoltre un caso che negli ultimi decenni la
letteratura vampiresca sia più in voga che mai: nelle nostre frenetiche
giornate il pensiero della morte ci terrorizza, viene tenuto a distanza, è sdegnosamente
scatonato. La perdita generale della religione e della spiritualità nella
società contemporanea ha creato ansia sulla morte come non mai: era in certo senso
rassicurante avere l’inferno o il paradiso ad attenderci. Almeno sapevamo cosa
aspettarci. Ora non abbiamo altro che incertezze. Il non sapere è tremendo, il
senso di vuoto insopportabile. Il successo della fantasia vampiresca ne è la diretta
conseguenza.
Un
secondo aspetto che ha contribuito alla fortuna del vampiro è a mio avviso il richiamo
sessuale che esercita. In una società dove l’immagine, la bellezza, la
giovinezza e il sex appeal sono
tutto, come poteva non regnare la figura del fascinoso vampiro? A questo punto è
però necessario interromperci per puntualizzare che quest’ultima caratteristica
vampiresca non è radicata nelle tradizioni popolari – in cui i ‘non morti’ sono
esseri sporchi e ripugnanti – ma è di origine relativamente recente: precisamente,
va fatta risalire a 200 anni fa. Il momento: estate 1816. Il luogo: Villa Diodati,
nei pressi di Ginevra. Lord Byron, in volontario esilio dall’Inghilterra, raduna
un singolare gruppetto di amici, tra cui: Jane ‘Claire’ Clairmont, giovane
amante del poeta, incinta di una figlia; Percy Bysshe Shelley, la relativa
innamorata Mary Gordwin (la futura Mary Shelley) e il loro bambino William. Ma
in quella casa, in mezzo a scrittori e a poeti, c’è anche un giovane di cui a
stento oggi ci si ricorda il nome: John William Polidori, compagno di viaggio e
medico personale di Byron. Confinati in casa
dal tempo inclemente – celebri le parole di Mary Shelley, “it proved a wet, ungenial summer, and incessant rain often confined us for days to the
house” [3] – la comitiva si intrattiene leggendo storie di fantasmi.
La proposta di Byron “we will each write a ghost story” [4] si rivelerà cruciale per la letteratura gotica. Due capolavori
hanno infatti origine da questa scommessa tra amici: Frankenstein della diciottenne Mary e The Vampyre di Polidori [5]. Ma mentre il primo porta all’autrice notorietà
ininterrotta sin dal momento della pubblicazione, The Vampyre gode di uno straordinario successo alla sua uscita
(anche perché erroneamente – e convenientemente – attribuito a Byron), ma ai
giorni nostri il nome John Polidori non suscita molte reazioni. Anche fra i
suoi contemporanei, comunque, “il povero Polidori” – sempre citando Mary
Shelley [6] – non era certo una celebrità. Il racconto lancia la
gloriosa carriera dei vampiri, ma il suo autore rimane nell’ombra. Deluso dalla
vita e indebitato fino al collo, si suicida ad appena ventisei anni. Eppure lettori,
romanzieri e autori telesitivi e cinematografici devono molto a Polidori: il
giovane medico stabilisce infatti il canone del vampiro così come tutti noi lo
conosciamo. La storia risulta oggigiorno un po’ trita, ma proprio perché è
stata modello di tutta successiva narrativa vampiresca.
Polidori introduce tre aspetti che distinguono il vampiro moderno da quello delle leggende popolari, e che rimangono più o meno invariati in tutte le storie a seguire.
Innanzitutto, l’attrattiva fisica: il protagonista di Polidori, Lord Ruthven, è un uomo virile, dotato di un fascino cupo a cui le sue vittime non riescono a sottrarsi. I melanconici occhi grigi e il marmoreo pallore attraggono l’attenzione di coloro che incrociano la sua strada.
Secondo, il lignaggio aristocratico: d’ora in poi il
vampiro non sarà più un contadino che dalla tomba fa incursioni nei villaggi
terrorizzando villici. Il vampiro è ora un nobiluomo, dotato di risorse
finanziarie, servitori e lussuose dimore.
Terzo, il vampiro si muove disinvolto tra i salotti della
buona società: perfettamente inserito a livello sociale, Lord Ruthven è elegante,
ben vestito, ha modi raffinati ed è un brillante conversatore. Tutt’altra cosa
che il maleodorante, solitario mostro notturno delle storie tradizionali. Tali
caratteristiche sono chiare e definite fin nella prima pagina del racconto.
La trama è breve e lineare, e il narratore extradiegetico
filtra il racconto attraverso la prospettiva di Aubrey, giovane gentiluomo
inglese, intriso di ideali tanto onorevoli quanto poco realistici. Aubrey
conosce il misterioso Lord Ruthven in uno dei tanti salotti londinesi
frequentati da quest’ultimo, ne rimane affascinato e decide di parire per il
suo grand tour insieme a lui. Non
passa molto tempo però prima che Aubrey si renda conto che l’uomo che
l’accompagna ha qualcosa di sinistro e perverso, e a Roma le strade dei due si
separano. Il ragazzo si reca in Grecia, dove si innamora di una fanciulla pura
e semplice, Ianthe. L’idillio tra i due giovani è ben presto interrotto dalla
morte di lei, uccisa in circostanze oscure. Sconvolto, Aubrey cade malato. A
questo punto ricompare Lord Ruthven, con cui il ragazzo si rimette in viaggio
pur nutrendo dei sospetti sulla sua natura. Durante un attacco di briganti,
Ruthven viene ferito e ucciso. Prima di spirare fa giurare ad Aubrey di non
fare parola con nessuno della sua morte per un anno e un giorno. Il giovane
rimane scioccato quando, una volta tornato in Inghilterra, rivede il suo
compagno di viaggio conversare affabilmente ai ricevimenti. I sospetti di
Aubrey si fanno sempre più concreti ed allarmanti, ma il ragazzo è vincolato al
silenzio dalla promessa fatta. La frustrazione lo porta ad estraniarsi dal
mondo circostante per mesi. Considerato ormai un folle, Aubrey viene messo a
conoscenza del matrimonio dell’amata sorella con Lord Ruthven solo il giorno
prima delle nozze, che corrisponde allo scadere dell’anno e un giorno. Allo
scoccare della mezzanotte, finalmente non più costretto a tacere, il giovane
racconta tutto ai suoi tutori, e muore immediatamente dopo. Ma ormai è troppo
tardi: il vampiro è scomparso e la sorella viene trovata morta.
Il racconto si conclude con la vittoria assoluta del
vampiro, che continua a vagabondare indisturbato seducendo e uccidendo giovani
donne. La carica sessuale di Lord Ruthven è strettamente connessa col suo
essere aristocratico: nell’immaginario della sobria middle class inglese esisteva uno stretto legame tra sessualità e
aristocratici, considerati lascivi e indulgenti verso i propri appettiti
sessuali. Inoltre, il potere sessuale che il vampiro esercita sulle sue vittime
è correlato al potere sociale che l’aristocrazia ancora deteneva. Il vampiro è
la rappresentazione di una classe sociale che al tempo stesso suscitava
ripugnanza e attrazione negli animi borghesi. Egli è morto ma tuttavia non lo
è, così come il potere dell’aristocrazia all’inizio del diciannovesimo secolo
era e non era morto. L’associazione di vampiri e aristocratici col sangue è un
ulteriore aspetto in comune: il sangue è la prima cosa a cui si pensa quando si
menziona la figura del vampiro, e il sangue è ciò che rende tali gli
aristocratici, è ciò li distingue dall’ ‘uomo comune’.
Il vampiro di Polidori è quindi fortemente antiborghese. Egli è totalmente
al di fuori delle regole morali e sociali in cui si riconosceva la middle class. Eppure la letteratura
vampiresca godette di straordinaria popolarità proprio in questa middle class. La spiegazione è intuitiva,
e a mio parere vale anche per il mondo contemporaneo: il vampiro, che vive per
soddisfare le proprie pulsioni, incarna quella liberazione sessuale, quella
trasgressione che il bravo cittadino non può o non ha il coraggio di
concedersi. Il vampiro trasgredisce le regole sociali e morali, ma lo fa con la
collaborazione delle sue vittime: all’interno del racconto di Polidori, e di
ogni storia di vampiri moderna, le vittime sono in certo senso consenzienti
alla propria rovina. Ruthven esercita un’attrazione ipnotica che le vittime
riconoscono come demoniaca ma a cui non si sottraggono. Egli agisce come
catalizzatore delle pulsioni represse affinchè vengano alla luce. Coloro che
sono portati alla rovina dalle sue attenzioni sono in realtà vittime della
propria debolezza interna. Lo stesso Aubrey
quando incontra per la prima volta Lord Ruthven “determined to observe the
offspring of his fancy, rather than the person before him” [7]. Il vampiro non deve faticare per sedurre le sue vittime, che
sono naturalmente attratte dai suoi “irresistible powers of seduction” [8] e dalla sua “winning tongue” [9]. Del resto, l’elemento sempre implicito ma onnipresente del
racconto è il sesso. L’atto vampiresco del succhiare il sangue non è una parte fondante
della storia e non è mai esplicitato se non in due momenti (l’uccisione di
Ianthe e di Miss Aubrey). Il vampiro di Polidori è essenzialmente il classico rake – libertino – di inizio Ottocento, con
alcuni attributi vampireschi aggiunti a puntino. Per Ruthven il vampirismo è
una mera continuazione del libertinaggio: dedito a tutti i “fashionable vices” [10] della sua classe sociale, egli gira per le capitali europee
dilapidando grandi somme di denaro, scommette, gioca a carte, porta alla rovina
giovani donne, le quali misteriosamente spariscono. La storia scarseggia di
tutto quell’equipaggiamento tradizionale vampiresco, dalla bara alla paura dei
crocifissi, perché in fondo sarebbero state aggiunte non necessarie; la
funzione essenziale del vampiro di Polidori è infatti quella del dongiovanni sempre
‘a caccia’, in questo caso letteralmente, di vittime. Non è un caso che
l’espressione lady-killer per
indicare un donnaiolo stesse prendendo piede proprio nel periodo in cui
Polidori stava scrivendo il racconto. La figura di Lord Ruthven è ricalcata su
quella del famigerato Lord Byron – i punti di contatto tra i due sono evidenti
– cosa che senza dubbio contribuì alla fama dell’opera. Ma se Lord Ruthven è
Byron, allora Aubrey è Polidori: un giovane ingenuo che si mette in viaggio per
l’Europa con un aristocratico famigerato e senza scrupoli; come nel racconto,
il rapporto tra i due è breve e burrascoso. Alla fine dell’estate, Lord Byron
licenzierà il povero Polidori.
Una storia nata per una scommessa, scritta da un
ventunenne destinato a morire suicida pochi anni dopo, pubblicata senza il
consenso dell’autore e attribuita alla persona sbagliata, The Vampyre è stato, e continua ad essere, fertile humus per la
narrativa dell’orrore dei duecento anni successivi alla sua genesi.
[1] A. Manzoni, I
Promessi Sposi (1840), cap. XXXVI.
[3] M. Shelley, Frankenstein:
or The Modern Prometheus (1818), prefazione all’edizione del 1831. L’edizione
qui utilizzata è a cura di M.K. Joseph, Oxford, Oxford University Press, 2008.
[4] Ivi.
[5] W. Polidori, The
Vampyre; A Tale, pubblicato per la prima volta sul New Monthly Magazine nell’aprile del 1819 come “a tale by Lord
Byron”. L’edizione qui utilizzata è a cura di R. Morrison e C. Baldick, Oxford,
Oxford University Press, 2008.
[6] Nella prefazione a Frankenstein,
Mary Shelley accena solo brevemente alla presenza del medico riferendosi a lui
come “poor Polidori”.
[7] The Vampyre, p. 5.
[8] Ivi, p. 7.
[9] Ivi, p. 4.
[10] Ivi, p. 6.