[Old and New (Singapore 2015). Foto Rb]
Souchou Yao, Singapore: The State and the Culture of Excess. Abingdon (UK) e New York, Routledge, 2007
Il volume consta di vari saggi, ciascuno dei quali, spiega l’autore, è
compiuto in sé. È comunque chiaro che questi scritti sono collegati da un filo stretto,
sia sul piano del contenuto, che è un esame di Singapore negli ultimi decenni
da varie angolazioni (sociale, politica, di studi culturali), sia sul piano
metodologico, ovvero un’antropologia culturale d’impostazione ampia, che
dichiara come ispiratore Marshall Sahlins. Più che un esame dettagliato di ogni
parte del volume, preme qui mettere in rilievo alcune idee che ci hanno
particolarmente interessato.
In “The Magic of the Singapore State” (pp. 1-27), è in evidenza il
concetto di comunitarismo (“communitarianism”) come fondamento della compagine
nazionale di Singapore, con una “distinct postcolonial gesture” perché
“capitalist modernity tends to nurture self-willing individualism in the West”,
mentre “an Asian state like Singapore must avoid such ill by single-mindedly
embracing ‘the community’ as the national ideal” (p. 5).
Si ha quindi uno strano paradosso di uno Stato capitalista che appoggia
la comunità, sia nel senso delle varie etnie, sia nel senso dello spirito di
gruppo e delle facilitazioni e politiche sociali e di welfare, coadiuvato da un’immagine morale del proprio operato e dei
propri rappresentanti. Si direbbe un’egemonia fondata su “rule by ‘moral
authority’” (p. 20), basata su valori percepiti come “asiatici”[1].
nonostante la modernizzazione occidentalizzata sul piano tecnologico (“a blend
of Asian culture and modern capitalist ways”) [2].
Il tutto, come afferma Yao nel saggio intitolato “Trauma and the
‘Culture of Excess’” (pp. 28-49), si trasforma in uso ideologico da parte del
partito di governo, il PAP:
“In
Singapore, the telling of the nation’s story is […] compulsive. It makes a
great deal of PAP’s good work and helps to map out its ideological vision. It
dramatizes the chaos and struggles of the past in order to energize its present
endeavours. And not the least, it becomes the knowledge of the everyday,
defining the horizon of hope and moulds people’s responses to the State” (p.
47).
Una
lettura che si può anche invertire sull’altro lato della medaglia, come si
legge nel saggio “I Not Stupid”, derivato
da un film del 2002, il cui “central message appeals to what people know so
well: that the State is the ‘cause’ of the emotional sterility and oppressive
anxiety one feels about life – even if it has also brought wealth and political
stability” (p. 140).
[Roberto
Bertoni]