19/01/16

Souchou Yao, SINGAPORE: THE STATE AND THE CULTURE OF EXCESS


[Old and New (Singapore 2015). Foto Rb]


Souchou Yao, Singapore: The State and the Culture of Excess. Abingdon (UK) e New York, Routledge, 2007


Il volume consta di vari saggi, ciascuno dei quali, spiega l’autore, è compiuto in sé. È comunque chiaro che questi scritti sono collegati da un filo stretto, sia sul piano del contenuto, che è un esame di Singapore negli ultimi decenni da varie angolazioni (sociale, politica, di studi culturali), sia sul piano metodologico, ovvero un’antropologia culturale d’impostazione ampia, che dichiara come ispiratore Marshall Sahlins. Più che un esame dettagliato di ogni parte del volume, preme qui mettere in rilievo alcune idee che ci hanno particolarmente interessato.

In “The Magic of the Singapore State” (pp. 1-27), è in evidenza il concetto di comunitarismo (“communitarianism”) come fondamento della compagine nazionale di Singapore, con una “distinct postcolonial gesture” perché “capitalist modernity tends to nurture self-willing individualism in the West”, mentre “an Asian state like Singapore must avoid such ill by single-mindedly embracing ‘the community’ as the national ideal” (p. 5).

Si ha quindi uno strano paradosso di uno Stato capitalista che appoggia la comunità, sia nel senso delle varie etnie, sia nel senso dello spirito di gruppo e delle facilitazioni e politiche sociali e di welfare, coadiuvato da un’immagine morale del proprio operato e dei propri rappresentanti. Si direbbe un’egemonia fondata su “rule by ‘moral authority’” (p. 20), basata su valori percepiti come “asiatici”[1]. nonostante la modernizzazione occidentalizzata sul piano tecnologico (“a blend of Asian culture and modern capitalist ways”) [2].

Il tutto, come afferma Yao nel saggio intitolato “Trauma and the ‘Culture of Excess’” (pp. 28-49), si trasforma in uso ideologico da parte del partito di governo, il PAP:

“In Singapore, the telling of the nation’s story is […] compulsive. It makes a great deal of PAP’s good work and helps to map out its ideological vision. It dramatizes the chaos and struggles of the past in order to energize its present endeavours. And not the least, it becomes the knowledge of the everyday, defining the horizon of hope and moulds people’s responses to the State” (p. 47).

Una lettura che si può anche invertire sull’altro lato della medaglia, come si legge nel saggio “I Not Stupid”, derivato da un film del 2002, il cui “central message appeals to what people know so well: that the State is the ‘cause’ of the emotional sterility and oppressive anxiety one feels about life – even if it has also brought wealth and political stability” (p. 140).


[Roberto Bertoni]


[1] Nel saggio “’Yellow Culture’, White Peril”, pp. 50-74.
[2] A p. 96 del saggio “Pain, Words, Violence”, pp. 75-96.