[Bookshop in Kinsale (2015). Foto Rb]
Stefan Zweig, Mendel dei libri. Prima edizione 1929. Milano, Adelphi, 2008
Il narratore
in prima persona si ritrova in un caffè viennese di periferia che frequentava
tanti anni prima. Emerge un ricordo, prima vago, poi sempre più pressante
finché si definisce: era il luogo in cui aveva conosciuto Jacob Mendel, un
appassionato di libri, dotato di memoria portentosa, capace di ricordare
titoli, contenuto e dettagli bibliografici di ogni libro a sua conoscenza,
consultato da docenti e professionisti, nondimeno uno spiantato, socialmente, ebreo
russo che viveva in Austria senza documenti ufficiali se non un permesso di
vendere libri porta a porta.
Fisso nel
proprio mondo cartaceo, restio a mediazioni con la burocrazia, torre d’avorio
in qualche modo, si ritrovò in carcere per aver scritto lettere relative
all’acquisto di una rivista bibliografica con un libraio francese. Essendo la
Francia nemica dell’Austria durante la prima guerra mondiale, fu chiuso in un campo
di prigionia per due anni. Uscitone impoverito e demoralizzato, iniziò un
periodo di decadimento finché, persa la memoria, rubati dei panini per
nutrirsi, fu questo il pretesto che spinse il nuovo padrone del caffè a
bandirlo dal suo locale, fino alla morte per polmonite.
Le ultime fasi
della vita di Mendel sono narrate da una cameriera anziana, ancora impiegata
nel caffè, col che si danno due voci narrative che entrambe guardano il
personaggio principale dall’esterno e con rispetto, rendendone la psicologia
senza immedesimazione diretta nei suoi pensieri.
Si tratta di
un’allegoria della cultura disinteressata, non prona nei confronti di alcun
tipo di commercializzazione.
Mendel
rappresenta inoltre la non massificazione:
“[…] fui assalito da una specie di sgomento quando, nella penombra di
quella stanza, vidi l’oracolare tavolino in marmo di Jacob. Solo adesso –
anch’io più in là con gli anni – capivo quale grande perdita sia la scomparsa
di uomini simili. Innanzitutto perché l’unicità diventa ogni giorno più
preziosa in questo nostro mondo che irrimediabilmente va facendosi ogni giorno
più uniforme” (p. 29).
La condanna di
Mendel raffigura inoltre il ripensamento della guerra: l’assurdità dell’arresto
di una persona innocua e la distruzione conseguente della sua vita privata
s’innesta sulla considerazione che
“il mondo, smaltita ormai la sua follia, si sta rendendo conto poco a poco
che delle mille crudeltà, dei mille scellerati soprusi di questa guerra, nulla
è stato più insensato, superfluo e quindi moralmente ingiustificabile di quel
raccogliere tutti assieme e stabbiare dietro il filo spinato civili ignari” (P.
41).
[Roberto
Bertoni]