05/02/15

TODOMODO, RIVISTA INTERNAZIONALE DI STUDI SCIASCIANI


Sottotitolo: A Journal of Sciascia Studies. Firenze, Olschki, IV.2014

 
Davvero notevole l’apporto critico annuale che questa rivista arreca agli studi e alle ricerche sulla figura e l’opera di Leonardo Sciascia (1921-1989). Fondata nel 2011 da Francesco Izzo, che oggi la dirige assieme a Carlo Fiaschi, e curata dall’Associazione “Amici di Leonardo Sciascia”, con l’intento precipuo di ravvivare la memoria dello scrittore siciliano, Todomodo esce a novembre di ogni anno e promuove letture, incontri, conversazioni; pubblica documenti inediti, articoli, saggi, recensioni, traduzioni, repertorî bibliografici, materiale iconografico, atti di convegni, che partendo dalla letteratura si confrontano con le arti figurative, la politica, la storia, il diritto, la religione, l’indagine filosofica, la riflessione scientifica, la fotografia, il cinema e il teatro. Proprio il 21-22 novembre del 2014 si è svolto, qui a Napoli, nella prestigiosa sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, il quinto colloquium Leonardo Sciascia e i suoi filosofi.

Questo quarto fascicolo ospita in apertura una foto e un testo del francese Claude Ambroise, curatore delle Opere di Sciascia per Bompiani. Per omaggiare ed essere grati all’amico scomparso a giugno del 2014 lo si ripropone. Un modo delicato e leggero per dirgli Adieu.

Nella rubrica Rassegna sono confluiti i numerosi interventi di Leonardo Sciascia,  Colloquia, IV “1912+1 / 2012+1 Passeggiare nel tempo con Leonardo Sciascia”, che si tenne a Milano a novembre del 2013. A curare gli Atti è Luciano Curreri, esperto mediano di una squadra che fa corpo intorno a temi come la giustizia ingiusta, la giustizia come ossessione e la riflessione sulla condition humaine.

Partendo da 1912+1, il primo testo che Sciascia pubblica con Adelphi (1986), Giorgio Pinotti ci racconta come uno scrittore noto, dopo Laterza, Einaudi, Sellerio e Bompiani, approda al catalogo di una casa editrice ormai consolidata. Ricostruisce ciò che il lettore non vede e non sa: ripercorre attraverso gli scambi epistolari tra agente, autore e direttori editoriali le relazioni e i rapporti che si stabiliscono in privato; in altri termini ripercorre la breve ma intensa collaborazione con Foà e Calasso. A Sciascia piace la fattura dei libri, la compagnia degli autori che vengono pubblicati e l’essere tra amici: vive il passaggio dall’impersonale al familiare, dal grande al piccolo, mentre Adelphi dal libretto unico mira a diventare l’editore del corpus dell’opera romanzata.

Anche l’intervento di Paolo Squillacioti rientra nella ricognizione storica e filologica di un libro poco conosciuto: ne segue la storia editoriale dalla genesi nel 1981 all’incontro con Adriana Asti fino alla stesura definitiva del dattiloscritto con correzioni a mano: 17 capitoli, più uno di note, scritti dal 21 giugno al 12 luglio del 1986. Le bozze corrette presentano l’aggiunta di due capitoli e poche correzioni. Il libro vede la luce a ottobre e si presenta bellissimo, scrive Sciascia.

Più filosofico l’approccio di Gabriele Fichera, che legge nella commistione tra verità e finzione una confluente necessità: aggregazione molecolare continua che nel suo moto attrattivo connette e concorre alla formazione di ogni avvenimento. Si racconta il processo Tiepolo Oggioni, ma intanto si divaga col somigliante, si dialoga con Diderot, Manzoni, Tolstoj e Savinio, e citando quel 1912+1, dedica  di un d’Annunzio scaramantico, si punta con l’immaginario ai differenziali della storia.

Prettamente linguistico il percorso di Paolo Giovannetti che si interroga, da perito narratologico, sul lessema racconto in Sciascia, visto che non corrisponde a ciò che di solito chiamiamo tale. Genere ancipite in Sciascia, legato all’area semantica di récit: ci sono dei fatti realmente accaduti, dei documenti processuali che l’autore registra, filtra, riattiva ed espone ordinando. Ovviamente, nel passaggio alla scrittura, racconta eventi storici che lo coinvolgono personalmente e rimanendo voce omodiegetica, cioè all’interno di ciò che riferisce.

Non solo d’Annunzio: 1912+1 come saggio è la tesi intorno alla quale ruota Luciano Curreri, scommettitore in proprio su ritorni di scrittori, critici e altri revenants (merita un’occhiata, a questo proposito, il suo denso e originale Misure del ritorno, Greco & Greco, Milano 2013). Ritenuto un cattivo maestro e processato dal settarismo fazioso della sinistra, d’Annunzio è ritornato e, dislagante nella sua trama di rinvii e richiami analogici, resiste: con lui bisognava e bisogna fare i conti fino in fondo. Gli si riconosce che, al di là del superomismo e del dannunzianesimo, come autore e personaggio ha dominato e influenzato il costume e lo stile di un’epoca. La postura di Sciascia, negli omologanti anni Ottanta, è quella di volgersi a una modalità metaletteraria, antiquaria e museale, divagante e centrifuga, che gli permette di costruire una inchiesta giudiziaria e rifarsi alla scrittura come saggio: vale a dire di essere altrove e con se stesso.

Una lettura trasversale è quella di Ivan Pupo. L’attenzione va infatti al patto Gentiloni che, con la fine del non expedit, stabilisce che non conviene restare fuori, ma è meglio per i cattolici allearsi con i liberali e partecipare alla gestione politica dello Stato.  Inizia così quel lungo tempo di transazioni e di accordi che, attraverso i patti lateranensi, i compromessi storici tra cattolici e comunisti, arriva fino al patto del Nazareno e finisce con l’atrofizzare la vita politica di un paese. Si capisce, dal contesto sociale della belle époque, che l’assoluzione della contessa Tiepolo, la quale ha sparato all’attendente Polimanti, è una sentenza di classe, scaturita dal privilegio che godeva l’esercito.

Sul rapporti complessi tra diritto e letteratura interviene Alessandro Provera con attenzione ad alcuni istituti giuridici emersi durante l’istruttoria dibattimentale del processo (va segnalato sull’argomento il trattato di Alfonso Malinconico, Diritto e letteratura: Manzoni e Pirandello, con prefazione di Nino Borsellino (Empirìa, Roma 2008) e al peso mediatico che la società del tempo ha avuto sulla vicenda penale della signora contessa. Riflette su premeditazione e legittima difesa all’interno di un quadro indiziario ambivalente e difficile da interpretare; e poi sul fatto che si è dato credito a una interpretazione dei fatti e deciso un verdetto, tenendo presente dell’opinione pubblica. Come linea difensiva l’avvocato Raimondo, rovesciando il luogo comune della vis grata puellae, imposta la sua arringa tutta sull’aggressione e sul mancato consenso della donna vittima.

Oggetto di riflessione della condizione umana era per Sciascia la letteratura, scrive Ambroise; e passando dall’essere-per-la-morte a l’essere-per-l’assassinio pensa al racconto inscindibile dalla sua stratificazione testuale. E ovviamente alla sua relazione oggettiva, immaginaria, proprio perché implica un racconto.

Andrea Kerbaker ci racconta di Sciascia tra bibliofilia ed eros. Non solo amava collezionare i libri, come d’Annunzio, ma uomo di piccola editoria, Sciascia amava anche recuperare autore inediti o dimenticati. Gli autori citati sono Joyce, Lawrence, Marinetti e il poco noto Pompeo Molmenti.

Le fasi del percorso didattico della II B del Liceo classico Parini di Milano, confluito in una lettura scenica, sono riportate nella relazione di Laura Parola. Confrontando testi classici di Lisia, Cicerone, Shakeaspeare, Manzoni e Lee con Sciascia, i ragazzi hanno lavorato a un percorso diacronico sul tema giustizia e potere.

Gabriele Rigola si occupa della trasposizione filmica de L’uomo che ho ucciso (1995) di Giorgio Ferrara, liberamente ispirato a 1912+1 di Sciascia per nobilitare un percorso altro. Non solo i nomi, infatti, ma anche l’impianto sono diversi: il contesto storico di riferimento è abolito e l’ambientazione è spostata a fine secolo, adattata a un pubblico televisivo.

Nella rubrica Letture, Pietro Benzoni si sofferma ad analizzare lo stile del deputato Sciascia, eletto nel partito radicale nel 1979 e rimasto in carica fino al 1983. Prende in esame interrogazioni e interpellanze parlamentari. Il taglio espressivo è breve, icastico, conciso nel denunciare e puntualizzare. La misura adottata è quella della chiarezza raziocinante, del polemista che, rimasto sgomento per il malcostume in atto, esercita la propria alterità e militanza di intellettuale disorganico con attenzione alle parole, insorge contro le mistificazioni di una mala politica in atto.

Apre la rubrica Sudi/ricerche Anita Angelone che si occupa in lingua inglese di Gian Maria Volonté and performance as adaptation, attore versatile e interprete privilegiato di Sciascia narratore. Nel passaggio alla trascrizione cinematografica dell’opera letteraria si sottolinea il ruolo avuto da Volonté nel reinterpretare e dare corpo all’intellettuale italiano.

Elisabetta Bacchereti ricostruisce i rapporti tra Luisa Adorno, nom de plume della pisana Mila Curradi Stella, e Sciascia, che si incontrano di persona a Roma nel 1982. Sarà proprio Sciascia a ripubblicare e a scrivere i risvolti di copertina per la Sellerio de L’ultima provincia (1983), cui seguirà poi Le stanze dorate (1985). Tra i due coetanei si stabilisce un’amicizia e la Mila ogni anno invierà a Sciascia una acquaforte, come se si trattasse di scambio di figurine tra scolaretti.

Di un incontro in differita: Sciascia e Prezzolini, ovvero dei ‘cretini’ e dei ‘fessi’ ci ragguaglia Euclide Lo Giudice. In principio c’è il Codice della vita italiana con l’esordio memorabile della divisione dei cittadini in due categorie: i furbi e i fessi, cioè i ladri e gli onesti, i figuranti e quelli che mandano avanti l’Italia. Termini chiave in cui è racchiusa la storia della nostra nazione. Poi arriva Sciascia, glossatore concorde del Codice nel 1982 per l’editore  Giuffrè. Ancora nei rapporti tra cittadini e cosa pubblica, a prevalere è il furbo che non è intelligente. Rientrano tra i fessi, il professore Laurana, don Cecè Melisanda e Candido Munafò, rispettivamente cretino, pazzo e imbecille. Una delle quattro vie d’uscita praticabili, per difendersi, è continuare a fare il fesso, cioè fingere di non capire.

Domenico Scarpa si occupa della preistoria di Sciascia, cioè del periodo di formazione dello scrittore e delle sue collaborazioni a giornali e riviste. Separatista per reazione all’ingerenza del potere romano e antifascista, Sciascia, che nel 1945 ha abbandonato lo statico Partito comunista, dal 1948 al 1951 collabora alla rivista “La prova”, a “Sicilia del Popolo” e “Il Popolo”, testate regionali e nazionali della Democrazia cristiana. Che Sciascia abbia frequentato e gravitato nell’area democristiana (con uomini come Giuseppe Alessi) e condiviso lotte, speranze liberali e programmi di rinascita, sembra fuor di dubbio. Ma l’attivista Sciascia, all’indomani delle elezioni regionali del 1951, quando la Dc entra in collusione con mafia e neofascisti, deluso e soccombente, è già altrove: prende le distanze col suo non essere d’accordo.

Nella rubrica Persi e ritrovati, Enrico Fantini ricostruisce la collaborazione di Sciascia a “di guardia”, rivista di regime fascista che esce a Caltanissetta dal 1940 al 1943. Il giovane camerata vi partecipa con dodici articoli, che segneranno un viaggio verso una autocoscienza intellettuale e lo accomuneranno ad altri colleghi, costretti a vivere nello stesso ambiente una condizione inevitabile. Ad incoraggiare Fantini figura la postfazione di Alberto Casadei.

Nella rubrica Contraddisse e si contraddisse, Guido Vitiello si interroga su ciò che rimane ne L’Affaire Moro, dopo trentacinque anni; costruito come un pamphlet, è un libro che sfugge alla regola tassonomica, iper-letterario e ricco di allusioni. Un libro allegorico e cristiano, dove un corpo sacrificale viene immolato al Potere, un politicante muore da statista. Ne discute tra filologia e ideologia con Bruno Pischedda, Miguel Gotor e Massimo Bordin.

Nella rubrica Traduzioni c’è l’intervista in versione bilingue di Giovanna Lombardo e Laurence Van Goethem al professore emerito Mario Fusco, traduttore e amico di Sciascia. La conversazione verte non solo sulla traduzione e le sue difficoltà, il carteggio, i viaggi, la sistemazione postuma presso Fayard dell’opera completa di Sciascia, ma si allarga ad altri nomi: Bonnefoy, Caillois e Pennac; tra gli italiani tradotti in Francia, dopo d’Annunzio e Moravia, si passa ai contemporanei Consolo, Camilleri, Eco, Buttitta, Bonaviri, Bufalino e Savinio.

È la traduttrice Rosa Lombardi a tracciare il profilo di Lü Tongliu e della situazione in Cina che, dopo la opprimente Rivoluzione culturale, si apre politicamente all’esterno, favorendo gli scambi commerciali e culturali. In questa apertura delle frontiere si colloca l’incontro nel 1981 a Roma di Sciascia col futuro traduttore Lü Tongliu e la sinologa Anna Bujetta. Ed è proprio Lü a raccontare e a ricordare al passato remoto quell’incontro durato due giorni e a fare un ritratto complessivo dello scrittore siciliano.

Nella rubrica Iconografia, Lavinia Spalanca si occupa dell’epistolario tra Luigi Bartolini e il giovane Sciascia, direttore di Galleria. Tutto comincia nel 1952 con una recensione positiva a Pianete che Bartolini gli ha inviato; e lo scambio va avanti fino al 1955 quando il carteggio si interrompe. Sciascia ne apprezza lo spirito alfieriano, vigoroso e fuori da ogni consorteria, la poesia dolorante e il candore, soprattutto vede nel poliedrico Bartolini, nonostante il risentimento privato, un modello di moralità.

Non manca, infine, una chicca dello stesso Sciascia: un testo di un incontro che si tenne del 1971 ad Assisi sul tema della speranza. Il laico Sciascia, scrittore di fatti, sostiene che la religio è un problema privato e che gli atei sono una invenzione dei preti.

        
[Alessandro Carandente]