Sottotitolo: A Journal of Sciascia Studies. Firenze, Olschki, IV.2014
Davvero notevole l’apporto critico annuale che questa
rivista arreca agli studi e alle ricerche sulla figura e l’opera di Leonardo
Sciascia (1921-1989). Fondata nel 2011 da Francesco Izzo, che oggi la dirige assieme
a Carlo Fiaschi, e curata dall’Associazione “Amici di Leonardo Sciascia”, con l’intento
precipuo di ravvivare la memoria dello scrittore siciliano, Todomodo esce a
novembre di ogni anno e promuove letture, incontri, conversazioni; pubblica
documenti inediti, articoli, saggi, recensioni, traduzioni, repertorî
bibliografici, materiale iconografico, atti di convegni, che partendo dalla
letteratura si confrontano con le arti figurative, la politica, la storia, il
diritto, la religione, l’indagine filosofica, la riflessione scientifica, la
fotografia, il cinema e il teatro. Proprio il 21-22 novembre del 2014 si è
svolto, qui a Napoli, nella prestigiosa sede dell’Istituto Italiano per gli
Studi Filosofici, il quinto colloquium Leonardo Sciascia e i suoi filosofi.
Questo quarto fascicolo ospita in apertura una foto e un
testo del francese Claude Ambroise, curatore delle Opere di Sciascia per
Bompiani. Per omaggiare ed essere grati all’amico scomparso a giugno del 2014 lo
si ripropone. Un modo delicato e leggero per dirgli Adieu.
Nella rubrica Rassegna sono
confluiti i numerosi interventi di Leonardo Sciascia, Colloquia, IV “1912+1 / 2012+1 Passeggiare
nel tempo con Leonardo Sciascia”, che si
tenne a Milano a novembre del 2013. A curare gli Atti è Luciano Curreri,
esperto mediano di una squadra che fa corpo intorno a temi come la giustizia
ingiusta, la giustizia come ossessione e la riflessione sulla condition humaine.
Partendo da 1912+1, il primo testo che Sciascia pubblica
con Adelphi (1986), Giorgio Pinotti ci racconta come uno scrittore noto, dopo
Laterza, Einaudi, Sellerio e Bompiani, approda al catalogo di una casa editrice
ormai consolidata. Ricostruisce ciò che il lettore non vede e non sa:
ripercorre attraverso gli scambi epistolari tra agente, autore e direttori
editoriali le relazioni e i rapporti che si stabiliscono in privato; in altri
termini ripercorre la breve ma intensa collaborazione con Foà e Calasso. A
Sciascia piace la fattura dei libri, la compagnia degli autori che vengono pubblicati
e l’essere tra amici: vive il passaggio dall’impersonale al familiare, dal
grande al piccolo, mentre Adelphi dal libretto unico mira a diventare l’editore
del corpus dell’opera romanzata.
Anche
l’intervento di Paolo Squillacioti rientra nella ricognizione storica e filologica
di un libro poco conosciuto: ne segue la storia editoriale dalla genesi nel
1981 all’incontro con Adriana Asti fino alla stesura definitiva del
dattiloscritto con correzioni a mano: 17 capitoli, più uno di note, scritti dal
21 giugno al 12 luglio del 1986. Le bozze corrette presentano l’aggiunta di due
capitoli e poche correzioni. Il libro vede la luce a ottobre e si presenta
bellissimo, scrive Sciascia.
Più
filosofico l’approccio di Gabriele Fichera, che legge nella commistione tra
verità e finzione una confluente necessità: aggregazione molecolare continua
che nel suo moto attrattivo connette e concorre alla formazione di ogni
avvenimento. Si racconta il processo Tiepolo Oggioni, ma intanto si divaga col somigliante,
si dialoga con Diderot, Manzoni, Tolstoj e Savinio, e citando quel 1912+1,
dedica di un d’Annunzio scaramantico, si
punta con l’immaginario ai differenziali della storia.
Prettamente
linguistico il percorso di Paolo Giovannetti che si interroga, da perito
narratologico, sul lessema racconto in Sciascia, visto che non corrisponde a
ciò che di solito chiamiamo tale. Genere ancipite in Sciascia, legato all’area
semantica di récit: ci sono dei fatti realmente accaduti, dei documenti processuali
che l’autore registra, filtra, riattiva ed espone ordinando. Ovviamente, nel
passaggio alla scrittura, racconta eventi storici che lo coinvolgono
personalmente e rimanendo voce omodiegetica, cioè all’interno di ciò che
riferisce.
Non solo d’Annunzio:
1912+1 come saggio è la tesi intorno alla quale
ruota Luciano Curreri, scommettitore in proprio su ritorni di scrittori,
critici e altri revenants (merita un’occhiata, a questo proposito, il suo denso e
originale Misure del ritorno,
Greco & Greco, Milano 2013). Ritenuto
un cattivo maestro e processato dal settarismo fazioso della sinistra, d’Annunzio
è ritornato e, dislagante nella sua trama di rinvii e richiami analogici,
resiste: con lui bisognava e bisogna fare i conti fino in fondo. Gli si
riconosce che, al di là del superomismo e del dannunzianesimo, come autore e
personaggio ha dominato e influenzato il costume e lo stile di un’epoca. La
postura di Sciascia, negli omologanti anni Ottanta, è quella di volgersi a una
modalità metaletteraria, antiquaria e museale, divagante e centrifuga, che gli
permette di costruire una inchiesta giudiziaria e rifarsi alla scrittura come
saggio: vale a dire di essere altrove e con se stesso.
Una
lettura trasversale è quella di Ivan Pupo. L’attenzione va infatti al patto
Gentiloni che, con la fine del non expedit, stabilisce che non conviene restare
fuori, ma è meglio per i cattolici allearsi con i liberali e partecipare alla gestione
politica dello Stato. Inizia così quel
lungo tempo di transazioni e di accordi che, attraverso i patti lateranensi, i
compromessi storici tra cattolici e comunisti, arriva fino al patto del
Nazareno e finisce con l’atrofizzare la vita politica di un paese. Si capisce, dal
contesto sociale della belle époque, che l’assoluzione della contessa Tiepolo, la
quale ha sparato all’attendente Polimanti, è una sentenza di classe, scaturita
dal privilegio che godeva l’esercito.
Sul
rapporti complessi tra diritto e letteratura interviene Alessandro Provera con
attenzione ad alcuni istituti giuridici emersi durante l’istruttoria
dibattimentale del processo (va segnalato sull’argomento il trattato di Alfonso
Malinconico, Diritto e letteratura: Manzoni e Pirandello, con prefazione di
Nino Borsellino (Empirìa, Roma 2008) e al peso mediatico che la società del
tempo ha avuto sulla vicenda penale della signora contessa. Riflette su
premeditazione e legittima difesa all’interno di un quadro indiziario
ambivalente e difficile da interpretare; e poi sul fatto che si è dato credito
a una interpretazione dei fatti e deciso un verdetto, tenendo presente dell’opinione
pubblica. Come linea difensiva l’avvocato Raimondo, rovesciando il luogo comune
della vis grata puellae, imposta la sua arringa tutta sull’aggressione e sul
mancato consenso della donna vittima.
Oggetto
di riflessione della condizione umana era per Sciascia la letteratura, scrive
Ambroise; e passando dall’essere-per-la-morte a l’essere-per-l’assassinio pensa
al racconto inscindibile dalla sua stratificazione testuale. E ovviamente alla
sua relazione oggettiva, immaginaria, proprio perché implica un racconto.
Andrea
Kerbaker ci racconta di Sciascia tra bibliofilia ed eros. Non solo amava
collezionare i libri, come d’Annunzio, ma uomo di piccola editoria, Sciascia amava
anche recuperare autore inediti o dimenticati. Gli autori citati sono Joyce,
Lawrence, Marinetti e il poco noto Pompeo Molmenti.
Le
fasi del percorso didattico della II B del Liceo classico Parini di Milano,
confluito in una lettura scenica, sono riportate nella relazione di Laura
Parola. Confrontando testi classici di Lisia, Cicerone, Shakeaspeare, Manzoni e
Lee con Sciascia, i ragazzi hanno lavorato a un percorso diacronico sul tema
giustizia e potere.
Gabriele
Rigola si occupa della trasposizione filmica de L’uomo che ho ucciso (1995) di
Giorgio Ferrara, liberamente ispirato a 1912+1 di Sciascia per nobilitare un
percorso altro. Non solo i nomi, infatti, ma anche l’impianto sono diversi: il
contesto storico di riferimento è abolito e l’ambientazione è spostata a fine
secolo, adattata a un pubblico televisivo.
Nella
rubrica Letture, Pietro Benzoni si sofferma ad analizzare lo stile del deputato
Sciascia, eletto nel partito radicale nel 1979 e rimasto in carica fino al
1983. Prende in esame interrogazioni e interpellanze parlamentari. Il taglio
espressivo è breve, icastico, conciso nel denunciare e puntualizzare. La misura
adottata è quella della chiarezza raziocinante, del polemista che, rimasto
sgomento per il malcostume in atto, esercita la propria alterità e militanza di
intellettuale disorganico con attenzione alle parole, insorge contro le
mistificazioni di una mala politica in atto.
Apre
la rubrica Sudi/ricerche Anita Angelone che si occupa in lingua inglese di Gian
Maria Volonté and performance as adaptation, attore versatile e interprete
privilegiato di Sciascia narratore. Nel passaggio alla trascrizione
cinematografica dell’opera letteraria si sottolinea il ruolo avuto da Volonté
nel reinterpretare e dare corpo all’intellettuale italiano.
Elisabetta
Bacchereti ricostruisce i rapporti tra Luisa Adorno, nom de plume della pisana
Mila Curradi Stella, e Sciascia, che si incontrano di persona a Roma nel 1982.
Sarà proprio Sciascia a ripubblicare e a scrivere i risvolti di copertina per
la Sellerio de L’ultima provincia (1983), cui seguirà poi Le stanze dorate
(1985). Tra i due coetanei si stabilisce un’amicizia e la Mila ogni anno invierà
a Sciascia una acquaforte, come se si trattasse di scambio di figurine tra
scolaretti.
Di
un incontro in differita: Sciascia e Prezzolini, ovvero dei ‘cretini’ e dei ‘fessi’
ci ragguaglia Euclide Lo Giudice. In principio c’è il Codice della vita
italiana con l’esordio memorabile della divisione dei cittadini in due
categorie: i furbi e i fessi, cioè i ladri e gli onesti, i figuranti e quelli
che mandano avanti l’Italia. Termini chiave in cui è racchiusa la storia della
nostra nazione. Poi arriva Sciascia, glossatore concorde del Codice nel 1982
per l’editore Giuffrè. Ancora nei
rapporti tra cittadini e cosa pubblica, a prevalere è il furbo che non è
intelligente. Rientrano tra i fessi, il professore Laurana, don Cecè Melisanda
e Candido Munafò, rispettivamente cretino, pazzo e imbecille. Una delle quattro
vie d’uscita praticabili, per difendersi, è continuare a fare il fesso, cioè
fingere di non capire.
Domenico
Scarpa si occupa della preistoria di Sciascia, cioè del periodo di formazione
dello scrittore e delle sue collaborazioni a giornali e riviste. Separatista
per reazione all’ingerenza del potere romano e antifascista, Sciascia, che nel
1945 ha abbandonato lo statico Partito comunista, dal 1948 al 1951 collabora
alla rivista “La prova”, a “Sicilia del Popolo” e “Il Popolo”, testate
regionali e nazionali della Democrazia cristiana. Che Sciascia abbia frequentato
e gravitato nell’area democristiana (con uomini come Giuseppe Alessi) e
condiviso lotte, speranze liberali e programmi di rinascita, sembra fuor di
dubbio. Ma l’attivista Sciascia, all’indomani delle elezioni regionali del
1951, quando la Dc entra in collusione con mafia e neofascisti, deluso e
soccombente, è già altrove: prende le distanze col suo non essere d’accordo.
Nella
rubrica Persi e ritrovati, Enrico Fantini ricostruisce la collaborazione di
Sciascia a “di guardia”, rivista di regime fascista che esce a Caltanissetta
dal 1940 al 1943. Il giovane camerata vi partecipa con dodici articoli, che
segneranno un viaggio verso una autocoscienza intellettuale e lo accomuneranno
ad altri colleghi, costretti a vivere nello stesso ambiente una condizione
inevitabile. Ad incoraggiare Fantini figura la postfazione di Alberto Casadei.
Nella
rubrica Contraddisse e si contraddisse, Guido Vitiello si interroga su ciò che
rimane ne L’Affaire Moro, dopo trentacinque anni; costruito come un pamphlet, è
un libro che sfugge alla regola tassonomica, iper-letterario e ricco di
allusioni. Un libro allegorico e cristiano, dove un corpo sacrificale viene
immolato al Potere, un politicante muore da statista. Ne discute tra filologia
e ideologia con Bruno Pischedda, Miguel Gotor e Massimo Bordin.
Nella
rubrica Traduzioni c’è l’intervista in versione bilingue di Giovanna Lombardo e
Laurence Van Goethem al professore emerito Mario Fusco, traduttore e amico di
Sciascia. La conversazione verte non solo sulla traduzione e le sue difficoltà,
il carteggio, i viaggi, la sistemazione postuma presso Fayard dell’opera
completa di Sciascia, ma si allarga ad altri nomi: Bonnefoy, Caillois e Pennac;
tra gli italiani tradotti in Francia, dopo d’Annunzio e Moravia, si passa ai
contemporanei Consolo, Camilleri, Eco, Buttitta, Bonaviri, Bufalino e Savinio.
È la
traduttrice Rosa Lombardi a tracciare il profilo di Lü
Tongliu e della situazione in Cina che, dopo la opprimente Rivoluzione
culturale, si apre politicamente all’esterno, favorendo gli scambi commerciali
e culturali. In questa apertura delle frontiere si colloca l’incontro nel 1981 a
Roma di Sciascia col futuro traduttore Lü Tongliu e la
sinologa Anna Bujetta. Ed è proprio Lü a raccontare e a ricordare
al passato remoto quell’incontro durato due giorni e a fare un ritratto complessivo
dello scrittore siciliano.
Nella
rubrica Iconografia, Lavinia Spalanca si occupa dell’epistolario tra Luigi
Bartolini e il giovane Sciascia, direttore di Galleria. Tutto comincia nel 1952
con una recensione positiva a Pianete che Bartolini gli ha inviato; e lo
scambio va avanti fino al 1955 quando il carteggio si interrompe. Sciascia ne apprezza
lo spirito alfieriano, vigoroso e fuori da ogni consorteria, la poesia
dolorante e il candore, soprattutto vede nel poliedrico Bartolini, nonostante
il risentimento privato, un modello di moralità.
Non
manca, infine, una chicca dello stesso Sciascia: un testo di un incontro che si
tenne del 1971 ad Assisi sul tema della speranza. Il laico Sciascia, scrittore
di fatti, sostiene che la religio è un problema privato e che gli atei sono una
invenzione dei preti.
[Alessandro Carandente]