07/02/15

JAN ŠVÁBENICKÝ, ALDO LADO & ERNESTO GASTALDI



Sottotitolo: Due cineasti, due interviste, Piombino, Il Foglio, 2014


A collocare in uno spazio insolito il recente volume di Jan Švábenický (Aldo Lado & Ernesto Gastaldi. Due cineasti, due interviste, Il Foglio, Piombino 2014) è indubbiamente la sua forma. L’autore, infatti, dichiara già nell’introduzione la sua preferenza per l’intervista documentaria, capace di attraversare la biografia artistica e intellettuale di due registi da lui ben conosciuti al fine di offrire un insieme di informazioni quanto più esauriente possibile: una base di lavoro necessaria per il lavoro ermeneutico, che Švábenický colloca esplicitamente al di fuori della sua prospettiva (“non sono un critico […] sono uno storico e un ricercatore”, p. 15). Le lunghe interviste con le quali Švábenický ricostruisce la carriera di Lado e Gastaldi si distinguono infatti per la mole di dati e dettagli che l’autore propone alla memoria dei suoi interlocutori, oggetto di un’attenta ricostruzione ostacolata solo dai vuoti della memoria. Ad attendere il lettore di Due cineasti, due interviste, è dunque una lunga narrazione di vicissitudini, scelte, avventure e progetti. I dati raccolti, nel loro complesso, tracciano, oltre al percorso artistico dei protagonisti, lo spirito dei tempi di una stagione eccezionale nella storia del cinema italiano, quella che va più o meno dagli anni Sessanta agli Ottanta, caratterizzata da una produzione quantitativamente assai consistente e volta a soddisfare, oltre alla domanda di prodotti di qualità, il bisogno diffuso di buoni prodotti artigianali, caratterizzati dunque da una facile collocazione di genere e dalla rassicurante riconoscibilità di intrecci, situazioni e personaggi. È proprio questo l’orizzonte in cui si muovono Lado e Gastaldi collocano, orizzonte che Švábenický delimita programmaticamente nella definizione di ‘cinema popolare’, rifiutandone altre, come B-movie o trash, “perché non si tratta di termini storiografici oggettivi ma di termini critici ed estetici” (p. 15), con una motivazione dunque coerente con la prospettiva documentaria e informativa del suo lavoro.

Švábenický conduce i lunghi colloqui con Lado e Gastaldi partendo dalla sua ampia conoscenza del cinema italiano degli anni della sua massima espansione. Non solo le filmografie di Lado e Gastaldi gli risultano assolutamente familiari, ma gli sono ben conosciuti anche molti dati del loro contesto produttivo e distributivo, al punto che più volte, sia Lado che Gastaldi, devono confessare di non ricordare altrettanto bene i caratteri di alcuni dei loro lavori. Le motivazioni di tale oblio aprono una prospettiva inusuale, per chi è abituato a lavorare sulle opere di autori con maggiori ambizioni estetiche e ideologiche, all’interno delle quali intraprendere un approfondito percorso ermeneutico: “all’epoca – sostiene Gastaldi – il lavoro era moltissimo e spesso non riuscivo nemmeno a vedere i film che scrivevo” (p. 85). Il cinema italiano del tempo, ci ricordano continuamente Lado e Gastaldi, era soprattutto un’industria, nel suo periodo di maggiore espansione e successo commerciale. L’accelerazione produttiva era determinata da interessi strettamente economici, e comportava inevitabilmente un legame artistico piuttosto debole tra i creativi (registi, sceneggiatori e presumibilmente anche attori) e la propria opera. I tempi contingentati, l’abbondanza di progetti, la necessità di contenere i costi spingevano a soluzioni ricorrenti, a rapidi mutamenti di indirizzo, come sempre avviene quando la committenza è consistente senza essere particolarmente esigente sul piano estetico, e garantisce dunque all’artista una discreta possibilità di guadagno. Le testimonianze di un tale stato di cose, nelle parole di Lado e Gastaldi, sono numerose. In primis, entrambi mettono in rilievo come la produzione, negli anni del boom, si adeguasse ai gusti del pubblico: “a Roma si facevano solo piccoli western (grazie all’imput dato da Sergio Leone e al successo di Per un pugno di dollari)” (p. 27), “il pubblico dopo la fine dell’onda western si era affezionato ai gialli e quindi i produttori […] si gettavano sul nuovo filone popolare” (p. 40), “tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta il genere [western] era inflazionato e iniziava il filone dei gialli, così mi sono dedicato a scrivere thriller” (p. 29), “tutto il cinema italiano si gettò a capofitto nel nuovo genere [i gialli] fino ai trionfi di Argento” (p. 79), il via lo diede il primo film di James Bond. I nostri produttori si lanciarono su quel filone” (p. 77), “ne ho fatto un feuilletton lacrimoso [a proposito di Sepolta viva, 1973, tratto dal romanzo di Marie Eugénie Saffray] come erano i fotoromanzi che in quegli anni facevano furore in Italia” (p. 45). Poi, sia Lado che Gastaldi evidenziano come la prospettiva di un consistente utile economico o il timore di una spesa eccessiva e ‘inutile’ determinassero una serie di scelte artistiche e produttive: “il giallo piaceva ai produttori perché è il genere che meglio si presta a essere girato con pochi soldi” (p. 79), “poiché a quei tempi i compositori e il costo della registrazione delle musiche (sale e orchestrali) erano sostenuti dalle grandi società di edizioni musicali (come la Rca), i produttori non avevano costi da sostenere e quindi se ne fregavano delle tue scelte musicali” (p. 68), “i distributori […] hanno tenuto i manifesti sostituendo solo ‘bambole di vetro’ alla parola ‘farfalle’. Non si buttavano via soldi all’epoca” (p. 40), “il film [Ultimo tango a Parigi] stava cadendo […] per via degli alti costi della costruzione dell’appartamento negli studi e io trovai la soluzione (estremamente più economica) di affittarne uno per le riprese” (p. 33), “ti assicuro che in quel periodo [gli anni Sessanta] cercavano tutti di fare film che incassassero, senza avere grandi ambizioni sociopolitiche” (p. 24). A sentire Lado e Gastaldi, l’industria cinematografica sembra insomma determinata da un unico fattore: il denaro. Fino ad esiti sorprendenti, in cui, a volte, il sistema cinema, in Italia, ci appare come una giungla senza regole, in cui i più forti e i più furbi agiscono senza scrupoli per ottenere il risultato che intendono raggiungere. In tal senso, colpisce il lungo racconto con cui Lado riferisce di come Dario Argento si sia impossessato della sceneggiatura di L’uccello dalle piume di cristallo (1970), in realtà scritta a quattro mani insieme a Lado, il cui silenzio venne poi letteralmente comprato da Salvatore Argento, padre di Dario e produttore del film. Sia Lado che Gastaldi, per altro, appaiono largamente condizionati dal  fattore economico, e sembrano a tratti misurare la qualità del proprio lavoro sul parametro del successo al botteghino. Gastaldi: “Martino, invece di pagarmi ‘cash’, si impegnò a darmi il 2% degli incassi. Piange ancora adesso: il film fu un notevole successo” (p. 85), Lado: “non mi sono mai interessato molto della vita commerciale dei miei film in quanto non avevo nessun vantaggio economico dal successo dei miei film sia in Italia che all’estero” (p. 69).

L’industria cinematografica era insomma sia spietata che deregolamentata, al punto da determinare una notevole pressione sui cineasti ‘popolari’, costretti dai tempi di realizzazione, dalle esigenze di budget, e necessitati a sfornare prodotti vendibili e di buon successo. Al punto da far confessare allo stesso Lado la rassicurante prospettiva del lavoro per la televisione: “non mi pareva vero di poter realizzare un film senza l’incubo del risultato commerciale” (p. 52), “di rifugiarmi nel prodotto televisivo lontano dalle ansie dei risultati di botteghino” (p. 59).

Si parla poco, nelle interviste condotte da Švábenický, della qualità estetica e autoriale del cinema del tempo. Lado è indubbiamente consapevole di aver portato avanti, con le sue opere, un programma, un messaggio, riassumibile in una denuncia dello sfruttamento generazionale e dell’arroganza del potere, nelle sue varianti politiche, sociali e familiari, dei potenti consorziati per coprire colpe e misfatti dei loro simili” (p. 41). Così, l’idea portante di L’ultimo treno della notte (1975) è, secondo Lado, nel puntare il dito contro la borghesia perbenista” (p. 48), profittatrice di una società “costellata da emarginati e profittatori” (p. 51), mentre La disubbidienza (1981, adattamento da un romanzo di Moravia), “rompe gli schemi della deferenza dei figli verso i genitori che era stato il pilastro portante della famiglia italiana fino al ‘68” (p. 57). Il confronto con la letteratura, abbastanza ricorrente nel cinema di Lado, lo ha indubbiamente portato a lavorare sul messaggio ideologico e sull’interpretazione dei testi adattati, a tutto vantaggio dello spessore autoriale della sua opera. Lado, inoltre, ha frequentato il miglior cinema d’autore, essendo stato aiuto regista per Bertolucci per Il conformista (1970, anch’esso adattato da Moravia), ed appare dunque capace di cogliere il valore intellettuale ed estetico della scrittura cinematografica: “con Bertolucci è stata un’esperienza di vera e propria collaborazione: è con lui che ho capito il valore dei piani sequenza e del realismo poetico” (p. 31). Gastaldi appare invece più confinato nello spazio della sceneggiatura, al punto da disinteressarsi del prodotto finito e di aspetti essenziali della scrittura cinematografica, come la musica: “purtroppo non ho mai visto il film [La corta notte delle bambole di vetro, 1971, di Lado per il quale Gastaldi aveva scritto una sceneggiatura, poi non utilizzata] e manco mi ricordo di come fosse il mio script!” (p. 86); “non mi sono mai interessato alla musica dei film che ho scritto: gli sceneggiatori non hanno bisogno della musica” (p. 96), “le teorie filmiche mi han sempre fatto ridere” (p. 82). Sia Lado che Gastaldi rivendicano il carattere pratico e concreto del loro lavoro: “ho sempre pensato di essere solo un artigiano e mi sono meravigliato quando alcuni dei miei film hanno valicato il secolo non dimenticati” (p. 27), sostiene Lado; “non ho mai avuto altro intendimento che quello di scrivere dei plot divertenti per il pubblico” (p. 82), ribadisce Gastaldi.

Il volume curato da Švábenický, in definitiva, si muove in questo orizzonte. L’attenzione prevalente dello studioso va alle problematiche organizzative, alle vicende editoriali, ai contributi dei tecnici (in particolare dei direttori della fotografia e dei musicisti, ai quali, nelle sue domande, l’autore riserva sempre uno spazio speciale). Il ritratto del cinema italiano che emerge dai contributi di Lado e Gastaldi è utilissimo per capire le dinamiche produttive e distributive, più che per approfondire una poetica autoriale: operazione utilissima che gli studiosi di cinema, nel loro impegno ermeneutico, spesso rischiano di perdere di vista.

[Alessandro Marini]