Sottotitolo: Due cineasti, due interviste, Piombino, Il Foglio, 2014
A
collocare in uno spazio insolito il recente volume di Jan Švábenický
(Aldo
Lado & Ernesto Gastaldi. Due cineasti, due interviste, Il Foglio,
Piombino 2014) è indubbiamente la sua forma. L’autore, infatti, dichiara già
nell’introduzione la sua preferenza per l’intervista documentaria, capace di
attraversare la biografia artistica e intellettuale di due registi da lui ben
conosciuti al fine di offrire un insieme di informazioni quanto più esauriente
possibile: una base di lavoro necessaria per il lavoro ermeneutico, che Švábenický colloca esplicitamente al di fuori della sua prospettiva (“non sono un
critico […] sono uno storico e un ricercatore”, p. 15). Le lunghe interviste
con le quali Švábenický ricostruisce la carriera di Lado e Gastaldi
si distinguono infatti per la mole di dati e dettagli che l’autore propone alla
memoria dei suoi interlocutori, oggetto di un’attenta ricostruzione ostacolata
solo dai vuoti della memoria. Ad attendere il lettore di Due cineasti, due
interviste, è dunque una lunga narrazione di vicissitudini, scelte,
avventure e progetti. I dati raccolti, nel loro complesso, tracciano, oltre al
percorso artistico dei protagonisti, lo spirito dei tempi di una stagione
eccezionale nella storia del cinema italiano, quella che va più o meno dagli
anni Sessanta agli Ottanta, caratterizzata da una produzione quantitativamente
assai consistente e volta a soddisfare, oltre alla domanda di prodotti di
qualità, il bisogno diffuso di buoni prodotti artigianali, caratterizzati
dunque da una facile collocazione di genere e dalla rassicurante
riconoscibilità di intrecci, situazioni e personaggi. È proprio questo l’orizzonte
in cui si muovono Lado e Gastaldi collocano, orizzonte che Švábenický delimita programmaticamente nella definizione di ‘cinema popolare’,
rifiutandone altre, come B-movie o trash, “perché non si tratta
di termini storiografici oggettivi ma di termini critici ed estetici” (p. 15),
con una motivazione dunque coerente con la prospettiva documentaria e
informativa del suo lavoro.
Švábenický conduce i lunghi colloqui con Lado e Gastaldi
partendo dalla sua ampia conoscenza del cinema italiano degli anni della sua
massima espansione. Non solo le filmografie di Lado e Gastaldi gli risultano
assolutamente familiari, ma gli sono ben conosciuti anche molti dati del loro
contesto produttivo e distributivo, al punto che più volte, sia Lado che
Gastaldi, devono confessare di non ricordare altrettanto bene i caratteri di
alcuni dei loro lavori. Le motivazioni di tale oblio aprono una prospettiva
inusuale, per chi è abituato a lavorare sulle opere di autori con maggiori
ambizioni estetiche e ideologiche, all’interno delle quali intraprendere un approfondito
percorso ermeneutico: “all’epoca – sostiene Gastaldi – il lavoro era moltissimo
e spesso non riuscivo nemmeno a vedere i film che scrivevo” (p. 85). Il cinema
italiano del tempo, ci ricordano continuamente Lado e Gastaldi, era soprattutto
un’industria, nel suo periodo di maggiore espansione e successo commerciale. L’accelerazione
produttiva era determinata da interessi strettamente economici, e comportava
inevitabilmente un legame artistico piuttosto debole tra i creativi (registi,
sceneggiatori e presumibilmente anche attori) e la propria opera. I tempi
contingentati, l’abbondanza di progetti, la necessità di contenere i costi
spingevano a soluzioni ricorrenti, a rapidi mutamenti di indirizzo, come sempre
avviene quando la committenza è consistente senza essere particolarmente
esigente sul piano estetico, e garantisce dunque all’artista una discreta
possibilità di guadagno. Le testimonianze di un tale stato di cose, nelle
parole di Lado e Gastaldi, sono numerose. In primis, entrambi mettono in
rilievo come la produzione, negli anni del boom, si adeguasse ai gusti del
pubblico: “a Roma si facevano solo piccoli western (grazie all’imput dato da
Sergio Leone e al successo di Per un pugno di dollari)” (p. 27), “il
pubblico dopo la fine dell’onda western si era affezionato ai gialli e quindi i
produttori […] si gettavano sul nuovo filone popolare” (p. 40), “tra la fine
degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta il genere [western] era
inflazionato e iniziava il filone dei gialli, così mi sono dedicato a scrivere thriller” (p. 29), “tutto il cinema
italiano si gettò a capofitto nel nuovo genere [i gialli] fino ai trionfi di
Argento” (p. 79), il via lo diede il primo film di James Bond. I nostri
produttori si lanciarono su quel filone” (p. 77), “ne ho fatto un feuilletton lacrimoso [a proposito di Sepolta
viva, 1973, tratto dal romanzo di Marie Eugénie Saffray] come erano i fotoromanzi che in
quegli anni facevano furore in Italia” (p. 45). Poi, sia Lado che
Gastaldi evidenziano come la prospettiva di un consistente utile economico o il
timore di una spesa eccessiva e ‘inutile’ determinassero una serie di scelte
artistiche e produttive: “il giallo piaceva ai produttori perché è il genere
che meglio si presta a essere girato con pochi soldi” (p. 79), “poiché a quei
tempi i compositori e il costo della registrazione delle musiche (sale e
orchestrali) erano sostenuti dalle grandi società di edizioni musicali (come la
Rca), i produttori non avevano costi da sostenere e quindi se ne fregavano delle
tue scelte musicali” (p. 68), “i distributori […] hanno tenuto i manifesti
sostituendo solo ‘bambole di vetro’ alla parola ‘farfalle’. Non si buttavano
via soldi all’epoca” (p. 40), “il film [Ultimo tango a Parigi] stava
cadendo […] per via degli alti costi della costruzione dell’appartamento negli
studi e io trovai la soluzione (estremamente più economica) di affittarne uno
per le riprese” (p. 33), “ti assicuro che in quel periodo [gli anni Sessanta]
cercavano tutti di fare film che incassassero, senza avere grandi ambizioni
sociopolitiche” (p. 24). A sentire Lado e Gastaldi, l’industria cinematografica
sembra insomma determinata da un unico fattore: il denaro. Fino ad esiti
sorprendenti, in cui, a volte, il sistema cinema, in Italia, ci appare come una
giungla senza regole, in cui i più forti e i più furbi agiscono senza scrupoli
per ottenere il risultato che intendono raggiungere. In tal senso, colpisce il
lungo racconto con cui Lado riferisce di come Dario Argento si sia impossessato
della sceneggiatura di L’uccello dalle piume di cristallo (1970), in
realtà scritta a quattro mani insieme a Lado, il cui silenzio venne poi
letteralmente comprato da Salvatore Argento, padre di Dario e produttore del
film. Sia Lado che Gastaldi, per altro, appaiono largamente condizionati
dal fattore economico, e sembrano a
tratti misurare la qualità del proprio lavoro sul parametro del successo al
botteghino. Gastaldi: “Martino, invece di pagarmi ‘cash’, si impegnò a darmi il
2% degli incassi. Piange ancora adesso: il film fu un notevole successo” (p.
85), Lado: “non mi sono mai interessato molto della vita commerciale dei miei
film in quanto non avevo nessun vantaggio economico dal successo dei miei film
sia in Italia che all’estero” (p. 69).
L’industria
cinematografica era insomma sia spietata che deregolamentata, al punto da
determinare una notevole pressione sui cineasti ‘popolari’, costretti dai tempi
di realizzazione, dalle esigenze di budget, e necessitati a sfornare prodotti
vendibili e di buon successo. Al punto da far confessare allo stesso Lado la
rassicurante prospettiva del lavoro per la televisione: “non mi pareva vero di
poter realizzare un film senza l’incubo del risultato commerciale” (p. 52), “di
rifugiarmi nel prodotto televisivo lontano dalle ansie dei risultati di
botteghino” (p. 59).
Si
parla poco, nelle interviste condotte da Švábenický, della
qualità estetica e autoriale del cinema del tempo. Lado è indubbiamente
consapevole di aver portato avanti, con le sue opere, un programma, un
messaggio, riassumibile in una denuncia dello sfruttamento generazionale e dell’arroganza
del potere, nelle sue varianti politiche, sociali e familiari, dei “potenti consorziati per coprire colpe e misfatti dei loro simili” (p. 41). Così, l’idea portante di L’ultimo treno della notte (1975) è,
secondo Lado, nel “puntare il dito contro la borghesia perbenista” (p. 48),
profittatrice di una società “costellata da emarginati e profittatori” (p. 51),
mentre La disubbidienza (1981, adattamento da un romanzo di Moravia),
“rompe gli schemi della deferenza dei figli verso i genitori che era stato il
pilastro portante della famiglia italiana fino al ‘68” (p. 57). Il confronto
con la letteratura, abbastanza ricorrente nel cinema di Lado, lo ha
indubbiamente portato a lavorare sul messaggio ideologico e sull’interpretazione
dei testi adattati, a tutto vantaggio dello spessore autoriale della sua opera.
Lado, inoltre, ha frequentato il miglior cinema d’autore, essendo stato aiuto
regista per Bertolucci per Il conformista (1970, anch’esso adattato da
Moravia), ed appare dunque capace di cogliere il valore intellettuale ed
estetico della scrittura cinematografica: “con Bertolucci è stata un’esperienza
di vera e propria collaborazione: è con lui che ho capito il valore dei piani
sequenza e del realismo poetico” (p. 31). Gastaldi appare invece più confinato
nello spazio della sceneggiatura, al punto da disinteressarsi del prodotto
finito e di aspetti essenziali della scrittura cinematografica, come la musica:
“purtroppo non ho mai visto il film [La corta notte delle bambole di vetro,
1971, di Lado per il quale Gastaldi aveva scritto una sceneggiatura, poi non
utilizzata] e manco mi ricordo di come fosse il mio script!” (p. 86); “non mi
sono mai interessato alla musica dei film che ho scritto: gli sceneggiatori non
hanno bisogno della musica” (p. 96), “le teorie filmiche mi han sempre fatto
ridere” (p. 82). Sia Lado che Gastaldi rivendicano il carattere pratico e
concreto del loro lavoro: “ho sempre pensato di essere solo un artigiano e mi
sono meravigliato quando alcuni dei miei film hanno valicato il secolo non
dimenticati” (p. 27), sostiene Lado; “non ho mai avuto altro intendimento che
quello di scrivere dei plot divertenti per il pubblico” (p. 82), ribadisce
Gastaldi.
Il
volume curato da Švábenický, in definitiva, si muove in questo
orizzonte. L’attenzione prevalente dello studioso va alle problematiche
organizzative, alle vicende editoriali, ai contributi dei tecnici (in
particolare dei direttori della fotografia e dei musicisti, ai quali, nelle sue
domande, l’autore riserva sempre uno spazio speciale). Il ritratto del cinema
italiano che emerge dai contributi di Lado e Gastaldi è utilissimo per capire
le dinamiche produttive e distributive, più che per approfondire una poetica
autoriale: operazione utilissima che gli studiosi di cinema, nel loro impegno
ermeneutico, spesso rischiano di perdere di vista.
[Alessandro Marini]