13/01/15

Enrica Collotti Pischel, LA CINA RIVOLUZIONARIA



[They are the future... (Paris 2014). Foto Rb]


Enrica Collotti Pischel, La Cina rivoluzionaria. Sottotitolo: Esperienze e sviluppi della “Rivoluzione ininterrotta”. Torino, Einaudi, 1965


Fa un certo effetto sfogliare questo libro a tanti anni dalla pubblicazione, riscontrandovi, da un lato, un rigore di studio che si sforza fin da allora di comprendere le ragioni della rivoluzione in Cina; dall’altro, una scrittura di parte, a favore del Maoismo, che in parte non resiste alle rivelazioni dei decenni successivi sulla Rivoluzione Culturale, e che la stessa Collotti Pischel dovette in parte revisionare dalla morte di Mao Tsedong in poi.

Nondimeno, tuttora, in una scrittura lucida e partecipata senza cessare di essere documentata, almeno al livello delle conoscenze di allora sulla Cina comunista, appaiono particolarmente acute certe chiarificazioni, soprattutto sulla politica dei “Cento fiori”, notando già in quegli anni che non si trattava di pluralismo fine a se stesso, sebbene vi fosse implicita una posizione ritenuta antizdanovista da Collotti Pischel, ma piuttosto di un calcolo ideologico per smascherare alcune posizioni, facendole emergere, e per acquisire al dibattito gli intellettuali di cui il PCC cercava la collaborazione (pp. 38-41).

Del pari acute le pagine sul concetto di intellettuale nella Cina degli anni Cinquanta e della prima metà degli anni Sessanta, che ha alle spalle la concezione tradizionale pre-comunista cinese (ma anche gramsciana, a dire il vero) che si debbano considerare intellettuali non solo scrittori e pensatori, ma anche professionisti quali “il maestro, l’impiegato, il contabile” (p. 56), e nel suo complesso una “classe burocratico-culturale, incaricata della gestione del potere e della cultura” (p. 57) dotata di prestigio agli occhi delle grandi masse dei lavoratori manuali e vista come fornita di superiorità; il che si accompagnava all’ottica confuciana della lealtà allo Stato e all’accesso alle cariche pubbliche per concorso. Secondo Collotti Pischel si trattava di un concetto che “non ha nulla a che vedere, o ben poco a che vedere, con il problema degli intellettuali in una società borghese industrializzata” (p. 58), anzi si poneva con somiglianze rispetto all’analisi coloniale e postcoloniale di Franz Fanon.

Altrove certo l’analisi non rispecchia la storicizzazione successiva degli eventi. Risulta piuttosto difficile condividere oggi l’idea che, subito dopo il Grande Balzo, la situazione economica non fosse “affatto disastrosa” (p. 83). Mentre appaiono già da quel tempo perspicaci i rischi, individuati dall’autrice, di “degenerazioni di carattere utopistico o messianico” delle Comuni Popolari (p. 70).

Ben delineato il Maoismo in quanto ideologia anticonfuciana, ma con prestiti dal Taoismo anche popolare; concessione dialettica mutuata non solo dal marxismo ma dalla filosofia cinese; illuminismo volontaristico. Il metodo di persuasione non fu invece certo totale se si considerano le vittime numerose della lotta cinese tra fazioni negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta.


[Roberto Bertoni]