[“They are the future...” (Paris 2014). Foto Rb]
Enrica Collotti Pischel, La Cina rivoluzionaria. Sottotitolo: Esperienze e sviluppi della “Rivoluzione ininterrotta”. Torino, Einaudi, 1965
Fa un certo effetto sfogliare questo libro a tanti anni dalla pubblicazione, riscontrandovi, da un lato, un rigore di studio che si sforza fin da allora di comprendere le ragioni della rivoluzione in Cina; dall’altro, una scrittura di parte, a favore del Maoismo, che in parte non resiste alle rivelazioni dei decenni successivi sulla Rivoluzione Culturale, e che la stessa Collotti Pischel dovette in parte revisionare dalla morte di Mao Tsedong in poi.
Nondimeno, tuttora, in una scrittura lucida e
partecipata senza cessare di essere documentata, almeno al livello delle
conoscenze di allora sulla Cina comunista, appaiono particolarmente acute certe
chiarificazioni, soprattutto sulla politica dei “Cento fiori”, notando già in
quegli anni che non si trattava di pluralismo fine a se stesso, sebbene vi
fosse implicita una posizione ritenuta antizdanovista da Collotti Pischel, ma
piuttosto di un calcolo ideologico per smascherare alcune posizioni, facendole
emergere, e per acquisire al dibattito gli intellettuali di cui il PCC cercava
la collaborazione (pp. 38-41).
Del pari acute le pagine sul concetto di
intellettuale nella Cina degli anni Cinquanta e della prima metà degli anni
Sessanta, che ha alle spalle la concezione tradizionale pre-comunista cinese (ma
anche gramsciana, a dire il vero) che si debbano considerare intellettuali non
solo scrittori e pensatori, ma anche professionisti quali “il maestro, l’impiegato,
il contabile” (p. 56), e nel suo complesso una “classe burocratico-culturale,
incaricata della gestione del potere e della cultura” (p. 57) dotata di prestigio
agli occhi delle grandi masse dei lavoratori manuali e vista come fornita di
superiorità; il che si accompagnava all’ottica confuciana della lealtà allo
Stato e all’accesso alle cariche pubbliche per concorso. Secondo Collotti
Pischel si trattava di un concetto che “non ha nulla a che vedere, o ben poco a
che vedere, con il problema degli intellettuali in una società borghese
industrializzata” (p. 58), anzi si poneva con somiglianze rispetto all’analisi
coloniale e postcoloniale di Franz Fanon.
Altrove certo l’analisi non rispecchia la
storicizzazione successiva degli eventi. Risulta piuttosto difficile
condividere oggi l’idea che, subito dopo il Grande Balzo, la situazione
economica non fosse “affatto disastrosa” (p. 83). Mentre appaiono già da quel
tempo perspicaci i rischi, individuati dall’autrice, di “degenerazioni di
carattere utopistico o messianico” delle Comuni Popolari (p. 70).
Ben delineato il Maoismo in quanto ideologia
anticonfuciana, ma con prestiti dal Taoismo anche popolare; concessione
dialettica mutuata non solo dal marxismo ma dalla filosofia cinese; illuminismo
volontaristico. Il metodo di persuasione non fu invece certo totale se si
considerano le vittime numerose della lotta cinese tra fazioni negli anni
Sessanta e nei primi anni Settanta.
[Roberto Bertoni]