Questo libro ha il merito di esaminare il berlusconismo sia come fenomeno che precede la vita biografica di Berlusconi e s’innesta nella storia dell’Italia unita fino ai nostri giorni, sia di puntare in modo prevalente sulle posizioni politiche espresse da Forza Italia in poi in quanto progetto non da operetta, sebbene anche di questo logicamente di parli nel volume, bensì caratterizzato da consapevolezza ideologica: un rilancio organico della destra liberale e una consapevolezza del serbatoio elettorale e di consenso.
In sostanza, Orsina vede, nella storia italiana dal 1861 in poi, una
separazione tra élite politiche e popolo, o tra paese legale e paese reale.
Secondo l’interpretazione di Orsina, una “élite modernizzante” ha sempre “forzato”
il Paese a uscire dall’arretratezza. Tale compito è sostanzialmente fallito,
spingendo gli italiani a chiudersi nel proprio interesse privato, in antitesi
allo Stato (pp. 90-91).
Sebbene non ci paia che questa interpretazione possa essere univocamente
valida, e forse nemmeno relativamente tale, è vero però che Berlusconi ha compattato a
modo suo chi lo ha eletto ripetutamente, proprio unendo paese legale e reale
con una destra che non ha esitato a riesumare.
Inoltre, per primo si è fondato sulla convinzione non che gli italiani vadano rieducati, ma al contrario che “vanno benissimo così come sono” (p. 97), trovando “un solido punto d’appoggio nel mito antipolitico della società civile che si è venuto facendo sempre più robusto e trasversale in Italia a partire dagli anni Ottanta” (p. 99). In breve, con la presenza di Berlusconi, si è fatta strada la convinzione che “le soluzioni non vanno più cercate nell’adeguamento del Paese reale al Paese legale, ma viceversa nell’adeguamento del Paese legale al Paese reale” (p. 103).
Inoltre, per primo si è fondato sulla convinzione non che gli italiani vadano rieducati, ma al contrario che “vanno benissimo così come sono” (p. 97), trovando “un solido punto d’appoggio nel mito antipolitico della società civile che si è venuto facendo sempre più robusto e trasversale in Italia a partire dagli anni Ottanta” (p. 99). In breve, con la presenza di Berlusconi, si è fatta strada la convinzione che “le soluzioni non vanno più cercate nell’adeguamento del Paese reale al Paese legale, ma viceversa nell’adeguamento del Paese legale al Paese reale” (p. 103).
Così, sebbene non abbia fatto appello all’illegalità di per sé, ha diffuso
l’idea che “l’illegalità diffusa non provenga da qualche difetto antropologico
degli italiani”, ma sia giustificata da una burocrazia farraginosa e da un
ruolo eccessivo dello Stato (p. 105). Più che “antipolitica” ha espresso
una “ipopolitica” (p. 106).
L’identificazione tra leader
e popolo è passata anche attraverso “l’identificazione nei comportamenti
illegali, o anche solo scorretti, o elusivi delle norme” (p. 111), accentuando
per questo il ruolo di vittima dello Stato del leader e per conseguenza di chi lo segue, sia i “consumatori” che i
“produttori” (p. 127).
Si deve insomma parlare di “politicità del berlusconismo” (p. 113),
anche per gli episodi ameni e di scarsa serietà, funzionali a rendere il leader una persona qualunque.
Tra gli altri corollari ideologici, quello di “spostare l’orologio al
1989” (p. 116) con l’anticomunismo esasperato e di qui più indietro agli anni
Cinquanta.
Una definizione dell’ideologia berlusconiana potrebbe essere quella di “emulsione
di populismo e liberalismo” (p. 125), un particolare tipo di “liberalismo di estrema
destra” (p. 129).
[Roberto Bertoni]