03/12/12

Fuminori Nakamura, THE THIEF




[The Tower? (Osaka 2012). Foto Rb]


Fuminori Nakamura, THE THIEF, ed. giapponese 2009. Trad. in inglese di Satoko Izumo e Stephen Coates. Londra, Constable and Robinson, 2012.

Sarebbe interessante saper leggere il giapponese per rendersi conto della ricezione di questo noir nel paese di origine, in cui l’autore, nato nel 1977, gode di prestigio e ha vinto vari premi letterari, compreso, proprio con The thief, il Kenzaburō Ōe, uno dei maggiori riconoscimenti nipponici.

Dalla narrazione in prima persona si deduce una sopravvivenza del protagonista nell’ultima scena, di sangue, in una situazione disperata da cui sembrerebbe impossibile uscire, ma che viene risolta con un colpo d’ingegno, residua risorsa dell’istinto di sopravvivenza.

In quel finale, in effetti, il narratore, un ladro particolarmente abile di portafogli dei ricchi fin dall’infanzia, che ci ha ricordato il Pickpocket di Robert Bresson (film del 1959) per l’introversione e le azioni in luoghi affollati, soprattutto, nel caso di The thief, nella metropolitana di Tokyio, sembra trovare una ragione di vita. Se il suo destino iniziale sembrava sprecato e ripetitivo nella serie dei furti e nella non aspirazione a un riscatto, gli affetti si insinuano invece nella sua vita senza quasi che egli stesso se ne renda conto: evita l’arresto a un bambino costretto a rubare dalla madre prostituta con la quale il protagonista ha una storia senza futuro, ma che riesce a persuadere, col consenso del figlio e fornendole una somma di denaro, ad affidare il figlio a un istituto minorile per toglierlo dall’ambiente della criminalità e di un amante della madre che lo percuote. Buna azione svolta senza retorica, fingendo anzi malavoglia. Più una forma di coinvolgimento emotivo che contraddice l’etica di solitudine imposta dalla professione di ladro e se di adozione simbolica si tratta è più da parte del ragazzino che dell’adulto.

Da un lato, nel corso di questo diario interiore che ricorda più il sottosuolo di Dostoevskij che il giallo, vengono descritte, come in giochi di prestigio, nei dettagli le azioni di furto. Dall’altro, si enucleano elementi simbolici aperti, cioè indicati come esistenzialmente significativi, destinati a marcare momenti decisivi della vita, nondimeno non chiarificati nel loro senso preciso, come la “torre”, esistente nell’infanzia come costruzione ai limiti della città natale, poi interiorizzata come correlativo oggettivo della paura e dei momenti di cambiamento: se non vista la vita scorre con relativa pace, ma se avvistata si accompagna all’esistenza del pericolo.

Nel procedere del racconto, il ladro narratore entra in contatto con esponenti della mafia giapponese, che lo usano senza scrupoli per scopi non del tutto chiariti, ma che sfociano in scassinamenti e omicidi (questi ultimi non perpetrati dal protagonista, che non uccide) a sfondo politico, mettendo dunque in rilievo, seppure in modo obliquo, il mondo della corruzione dentro la società che lo occulta, il marcio dentro l’apparentemente sano, il male dentro quel che apparentemente è un universo di perbenismo.

Il capo yakouza è, forse ironicamente, apparentato al mondo dei fumetti, un sadico che teorizza il proprio istinto con riflessioni filosofiche bizzarre e contorte. Per altri versi è di oscurità conradiana a tratti.





[Roberto Bertoni]