Fuminori Nakamura, THE THIEF, ed. giapponese 2009. Trad. in inglese di Satoko Izumo e Stephen Coates. Londra, Constable and Robinson, 2012.
Dalla narrazione in prima persona si deduce una
sopravvivenza del protagonista nell’ultima scena, di sangue, in una situazione
disperata da cui sembrerebbe impossibile uscire, ma che viene risolta con un
colpo d’ingegno, residua risorsa dell’istinto di sopravvivenza.
In quel finale, in effetti, il narratore, un ladro
particolarmente abile di portafogli dei ricchi fin dall’infanzia, che ci ha
ricordato il Pickpocket di Robert Bresson
(film del 1959) per l’introversione e le azioni in luoghi affollati, soprattutto,
nel caso di The thief, nella
metropolitana di Tokyio, sembra trovare una ragione di vita. Se il suo destino
iniziale sembrava sprecato e ripetitivo nella serie dei furti e nella non
aspirazione a un riscatto, gli affetti si insinuano invece nella sua vita senza
quasi che egli stesso se ne renda conto: evita l’arresto a un bambino costretto
a rubare dalla madre prostituta con la quale il protagonista ha una storia
senza futuro, ma che riesce a persuadere, col consenso del figlio e fornendole
una somma di denaro, ad affidare il figlio a un istituto minorile per toglierlo
dall’ambiente della criminalità e di un amante della madre che lo percuote. Buna
azione svolta senza retorica, fingendo anzi malavoglia. Più una forma di
coinvolgimento emotivo che contraddice l’etica di solitudine imposta dalla
professione di ladro e se di adozione simbolica si tratta è più da parte del
ragazzino che dell’adulto.
Da un lato, nel corso di questo diario interiore
che ricorda più il sottosuolo di Dostoevskij che il giallo, vengono descritte,
come in giochi di prestigio, nei dettagli le azioni di furto. Dall’altro, si
enucleano elementi simbolici aperti, cioè indicati come esistenzialmente
significativi, destinati a marcare momenti decisivi della vita, nondimeno non
chiarificati nel loro senso preciso, come la “torre”, esistente nell’infanzia
come costruzione ai limiti della città natale, poi interiorizzata come
correlativo oggettivo della paura e dei momenti di cambiamento: se non vista la
vita scorre con relativa pace, ma se avvistata si accompagna all’esistenza del
pericolo.
Nel procedere del racconto, il ladro narratore
entra in contatto con esponenti della mafia giapponese, che lo usano senza
scrupoli per scopi non del tutto chiariti, ma che sfociano in scassinamenti e
omicidi (questi ultimi non perpetrati dal protagonista, che non uccide) a
sfondo politico, mettendo dunque in rilievo, seppure in modo obliquo, il mondo
della corruzione dentro la società che lo occulta, il marcio dentro l’apparentemente
sano, il male dentro quel che apparentemente è un universo di perbenismo.
Il capo yakouza è, forse ironicamente, apparentato al mondo dei fumetti, un sadico che teorizza il proprio istinto
con riflessioni filosofiche bizzarre e contorte. Per altri versi è di oscurità conradiana a tratti.
[Roberto Bertoni]