Il rapporto con la
cultura ospite da parte di chi vive all’estero per motivi vari è ambivalente e
richiede un livello, anche elevato, di adattamento e di strategie interattive e
integrative:
“[...] All
newcomers are compelled to make adjustments […]. Those who fail to do so may
have to return home prematurely or find themselves staying on yet experiencing
emotional and social isolation from the new environment. Most people, however,
learn to detect similarities and differences between their new surroundings and
their home cultures, and they become increasingly proficient in handling situations
they encounter. Each adaptive challenge, in turn, offers them an opportunity to
grow beyond the perimeters of the original culture” (pp. 5-6).
Il libro di Kim di
occupa non di “whether people adapt”, ma di “how and why” (p. 10): delle
traiettorie dell’adattamento, delle sue modalità, delle ragioni per cui alcuni
individui hanno maggiore potenzialità di riuscita in questo campo di altri, del
mutamento delle persone nel processo di trasformazione entro i parametri di una
diversa cultura.
Gli studi in proposito
distinguono tra “long-term” e “short-term” adaptation (p. 15), con maggiori
aspettative di pieno adattamento nei confronti di chi soggiorna per priodi
lunghi e maggiore tolleranza degli errori culturali, in presenza di interesse
per la realtà ospite, per migranti protagonisti di soggiorni brevi. Tra i
parametri concettuali usati, si distinguono quello di “cultural shock” (p. 16)
sia nei confronti del paese ospite che al rientro al paese di provenienza; le
interpretazioni postcoloniali di “cultural oppression” (p. 19) da parte della
maggioranza ospite verso comunità di diversa origine; le posizione pluraliste,
secondo le quali non si tratta di delimitare l’adattamento di culture d’arrivo
verso quelle ospiti, quanto piuttosto di delineare un panorama multiculturale
di eguale rappresentanza di una pluralità di culture all’interno di determinate
società. Tra gli stadi dell’adattamento, pur se da riformularsi in certi casi
in realtà specifiche, la serie delimitata da Oberg sembrerebbe tuttora un buon
modello per comprendere come per un migrante si determinano diversi approcci al
paese in cui è andato a risiedere, con una prima fase spesso caratterizzata da
curiosità e ottimismo, la seconda di “hostility and emotionally stereotyped
attitudes towards the host society”, la terza di “recovery” anche per via
dell’apprendimento linguistico e dell’agio nel muoversi nella società d’arrivo,
infine una quarta fase in cui “adjustment is about just as complete as
possible, anxiety is largely gone, and new customs are accepted and enjoyed”
(p. 20).
La teoria proposta
da Kim si propone di superare le dicotomie del dibattito che l’ha preceduta,
con la conseguenza, tra l’altro, di unificare le indagini di lungo e breve
periodo e di tenere conto di posizioni tanto assimilazioniste che pluraliste
(le quali ultime difendono la persistenza delle modalità di “ethnicity”
originarie, p. 30).
I presupposti di
Kim sono tre: “adaptation is a fundamental life goal for all human beings” e si
basa su capacità umane innate (p. 35); l’adattamento avviene attraverso processi
comunicativi; ed è un procedimento complesso che implica “a qualitative
transformation of the individual” (p. 37), che conduce allo sviluppo di vari
gradi, a seconda degli individui, di “functional fitness, psychological health
and intercultural identity” (p. 71), quest’ultima consistente nel “being rooted
in, embracing, and not discarding the original identity” (p. 67) come del resto
avviene anche nell’apprendimento linguistico. “Strangers realize successful
adaptation only when their internal communication system sufficiently overlaps
with those of the natives” (p. 72).
Le abilità da
sviluppare e gli ostacoli da superare sono legati a vari fattori, tra cui la
formazione, anche ai fini comunicativi, di una “new set of relationships” con i
nativi (p. 75); il livello di efficacia della comunicazione con appartenenti
alla medesima comunità nativa residente nel paese ospite; il livello di “host
receptivity” e “host conformity pressure” (p. 79); inserite nelle componenti della
teoria anche la predisposizione individuale, basata su “preparedness for
change” (p. 166), “ethnic proximity” (p. 168), “adaptive personality” (p. 172),
e la motivazione all’adattamento. Determinante
è il fatto che “strangers need to go beyond verbal and nonverbal patterns; they
need to understand the cultural mind-sets” (p. 104).
I capitoli
successivi rappresentano l’elaborazione dei punti di cui sopra e sono densi di
notazioni aggiuntive, quali quelle sull’“ethnic prestige” di determiante
comunità per varie ragioni, un fattore “‘softening’ the host conformity
pressure” (p. 155); o sull’“universalization” che spinge a vedere l’umanità
come un agglomerato unificato da punti comuni: “a universalistic outlook
reflects a non-dualistic, meta-contextual, and synergistic attitutde through
which one experiences the humaness in all people beyond apparent differences”
(p. 193).
[Roberto Bertoni]