01/12/12

Kim Young Yun, BECOMING INTERCULTURAL

Sottotitolo: AN INTEGRATIVE THEORY OF COMMUNICATION AND CROSS-CULTURAL ADAPTATION. Thousand Oaks, Londra e New Delhi, Sage, 2001


Il rapporto con la cultura ospite da parte di chi vive all’estero per motivi vari è ambivalente e richiede un livello, anche elevato, di adattamento e di strategie interattive e integrative:

“[...] All newcomers are compelled to make adjustments […]. Those who fail to do so may have to return home prematurely or find themselves staying on yet experiencing emotional and social isolation from the new environment. Most people, however, learn to detect similarities and differences between their new surroundings and their home cultures, and they become increasingly proficient in handling situations they encounter. Each adaptive challenge, in turn, offers them an opportunity to grow beyond the perimeters of the original culture” (pp. 5-6).

Il libro di Kim di occupa non di “whether people adapt”, ma di “how and why” (p. 10): delle traiettorie dell’adattamento, delle sue modalità, delle ragioni per cui alcuni individui hanno maggiore potenzialità di riuscita in questo campo di altri, del mutamento delle persone nel processo di trasformazione entro i parametri di una diversa cultura.

Gli studi in proposito distinguono tra “long-term” e “short-term” adaptation (p. 15), con maggiori aspettative di pieno adattamento nei confronti di chi soggiorna per priodi lunghi e maggiore tolleranza degli errori culturali, in presenza di interesse per la realtà ospite, per migranti protagonisti di soggiorni brevi. Tra i parametri concettuali usati, si distinguono quello di “cultural shock” (p. 16) sia nei confronti del paese ospite che al rientro al paese di provenienza; le interpretazioni postcoloniali di “cultural oppression” (p. 19) da parte della maggioranza ospite verso comunità di diversa origine; le posizione pluraliste, secondo le quali non si tratta di delimitare l’adattamento di culture d’arrivo verso quelle ospiti, quanto piuttosto di delineare un panorama multiculturale di eguale rappresentanza di una pluralità di culture all’interno di determinate società. Tra gli stadi dell’adattamento, pur se da riformularsi in certi casi in realtà specifiche, la serie delimitata da Oberg sembrerebbe tuttora un buon modello per comprendere come per un migrante si determinano diversi approcci al paese in cui è andato a risiedere, con una prima fase spesso caratterizzata da curiosità e ottimismo, la seconda di “hostility and emotionally stereotyped attitudes towards the host society”, la terza di “recovery” anche per via dell’apprendimento linguistico e dell’agio nel muoversi nella società d’arrivo, infine una quarta fase in cui “adjustment is about just as complete as possible, anxiety is largely gone, and new customs are accepted and enjoyed” (p. 20).

La teoria proposta da Kim si propone di superare le dicotomie del dibattito che l’ha preceduta, con la conseguenza, tra l’altro, di unificare le indagini di lungo e breve periodo e di tenere conto di posizioni tanto assimilazioniste che pluraliste (le quali ultime difendono la persistenza delle modalità di “ethnicity” originarie, p. 30).

I presupposti di Kim sono tre: “adaptation is a fundamental life goal for all human beings” e si basa su capacità umane innate (p. 35); l’adattamento avviene attraverso processi comunicativi; ed è un procedimento complesso che implica “a qualitative transformation of the individual” (p. 37), che conduce allo sviluppo di vari gradi, a seconda degli individui, di “functional fitness, psychological health and intercultural identity” (p. 71), quest’ultima consistente nel “being rooted in, embracing, and not discarding the original identity” (p. 67) come del resto avviene anche nell’apprendimento linguistico. “Strangers realize successful adaptation only when their internal communication system sufficiently overlaps with those of the natives” (p. 72).

Le abilità da sviluppare e gli ostacoli da superare sono legati a vari fattori, tra cui la formazione, anche ai fini comunicativi, di una “new set of relationships” con i nativi (p. 75); il livello di efficacia della comunicazione con appartenenti alla medesima comunità nativa residente nel paese ospite; il livello di “host receptivity” e “host conformity pressure” (p. 79); inserite nelle componenti della teoria anche la predisposizione individuale, basata su “preparedness for change” (p. 166), “ethnic proximity” (p. 168), “adaptive personality” (p. 172), e la motivazione all’adattamento. Determinante è il fatto che “strangers need to go beyond verbal and nonverbal patterns; they need to understand the cultural mind-sets” (p. 104). 

I capitoli successivi rappresentano l’elaborazione dei punti di cui sopra e sono densi di notazioni aggiuntive, quali quelle sull’“ethnic prestige” di determiante comunità per varie ragioni, un fattore “‘softening’ the host conformity pressure” (p. 155); o sull’“universalization” che spinge a vedere l’umanità come un agglomerato unificato da punti comuni: “a universalistic outlook reflects a non-dualistic, meta-contextual, and synergistic attitutde through which one experiences the humaness in all people beyond apparent differences” (p. 193). 


[Roberto Bertoni]