[Banco di cibi precotti a Nandaemun (Seoul, 2010). Foto Rb]
Regia: Park Chan Hong. Sceneggiatura: Kim Ji Woo. 24 episodi (2011-2012). JTBC. Con Choi Jae Sung, Kang Shin Il, Lee Min Young, Park Jin Hee, Song Il Guk
L’orfano Ho Tae è diventato un malvivente in un’organizzazione di usurai. Nel corso di un’esazione entra in contatto con Kang San, cuoca in un ristorante italiano e figlia dei gestori del Chunjin, un ristorante coreano tradizionale che dei rivali mossi dal profitto più che dalla passione per la cucina all’antica vorrebbero acquisire, facendo leva sui debiti che la conduzione classica ha reso quasi inevitabili.
Una serie di circostanze porta sia Ho Tae che Kang San a lavorare al Chunjin, ove Ho Tae recupera alcuni ricordi rimossi, scoprendo poco per volta di avere ivi trascorso un periodo dell’infanzia remota; e naturalmente solo nelle ultimissime puntate si viene a sapere che era figlio illegittimo della rivale, perciò a essa sottratto. La triste situazione si risolve alla fine.
Frattanto ci siamo imbattuti nella sorella di Ho Tae, che soffre di una disabilità mentale parziale, ma è dolce, ottimista, efficiente; e nel padre delle due sorelle, che sta perdendo la memoria e viaggia per la Corea alla ricerca di Ho Tae per dirgli la verità sul suo genitore senza sapere che l'ex trovatello si trova proprio nel suo ristorante.
Non è tutto qua nemmeno al livello semplicemente dell’intreccio, perché le serie coreane sono spesso dei veri e propri iper-romanzi, per dirla alla Calvino, ovvero un insieme di “infiniti universi contemporanei in cui tutte le possibilità vengono realizzate in tutte le combinazioni possibili”. Forse non proprio infiniti gli universi di FERMENTATION FAMILY e non tutte le possibilità, ma è certo che alcune delle varianti base della serie coreana ci sono: l’orfano, gli usurai, il conflitto tra modernizzazione e tradizione, le coincidenze della sorte che portano vicine l’una all’altra persone che sarebbe assai improbabile si incontrassero se il destino non collaborasse insieme con gli schemi narrativi di matrice fiabesca.
Abbiamo già avuto occasione, in recensioni precedenti, di constatare quanto troviamo interessante la congiunzione dell’improbabile col realismo degli scenari, delle azioni, dei dialoghi, degli ambienti, tale che, sospesa la professione iniziale di incredulità, se si accetta il meccanismo, si resta col fiato sospeso per sapere come vadano avanti gli avvenimenti.
Sul piano dei valori, in FERMENTATION FAMILY, c’è di più. È vero che rientra nel topos fiabesco classico che i poveri siano anche buoni; e in questo caso lo sono: generosi, danno da mangiare a chi non ha, si adoperano per aiutare gli altri anche psicologicamente, creano un’atmosfera di fiducia tra chi li circonda. C’è però che, mentre si fanno portatori di valori che potrebbero essere ritenuti triti e irrealistici, gli ideali del bene di per sé, del senso di giustizia e del senso del dovere, di matrice confuciana, questi valori ci sembrano in verità, soprattutto se trasportati in Occidente, cioè notando che noi guardiamo di qua e non dalla Corea, dei valori sovversivi e antagonisti al sistema ideologico dominante fondato sull’arrivismo, il machiavellismo, l’individualismo. Proporre degli ideali risulta, per noi almeno, un atto positivo e accorto, anche se il senso di realtà può far ritenere improbabile il successo della rettitudine nella società in cui viviamo. In breve, quella che potrebbe sembrare (e forse in parte è) una riconferma del sentimentalismo e di un’etica superata acquisisce le connotazioni di presentazione di un’utopia che sarebbe bene venisse praticata nella realtà per incidervi profondamente con modalità umanistiche.
C’è infine un elemento centrale, che è quello della cucina tradizionale coreana, nella sua veste, qui, di almeno ventiquattro (uno per puntata) diversi tipi di kimchi (verdura fermentata e stagionata), introdotti nelle ricette complete e col corredo non solo salutistico degli effetti benefici per questa o quella malattia o malessere, ma anche con un senso iniziatico, quasi magico, e intese come un’arte raffinata e da mantenere in vita.
[Roberto Bertoni]