I.
dov’era pace per
tacito accordo
ora c’è una
pietraia: non si mangia
né si beve e alle
spalle il ricordo
degli eserciti già
sfrangia –
erano i nostri o i
loro,
oppure i barbari?
non è dato sapere,
a disdoro
di chi sapeva
qualcosa dei tartari
o degli invasori –
cartucce
non ne restano, né
desiderio
di sparare molto
avanti – solo le grucce
sostengono, solo le
grucce e il nuovo salterio
che
rimane fitto di pagine bianche:
ideale per scrivere
parole inutili,
per
le avanguardie sfatte, sfrante – stanche
–
per
i soldati che gioiscono – anche – d’esser mutili
II.
l’orizzonte non
piace: fata morgana
delude – ci hanno
detto che era una crisi
(una crisi feroce,
una crisi puttana)
invece con questa
formula derisi
ci tengono, mentre
tentano
l’apocalissi, lo
spacco
definitivo – sa
solo dio,
sa solo la terra lo
scacco
di chi vi cade:
senza legione
alle spalle, non ci
sono classi
(nemmeno nel
ruzzolone,
nello scivolar di
sassetti e sassi)
senza legione alle
spalle
cadiamo come nei
cartoni animati:
alzando grida
isteriche e nuvole gialle
di polvere e i
nostri corpi – come disossati:
i
nostri corpi finiscono
alleati degli svertebrati
[ed ecco che friniscono]
III.
e non è che siano
del tutto scomparse le lucciole
(si dice che
restino in Sicilia, sulla linea gotica, nelle langhe) –
è che più non si
distinguono le gocciole
di luce,
nell’abbaglio continuo, dalle gocciole di sangue –
ma noi intermittiamo
più non trasmettiamo
certo non siamo forti – claudichiamo
–
ma ancora noi intermittiamo
IV.
lasciati senza
ironia al confino del confine
(ci dicevano di
andare, di tentar fortuna)
vediamo coerenti il
deserto con la fine:
non avvistiamo più
nessuna
base da
riconquistare,
nemmeno una base futura
–
le caviglie,
invece, dovremmo fasciare:
restano la sola
intermittenza sicura,
ma poi i passi lasciano
sbandare,
goffi gaglioffi, nella
terra di nessuno
(che è sempre terra
di qualcuno,
tra due strisce ineludibili
di roccia e di calcare)
le caviglie dovremmo
fasciare
e inventarci un
salto avanti –
ma quanti
siamo, quanti, e
dove andare
V.
a una meta sola spinge
la ridda di insetti
che ci accompagna,
nella notte d’estate –
a esser stercorari
anche dell’oro, dei perfetti
semi e degli
imperfetti, delle frasi balbettate,
a deporre armi,
grucce e salterio,
a lasciare – merda
non tanto diversa –
le militanze sperse,
inascoltate:
claudicare per un
vizio d’arteria non più tersa
non
è serio
lo è forse soltanto
per le mine che sono saltate
e per quelle che
devono ancora saltare,
per le mine che
restano tutte davanti –
per quanto siamo
inetti, sfatti o sfranti
gli scoppi di mina
– contro l’uomo –
avvengono
ineludibili,
tra roccia e
calcare –
se
ancora intermittiamo, noi, fragili,
con un movimento
involontario
infine:
è per non scappare