[Detail of a Buddhist temple in Seoul. Foto Rb]
Titolo originale: LA PUISSANCE DU NÉANT
(1954), Roma, Voland, 2009
In questo romanzo, David-Néel mise a frutto non solo la penetrazione del
Buddhismo, dovuta all’appartenenza in quanto lama di scuola tibetana, ma anche
la conoscenza approfondita del Tibet, delle sue tradizioni e del suo folclore,
con una storia di perdita, crescita personale, attraversamento del samsara e maturazione, ambientata in un’economia
pastorale e tra i mercanti dell’Asia orientale, con il confronto tra città e
campagna, tra Cina e Tibet, due realtà che anche nell’ambientazione cronologica
incerta del romanzo si compenetrano e al contempo si scontrano, in un conflitto
tra i voti premonacali e il richiamo dei sensi e della mondanità; infine con
una lettura che, mentre è attenta all’autenticità del mondo rappresentato, è moderna
nell’essenzialità del récit,
strutturalmente e per la scelta di un intreccio noir innestato sulle peregrinazioni dei due personaggi principali.
Un lama eremita e in fama di magia, Gyelwe Öser, viene ucciso da Lopzang, uno
dei due discepoli per rubargli una talismano, un turchese, con cui sostenersi
nella fuga d’amore con una ragazza, Pasangma, infelicemente data in sposa dalla
famiglia a un anziano che le manca di rispetto e la percuote. Nel tragitto di
allontanamento dalla famiglia di lei, ignara del delitto, dovendo restare
lontano dai centri abitati per non farsi scoprire, infine incontra la morte, e
la punizione, mentre la giovane riesce a salvarsi, rifugiandosi in Cina.
Frattanto Munpa, il discepolo fedele al maestro, si mette alla ricerca del
collega: il viaggio, non sapendo della morte, lo condurrà in lungo e in largo
fino in Cina, al bordo della perdita della fiducia nei poteri magici di Gyelwe Öser,
al dubbio sulle convinzioni buddhiste, infine a una nuova vita da mercante.
Sarà proprio allora, rinnovatosi, che il destino metterà sulla sua strada Pasangma,
risposatasi con un mercante ricco e innamorato di lei. La ragazza gli chiarirà
come sono andate le cose.
La conclusione:
“Ombre, fantocci, non era forse così che aveva sentito descrivere gli
esseri e le cose di questo mondo? I saggi che la pensavano in questo modo
avevano senza dubbio ragione. Lui non pretendeva né di eguagliare la loro
saggezza né di contraddirli.
Non era che una piccola ombra insignificante, un fantoccio in abiti da
mercante, mosso da una forza proveniente dal nulla, da una inesistente
turchese. Ma quel fantoccio voleva vivere, vivere pienamente nel sogno il suo
ruolo di mercante.
Con gesto risoluto, Munpa colpì l’aria col frustino e se ne andò
allegramente verso la Mongolia a disegnare le immagini del suo nuovo destino,
sullo sfondo incolore del Grande Vuoto” (p. 172).
[Roberto Bertoni]