15/09/12

Marina Pizzi, SOQQUADRI DEL PANE VIETO (2010-11, strofe 25-30)



25.

l’agguato sulla fronte
quando vederti è scialbo
bosco di animule cortesi
sillabario anche
nel credulo alambicco della favola.
dolo di sabbia il credo degli occhi
quando s’impone la fugace via
di perdere la vita. anemia del mare
questa realtà zoppa restia all’audace
celibe comunque con le nuvole.
nel vuoto che troneggia ciuffi di cardi
la malia è vedova di sé
burattino d’elemosina soltanto.
veste d’addobbo etnia del male
questo crocicchio di rovi vilissimi
dove la nenia ricompone l’alba
flebile la luce d’ombra.
baci del pane la liturgia del secolo
dove si ammalia la regina d’arpe
nella frenetica giuria del tempo.


26.

ho un figlio che mi accudisce il seno
il senso atavico di perdermi comunque
sotto la muta del cancello sempre
provato di non aprirsi. il fato nudo
della risacca comprime la funzione
della nuca che è bambina ripetente.
dove si oscura il fato del mio fato
sono in credito di vita. muore il mio
costato cristologico. l’addobbo
dell’ultimo faro fa il mio natale
buio povero. le eresie labiali della mente
mandano a monte la speranza. il dubbio
mercificato come sabbia sale allo
sguardo. il medico di turno permetta
l’addio e la forbice non faccia più
paura.


27.

nell’oasi che frantuma il dettato
sono partigiana. gioisco con il sì
della farfalla. le baraccopoli dell’ombra
attivano le coccole del vano.
in vena di cantuccio e molta nenia
le sillabe che fioccano la cantica
per dire le bravure del vulcano.
in casa della sciabola retratta
sta l’erba voglio si fa prendere da tutti
i giocolieri intrisi di vaghezza.
meringa la sorpresa della gioia
quando t’inchini all’impresa della gara
nell’ultima finestretta della torre.


28.

certi abusi stringono le ossa
verso il sudario degli asfodeli
le unghie intrise solo di vecchiume
verso la zattera del malcontento.
in verità vorrò stringere baracca
con l’unguento di dio il più bonario
così da ergermi felice. sono un rattoppo
con rischio di guasto appena la miniera
delle povere cose urta il mio gomito.
meringa del diaframma poter respirare
bene. culla di perigli l’andatura del pupo
che gioca a ballare. in tutta la sfinge
che riparte il mio zero sono elemosina
moria comunque uno stridio di crepe.


29.

con un dolore in petto vado contromarcia
ricordo la città che fu lasciata
al pingue disprezzo del gioco dei dadi.
mi lamento dei baci che non ebbi
tra aciduli denti di mostruosi cannibali
il baule pronto di mia madre per l’ospedale.
tra dividendi e addendi ho perso la gioia
di consacrare i vent’anni quando fui
figliastra di ciotole piene.
oggi le gite le fanno i camionisti
con la malinconia nei muscoli
l’acerbo gioco di scalare curve.
nemmeno un’astronave potrà il mio arbitrio
docile feticcio, pupazzo per le perle che non
consolano. in un casolare di lana amai
il mio albore fatto di madre ragazza.
invece adesso sono una stima di misteri
di tabule rase lungo il sodalizio
in assenza di angeli. ora purtroppo
la strada si rimorchia in un bagliore
di sterpi. in un buio di caligine
voglio guardarti albino gemello della luna.


30.

come si sta a rincuorare il presente
con la noia che giunge dovunque
e fa da crisantemo all’ore
alle perlustrazioni del maniaco.
qui c’è il lago che annoia chiunque
questo smarrimento d’acque
il talismano inutile al verbo
la sfortuna che non si tarla giammai.
nessuno chiamerà l’orto della musa
questo tristissimo campiello di Venezia
dove si azzera il vero in uno zigomo di sale.
qui è bello sparire nelle stelle
nelle gimcane che crepano le madri
estranee finalmente al far di vita.
ho buttato i soldi per eresia di vita
una calura che mi stemma il sonno
dentro le braci degli alunni vinti.

 


Le strofe precedenti di SOQQUADRI DEL PANE VIETO sono uscite sui numeri di marzo, aprile, maggio, giugno 2012 di "Carte allineate".