Secondo Moro, gli anni Settanta non hanno ancora
ricevuto una chiarificazione completa che consenta di “passare dai ricordi alla
memoria” (p. 148): “il compito di tutti noi, quindi, mi sembra soprattutto
quello di costruire una memoria comune, attualizzando il passato e facendo sì
che esso ‘reagisca’ diventando parte riconosciuta della nostra identità attuale:
non per la sua assenza, cioè, ma per la sua presenza significativa” (149). È
questo, di conseguenza, anche lo scopo del libro, sebbene l’autore ne
ascriva la motivazione originaria a una richiesta dell’editore.
Tre gli atteggiamenti memoriali individuati da Moro rispetto
al decennio di cui si occupa: “il silenzio, la vergogna e la nostalgia” (p.
13). Non siamo certi che le cose stiano effettivamente così, dato che sul piano
storico sono stati compiuti tentativi distaccati di interpretazione, tra gli
altri Moss, Gundle e Ginsborg. Tuttavia è difficile dare torto a Moro quando
nota che a rompere il silenzio sono tra gli altri e forse soprattutto i
terroristi di allora con libri, articoli, interviste, mentre sarebbero più
appropriatamente questi protagonisti, tra i vari del periodo, che più ci si
potrebbe aspettare tacessero e piuttosto che fossero le vittime i testimoni prevalenti.
La violenza è un aspetto ricorrente nel volume. Ne vengono
correttamente indicate quattro fonti principali: lo “stragismo di origine
neofascista”, il “terrorismo di sinistra”, la “violenza politica, che vedeva
come attori gruppi estremisti non clandestini sia di destra che di sinistra”,
la “violenza delle forze dell’ordine” (pp. 46-47).
Tra “soggetti occulti” (p. 122) quali le logge massoniche e
i servizi segreti deviati, c’era un’Italia di “fantasmi” (titolo del quarto capitolo).
Uno dei culmini dell’aspetto violento fu il rapimento di Aldo Moro, di cui il
figlio, autore del volume, ricorda con obiettività gli aspetti tuttora poco
chiariti, auspicando una delucidazione completa e soprattutto, anche per altri
momenti del periodo in esame, un completo ristabilirsi della verità.
Uno dei meriti di questo libro è notare, al contrario di
altre ricostruzioni fattuali e fittizie dell’epoca, che la violenza non fu la
sola cifra degli anni Settanta. Anzi, essi si caratterizzarono per via di altre
“parole chiave” (p. 30), tra le quali: le riforme del welfare, di vari aspetti
dei diritti civili, dell’assetto dello Stato; la partecipazione rispetto alle
concezioni della cittadinanza e della politica; l’emergenza dei soggetti
sociali (operai, donne, giovani); nuove modalità di comunicazione.
Sul piano ideologico, alle spalle delle riflessioni e dei
comportamenti delle parti in conflitto, c’era l’ultima fase della guerra fredda,
da cui una competizione tra chi si trovava “a pensare che l’Italia fosse ormai
a un bivio: o l’instaurazione di un regime fascista, oppure una rivoluzione” (p.
59), e la parte avversa, per la quale “era ovvio che il pericolo comunista
giustificasse una sospensione o un aggiustamento della democrazia” (p. 58).
È vero, in effetti, che si trattava in ultima analisi di un “conflitto
di sistema”, avente come obiettivo quello di “costruire una democrazia matura” (p.
63).
[Roberto Bertoni]