Torino, Einaudi, 1995
Sosteniamo da tempo la
narrativa di Rea per varie ragioni. È uno scrittore impegnato e in certa misura
militante, nondimeno respinge le semplificazioni e le banalizzazioni di
tematica e sfondo politico pur mantenendo un’ideologia della demistificazione
accompagnata da profondità umana; e non ci stanchiamo di insistere sul fatto
che oggi queste sono da giudicarsi qualità, soprattutto perché l’afflato
sentimentale non si frappone al distacco razionale. I suoi personaggi sono
afflitti da malinconia, eppure si gettano nella realtà e vi si investono. Il linguaggio
è pieno e originale rispetto anche al vuoto a cliché di alcune scritture degli ultimi anni, ma ampiamente
leggibile in quanto scorrevole e chiaro. Il nucleo topografico dominante,
Napoli, è variegato temporalmente e geograficamente all’interno della sua unicità.
MISTERO NAPOLETANO
rappresenta la ricerca di un’identità personale, quella di Francesca,
appartenente al Partito Comunista e giornalista culturale dell’allora organo di
partito “L’Unità”, ma proveniente da famiglia borghese, critico musicale,
persona indipendente sul piano delle concezioni politiche ma non
indisciplinata, ciò nonostante sottoposta alle critiche della direzione
stalinista, e si direbbe anche perbenista nella descrizione di Rea, degli anni
Cinquanta. Francesca subisce critiche, tra l’altro, per una decisa autonomia
personale che non inficia l’eticità e la genuinità esistenziale delle sue
scelte.
Se la figura di Francesca
rappresenta uno scarto tra l’individualità e la socialità, essa, come quella
del marito Renzo costretto a lavorare all’Unità di Roma a causa della sua
indipendenza di giudizio nei confronti di Stalin, è al contempo emblema di una
tendenza verso il pluralismo e la democratizzazione che non sboccano, con lealtà,
in una fuoruscita che condusse vari intellettuali in campo borghese, ma si
manifesta dall’interno dell’organizzazione comunista stessa.
La prima persona narrativa
svolge un’inchiesta, nel 1993, tra i compagni di allora, cercando le ragioni
del suicidio di Francesca, che non vengono trovate con certezza, perché ogni
episodio di questo tipo, dal lato umano, è effettivamente privo spesso di un’unica
ragione, mentre viene restituita la complessità dei fattori, la rete delle
relazioni interpersonali e l’accumulo delle difficoltà della vita che spinsero
al gesto estremo.
Il libro, da questa
prospettiva, difende e rivendica l’“innocenza” dell’amica scomparsa (p. 379); e
spiega: “[…] ciascuno di noi vale le storie che si porta dietro, e non dico
soltanto le storie materiali, ma anche quelle della propria immaginazione e del
proprio sentimento; le storie della propria travagliata maturazione” (p. 379).
Il quadro dipinto nel romanzo
è però più ampio: si addentra tra le posizioni del partito oltre che sondare le
interpretazioni di vari iscritti sopravvissuti a quel difficile periodo,
servendosi anche di documenti ufficiali (verbali di riunioni, ecc.), quindi
frammischiando il registro della testimonianza a quello dell’inchiesta e del
diario, in ultima analisi collocandosi tra saggio e narrazione con la miscela
propria di Rea, che in questo modo costruisce il suo idioletto.
Si legge nella Premessa: “Forse questo è soltanto un
libro di fantascienza. Perché parla di tempo pietrificato e di coscienze
espropriate del loro diritto al cambiamento. Oppure è un libro giallo - giallo
esistenziale - perché indaga su un suicidio apparentemente senza ragione” (p.
3).
Tra “il tempo [che] divora
ogni cosa” (p. 3), l’autore si domanda: “La forma diaristica delle pagine che
seguono è solo un inganno letterario? Penso di poter rispondere di no. Ma
essendo persona scrupolosa devo ammettere che si tratta di una mezza finzione” perché
il fondo di realtà ha subito vari “rimaneggiamenti” nel convertirsi in romanzo.
“Comunque, basterà sapere che in esso non vi è nulla di inventato. L’inganno
non investe mai i dettagli, sempre verificati. Può essere che investa il libro
nella sua globalità. Investa l’idea stessa che lo sottende: l’idea di scriverlo”
(p. 5).
[Roberto Bertoni]