03/08/12

Ermanno Rea, MISTERO NAPOLETANO



Torino, Einaudi, 1995

Sosteniamo da tempo la narrativa di Rea per varie ragioni. È uno scrittore impegnato e in certa misura militante, nondimeno respinge le semplificazioni e le banalizzazioni di tematica e sfondo politico pur mantenendo un’ideologia della demistificazione accompagnata da profondità umana; e non ci stanchiamo di insistere sul fatto che oggi queste sono da giudicarsi qualità, soprattutto perché l’afflato sentimentale non si frappone al distacco razionale. I suoi personaggi sono afflitti da malinconia, eppure si gettano nella realtà e vi si investono. Il linguaggio è pieno e originale rispetto anche al vuoto a cliché di alcune scritture degli ultimi anni, ma ampiamente leggibile in quanto scorrevole e chiaro. Il nucleo topografico dominante, Napoli, è variegato temporalmente e geograficamente all’interno della sua unicità.

MISTERO NAPOLETANO rappresenta la ricerca di un’identità personale, quella di Francesca, appartenente al Partito Comunista e giornalista culturale dell’allora organo di partito “L’Unità”, ma proveniente da famiglia borghese, critico musicale, persona indipendente sul piano delle concezioni politiche ma non indisciplinata, ciò nonostante sottoposta alle critiche della direzione stalinista, e si direbbe anche perbenista nella descrizione di Rea, degli anni Cinquanta. Francesca subisce critiche, tra l’altro, per una decisa autonomia personale che non inficia l’eticità e la genuinità esistenziale delle sue scelte.

Se la figura di Francesca rappresenta uno scarto tra l’individualità e la socialità, essa, come quella del marito Renzo costretto a lavorare all’Unità di Roma a causa della sua indipendenza di giudizio nei confronti di Stalin, è al contempo emblema di una tendenza verso il pluralismo e la democratizzazione che non sboccano, con lealtà, in una fuoruscita che condusse vari intellettuali in campo borghese, ma si manifesta dall’interno dell’organizzazione comunista stessa.

La prima persona narrativa svolge un’inchiesta, nel 1993, tra i compagni di allora, cercando le ragioni del suicidio di Francesca, che non vengono trovate con certezza, perché ogni episodio di questo tipo, dal lato umano, è effettivamente privo spesso di un’unica ragione, mentre viene restituita la complessità dei fattori, la rete delle relazioni interpersonali e l’accumulo delle difficoltà della vita che spinsero al gesto estremo.

Il libro, da questa prospettiva, difende e rivendica l’“innocenza” dell’amica scomparsa (p. 379); e spiega: “[…] ciascuno di noi vale le storie che si porta dietro, e non dico soltanto le storie materiali, ma anche quelle della propria immaginazione e del proprio sentimento; le storie della propria travagliata maturazione” (p. 379).

Il quadro dipinto nel romanzo è però più ampio: si addentra tra le posizioni del partito oltre che sondare le interpretazioni di vari iscritti sopravvissuti a quel difficile periodo, servendosi anche di documenti ufficiali (verbali di riunioni, ecc.), quindi frammischiando il registro della testimonianza a quello dell’inchiesta e del diario, in ultima analisi collocandosi tra saggio e narrazione con la miscela propria di Rea, che in questo modo costruisce il suo idioletto.

Si legge nella Premessa: “Forse questo è soltanto un libro di fantascienza. Perché parla di tempo pietrificato e di coscienze espropriate del loro diritto al cambiamento. Oppure è un libro giallo - giallo esistenziale - perché indaga su un suicidio apparentemente senza ragione” (p. 3).

Tra “il tempo [che] divora ogni cosa” (p. 3), l’autore si domanda: “La forma diaristica delle pagine che seguono è solo un inganno letterario? Penso di poter rispondere di no. Ma essendo persona scrupolosa devo ammettere che si tratta di una mezza finzione” perché il fondo di realtà ha subito vari “rimaneggiamenti” nel convertirsi in romanzo. “Comunque, basterà sapere che in esso non vi è nulla di inventato. L’inganno non investe mai i dettagli, sempre verificati. Può essere che investa il libro nella sua globalità. Investa l’idea stessa che lo sottende: l’idea di scriverlo” (p. 5).

[Roberto Bertoni]