23/04/12

Nabin Sudda, NUMAFUNG (BEAUTIFUL FLOWER)

Nepal, 2001. Con Niwahangma Limbu, Alok Newang, Ramesh Singhak, Anupama Subba, Prem Subba.

Questo bel film in lingua Limbu narra la storia di una ragazza andata sposa per volere paterno a un taglialegna di cui si innamora, poi a un possidente che la tratta con violenza e da cui fugge, legandosi sentimentalmente e per scelta personale a un uomo che la ama, ma dovendo anche, con questa scelta, rompere con la famiglia originaria, che è frattanto costretta a pagare un compenso al secondo marito, con conseguente indebitamento, vendita della casa e trasferimento dal paese sulle alture verso la pianura in situazione di impoverimento e di sradicamento.

Quindi un elemento del film è la messa in questione della società patriarcale e il peso della tradizione con le regole che impediscono l’emancipazione individuale. Il che, tuttavia, non significa l’esclusione dalla prospettiva esistenziale di affinità con altre regole della vita tradizionale, illustrate dal regista con tatto e accostamento antropologico non intrusivo, bensì naturale e fornito di partecipazione ideologica ed emotiva. Così, per esempio, il Consiglio degli Anziani, la presenza dello sciamanesimo, i riti del matrimonio, dell’ospitalità, dei funerali.

L’alleggerimento di questa storia tragica è affidato all’occhio narrante, quello della sorella della protagonista, una bambina, che osserva con perspicacia e al contempo con innocenza i giochi del destino che le si dipanano di fronte.

Il regista ha dichiarato in un’intervista del 2004 che con questo film voleva distaccarsi dalla cinematografia nepalese del tempo, ignorando chi lamentava che il suo film non sarebbe stato commercialmente efficace, mentre a cose fatte ha vinto invece vari premi.

Sudda ammira il cinema asiatico e in particolare quello cinese piuttosto che quello indiano. Definisce consapevole la scelta del realismo e della rappresentazione dei problemi di genere oltre che della minoranza etnica in cui si svolge la storia [1].

NOTE

[1] Intervista a cura della rivista “The Nation” .

[Roberto Bertoni]