07/01/08

Ivano Mugnaini, LE ZOLLE E I PESCI D’ORO


[Dalla luce al buio. Riproduzione di un dipinto di Laura Vecchi Ford]


È vero, certo, tutto il mondo esiste per essere raccontato in un libro. Lo dicono i poeti e gli scrittori, lo pensano in molti. Gabriel no. Lui non lo pensa. Ha provato, con tutto il sangue, il sudore, la pazzia, la luce e il buio di queste pianure riarse. Ha provato a partorire un figlio mostruoso, un gigante con ali di falco e coda di maiale. Tutto il mondo in un mucchietto di carta, un fascicolo di fogli che anche un bambino può reggere con una mano. La vita, tutta la vita, tra le dita di un bambino. Ha provato, sapendo di fallire. Tentativo condannato fin dalla partenza, sogno generato da lombi di tragedia.

Ha provato Gabriel, ma lui la conosce bene. La incontra, la vive ogni giorno come me, la verità. Macondo esiste. Esiste davvero. A qualcuno suonerà assurdo, ad altri scontato. Ma è così. Gabriel fa parte della stirpe. È un Buendia a tutti gli effetti. Porta anche lui il nome ironico che significa “Buongiorno”, o qualcosa del genere. Fa ridere, perché il giorno è dannatamente lungo e quasi mai buono. Un giorno che si ripete per l’eternità. Fa ridere e imprecare, in silenzio, come fanno da sempre i contadini. Godono e soffrono a bocca chiusa, senza alzare gli occhi al cielo.

Gabriel è uno di noi. Ha la faccia goffa e grassa, le pupille grandi chiuse a metà da palpebre di stoppa. Un ombrello, un telo scuro che ci protegge dall’acqua e dal sole. Gabriel è un contadino nell’anima e dell’anima. Ha mani callose nate con il marchio indurito di una zappa. Ma ha un bernaccolo in più nella testa, un’escrescenza strana. L’impronta della coda di maiale che tenta inutilmente di nascondere o di attribuire ad altri. Simbolo di una follia antica, che, in lui, ha generato il volo. Il più folle dei voli. Uomo di terra, di fango, di campi, impastato di sabbia e zolle, ha voluto sognare di essere Ulisse. È saltato al di là. Sulla zattera di tronchi che trasporta splendide matrone francesi le cui arti magnifiche cambiano i metodi tradizionali dell’amore. È volato, a bordo di un innocente, micidiale treno giallo che non conosce stazioni. Là, oltre il confine dove la terra diventa parola.

Ha osato tutto ciò che noi di Macondo non vogliamo neanche pensare. Trasformare la realtà in parola. Anche lui, come José Arcadio, ha immaginato un luogo in cui sorgeva una città rumorosa. L’incubo si è fatto suono, voce, e la voce si è lasciata corteggiare. Ho provato a fermarlo, a ricordargli le radici. Ma lui, proprio come il capostipite dei Buendia, da onesto lavoratore costruttore di cose solide ha voluto diventare uno scansafatiche dall’aspetto ciondolone. Ha passato interminabili giornate nel laboratorio di Melquiades il ciarlatano cercando le meraviglie del mondo. Lei. Bella, alta, gambe lunghe, capace di correre come il vento, come l’aria che le sfiora i capelli corvini. Bella e insidiosa, zucchero e sale, carezza e ferita. La parola. Potere e schiavitù. La colpa è stata sua, solo sua, di Gabriel. Lei continuava a chiamarlo “amico”. Non avrebbe dovuto correrle incontro. Doveva lasciarla dov’era, lontana, oltre il recinto dei ricordi e dell’immaginazione. All’inizio c’era riuscito, così sembrava almeno. Lavorava con noi nei campi a testa china, Gabriel. Solo la schiena era abbronzata, solo la nuca bruciava, coperta in qualche modo dai nodi dei capelli. Ce l’aveva fatta, l’aveva scordata. Poi, quasi scherzando, le ha posato addosso lo sguardo e i pensieri. Da allora lei c’è. C’è l’attesa, la meraviglia, la morsa strangolante del miracolo e dell’impossibilità di realizzarlo.

La sua colpa, ora, la paghiamo tutti. Eravamo tranquilli prima. Certi del sudore, delle piaghe, dei piatti di fagioli e patate, del vino e dell’aceto. Della pioggia e del sole. Non stavamo a contarli i giorni. Guardavamo fuori senza simpatia e senza orrore, senza chiedere alla speranza di indossare camicie di seta e di organza. Restavamo nei campi a giornate intere e la sera del sabato si andava a ballare. Ci si incontrava, ci si sposava, per forza e per amore, o qualcosa del genere. Si faceva dei figli, belli e brutti, buoni e cattivi, perché è normale, perché anche i frutti del pesco sono così, anche la terra preparata per il grano e per la segale nutre la gramigna. Non può essere diverso. E nessuno può farci niente. Invecchiavamo senza accorgercene, senza guardarci indietro. Fissando dritto davanti a noi come un bambino che salta dentro un fosso. Pronti a volare per qualche attimo e a fradiciarci di fango che ci sarebbe restato attaccato addosso come calce.

Ora, a causa di Gabriel, sappiamo tutto. Lui si è invaghito della parola, l’ha inseguita, perduto dietro a un sogno. Noi ne subiamo le conseguenze. Sappiamo gli intrighi, gli intrecci, i parenti e i parenti dei parenti. Quello che abbiamo fatto e quello che avremmo dovuto fare. O non fare. Guardiamo la faccia del presente e vediamo il ghigno del passato o del futuro. Le sollevazioni armate perse per trentadue volte di seguito, la civiltà, la violenza, la giustizia e il suo contrario. Sappiamo che i José Arcadio sono impulsivi e intraprendenti ma marcati da un segno tragico, gli Aureliani sono riservati ma con un discernimento lucido. Sappiamo tutto adesso. E capiamo meno di prima.

Abbiamo conosciuto le diavolerie di Melquiades, quelle che ha portato di casa in casa. Abbiamo visto Rebeca che mangiava di nascosto la terra del patio e i calcinacci che staccava dal muro con le unghie. O, meglio, abbiamo pensato a Rebeca che mangia la terra. Prima la vedevamo senza riflettere su nulla. Con un sorriso breve e amaro come una goccia di assenzio. In fondo anche la terra ci mangia e ci screpola. Non c’era nulla di male. Prima. Abbiamo guardato Remedios la Bella girare per casa nuda. Con una malizia nuova. L’abbiamo toccata con le dita avvelenate della mente. È dovuta fuggire in convento e non le è bastato neppure quello. È scappata lassù. In cielo. Al di là della portata dei nostri limiti e delle nostre recinzioni. Ora quando pensiamo alla bellezza ci viene in mente il peccato. Il suo e il nostro.

Tutto questo lo dobbiamo a Gabriel. Alla sua smania, ai suoi occhi puntati verso l’ignoto. Stavamo meglio quando eravamo ignoranti. Ora non sappiamo più distinguere la felicità dalla demenza. Quando sentiamo una donna cantare non pensiamo più che stia facendo l’amore o stia corteggiando qualcuno. Pensiamo che forse sta divorando di nascosto pezzi di muro o cammina senza vestiti perché se li è strappati di dosso per rabbia o per dolore.

La deve pagare Gabriel. Era uno di noi, carne della stessa carne. È diventato il nostro peggiore nemico. Noi siamo contadini, sì, ma i nostri avi, per necessità, hanno dovuto anche farsi guerrieri. Sappiamo combattere. E vendicarci. Abbiamo escogitato un piano di attacco, un’azione punitiva. Lo affronteremo sul suo stesso terreno e con le sue stesse armi. La parola scritta. Davanti alla piazza della chiesa ci siamo riuniti e abbiamo stabilito che uno di noi avrebbe dovuto prendere una penna e tramutarla in un coltello. È toccato a me. Ho cercato un foglio di carta e ho cominciato a tracciare i segni della nostra vendetta. Adesso sono io che invado i sentimenti e gli occhi di Gabriel, sono io che manipolo il suo destino, l’oggi e il domani confusi con ieri, con sempre, con mai.

Il mio piano è semplice: trascinare Gabriel dentro una storia, un racconto, una saga familiare senza inizio né fine. Anzi no. Illudendolo che non ci sarà fine, poi, in un determinato momento, in una pagina come tante, cancellarlo, farlo sparire, annientarlo definitivamente. Senza possibilità di colpi di scena e miracolose riapparizioni. In fondo sa bene anche questo Gabriel, lo sa bene quanto noi, il destino dei Buendia è marcato fin dall’inizio. È pena e condanna. Sarò magnanimo con lui, comunque. Lo farò finire in modo rapido, dignitoso. Non gli farò quello che lui ha fatto ad Aureliano, non lascerò che finisca i suoi giorni chiuso in un laboratorio a fabbricare pesciolini d’oro. No, Gabriel morirà in modo degno. Come un nemico a cui è stato concesso l’onore delle armi.

Noi torneremo nei campi a dissodare zolle, felici, o quasi, del nostro niente. Sì, è tempo che impugni la penna con la punta cosparsa di curaro. È ora di scrivere il capitolo finale della vicenda di Gabriel. Non me ne rallegro, questo no. Ma lo devo alla mia gente. Un giorno magari scriveranno una canzone su di me. Diventerò quasi un eroe.

Ah, dimenticavo... Mi chiamo Gabriel. Gabriel Garcia. Eh sì, ormai è appurato, dalle nostre parti non abbiamo una gran fantasia nella scelta dei nomi.

Visto che ormai ci siamo presentati posso farvi una confidenza: da quando ho preso in mano questo strano oggetto chiamato penna e ho cominciato a sporcare fogli bianchi, beh, mi è piaciuto, ho provato piacere, non mi vergogno a dirlo, come quando guardavo dalla finestra la carne nuda di Remedios la Bella. Mi sa che non riuscirò a fermarmi. Dopo avere ucciso Gabriel dovrà andare avanti. Scrivendo magari di un suo figlio di nome Aureliano, di sua madre Ursula, di suo padre José Arcadio che poi è anche suo figlio, e il figlio di suo figlio...

Gabriel ci ha fregati. Non so più fermarmi. Prima a Macondo avevamo la terra. Ora abbiamo preso a lavorare anche l’aria, a coltivare sogni, per mangiarli, per divorarli, conservando la stessa sete e la stessa fame. Una fame diversa, che ti fa anche sorridere, che è bello attendere, saziare, e attendere ancora.

Ne sono certo, non riuscirò a smettere. La morte di Gabriel sarà la nascita di altri uomini e altre donne che si ameranno tra di loro infischiandosene beatamente della coda di maiale, della sofferenza, della certezza della miseria. Scriverò. Per almeno altri cento anni. Scriverò di un luogo in cui sorgeva una città rumorosa sparita in un vortice di polvere. Sparita e riemersa. Come la solitudine. Come la voglia, la forza, il diritto di combatterla, contrastandola con ogni stilla di energia e di passione. Mangiando la terra magari, cercando le chiavi che aprono le porte dei sogni, o chiudendosi dentro una stanza a fabbricare pesciolini d’oro.