24/12/07

Jess Row, THE TRAIN TO LO WU


[Time for waiting and time to run off. Hong Kong 2007. Foto di Marzia Poerio]


Jess Row, THE TRAIN TO LO WU. New York, 2005. Dial Press (Ramdom House), 2006

Jess Row è nato nel 1974 a Washington. Ha insegnato inglese all'Università Cinese di Shatin (a Hong Kong) dal 1997 al 1999. È docente attualmente presso il College of New Jersey; è inoltre maestro del Dharma della Scuola Zen Kwan Um. L'influsso buddhista sulla sua scrittura, secondo le sue stesse parole, è "costruire modelli di processi karmici e guardarli recitare fino in fondo la loro parte" [1].

Ambientati prevalentemente a Hong Kong (con escursioni nei Nuovi Territori e in parte a Shenzen), i sette racconti di THE TRAIN TO LO WU (il primo libro di Row, che ha giustamente ricevuto recensioni ottime), sono scritti in prima o in terza persona nel presente indicativo e narrano situazioni di disagio, dolore, frattura e consapevolezza.

In THE SECRET OF BATS, l’adolescente Alice coinvolge il suo insegnante nella ricerca dei rumori, bendandosi e seguendo le risonanze dei pipistrelli per ritrovare la madre suicidatasi; viene recuperata alla vita dal professore prima che segua la madre dalla terrazza di un alto edificio. In THE AMERICAN GIRL, una ricercatrice statunitense cerca di riportare alla memoria della Rivoluzione Culturale Chen, la cui famiglia aveva subito persecuzioni in quel periodo. In FOR YOU e REVOLUTIONS, la filosofia buddhista costituisce il paradigma con cui interpretare le crisi personali e il rapporto di coppia. In THE TRAIN TO LO WU, una relazione difficile si attua tra un cittadino e una ragazza di campagna, percorsa da reticenze, timidezze e mancate soluzioni. In THE FERRY, un uomo d’affari senza scrupoli vede crollare il proprio mondo. In HEAVEN LAKE, un vedovo ricorda un episodio di pericolo di tanto tempo prima, quando, per salvarsi la vita, non l’aveva salvata al proprio rapitore.

La città del Sud est asiatico, con le sue dimensioni ristrette e cresciute in altezza, i rapporti tra Oriente e Occidente che vi si incrociano, l’identità linguistica e culturale cantonese e la diversità dai cinesi che parlano il mandarino, l’attenzione ai dilemmi etici, una ricerca di appartenenza si congiungono in storie di spessore psicologico, narrate nondimeno con leggerezza.

Una citazione in epigrafe dal Calvino delle CITTÀ INVISIBILI, relativa al fatto che ogni città pone e risolve quesiti, costituisce un tributo esplicito all’autore italiano, la cui compatibilità coi testi di Ross si estende oltre, orientandosi sull’interesse per la fenomenologia del momento attuale, l’intreccio tra meditazione e osservazione e il non finito.

Molte di queste storie si risolvono in un finale non completo, lasciando intuire come andranno a terminare più che annunciandolo esplicitamente: così la scrittura si dissolve nel flusso dell’esistenza e della vita. L’autore, nell’ultima pagina del volume, scrive in proposito: “[...] può darsi che le storie non abbiano finali che comprendiamo, non più di quanto accade nelle vite degli esseri umani. Forse bastano gli inizi” (p. 190) [2].


NOTE

[1] “Building models of karmic processes and watching how they play out”. Intervista con Jess Row, “BookFox”, http: //www. thejohnfox. com/ bookfox/ 2007/ 05/ interview_ with__1. html.
[2] “[…] it may be that stories do not have endings we understand, any more than human lives do. Perhaps beginnings are enough”. Da un'intervista della rivista “Gotham's Writers' Workshop” con Row, http: //www. writingclasses. com/ Information Pages/ index. php/ PageID/ 268
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Qui di seguito un testo di impronta biografico-saggistica sull'esperienza vissuta a Hong Kong, messo gentilmente a disposizione dall’autore (titolo originale: INVISIBLE CITY: A GHOST WRITER IN POSTCOLONIAL HONG KONG).

Jess Row, CITTÀ INVISIBILE: UNO SCRITTORE FANTASMA NELLA HONG KONG POSTCOLONIALE

In inglese un “ghostwriter” – scritto così con una parola sola [composta da due parole che in italiano significano writer, “scrittore”, e ghost, “fantasma”, n.d.t.] – è chi viene impiegato per scrivere un libro in maniera anonima, fingendo di essere qualcun altro: di solito una persona famosa che non ha il tempo, o il talento, per scrivere un libro da sé. La mia definizione di “ghost writer” – scritto con due parole – è piuttosto diversa, sebbene forse non del tutto scollegata dalla precedente. Il termine colloquiale cantonese che designa una persona bianca è gwailo, ovvero, letteralmente, “uomo fantasma”, “demone”, “diavolo”, a seconda di come si traduce il carattere gwai. Questo termine può essere un insulto; o semplicemente descrittivo, a seconda del contesto. I miei amici cinesi di Hong Kong mi chiamavano a volte gwai zai, con tono alto, ossia “bravo ragazzo”, che poi trasformavano, tramite un gioco di parole su gwai zai con un tono crescente, in “ragazzo bianco”. Quindi nella mia mente il modo più accurato di descrivermi in quanto scrittore a Hong Kong sarebbe gwai jokje: scrittore bianco, scrittore demone, scrittore fantasma. Oppure tutti e tre assieme.

Il termine gwailo, e soprattutto la sua traduzione tramite la parola “fantasma”, è campo di disputa tra gli scrittori e gli studiosi cino-americani. Negli anni Settanta, Frank Chin si scagliò contro Maxine Hong Kingston perché aveva adoperato, come sottotitolo di THE WOMAN WARRIOR (in italiano “la guerriera”), la frase MEMOIRS OF A GIRLHOOD AMONG GHOSTS (“memorie di una ragazza tra i fantasmi”), affermando di adattarsi alla sensibilità dei bianchi col non tradurre il termine gwailo con "demon" (“demonio”) o addirittura "asshole" (“zotico”). Kingston ha utilizzato la parola “ghost”, a mio parere, per richiamare il contrasto ironico tra il mondo leggendario, colmo di fantasmi, della Cina evocata dalle storie di sua madre e la realtà, contemporanea alla vita di Kingston tra persone in carne e ossa, che venivano in qualche modo anch’esse etichettate come fantasmi (perché la medesima parola, gwai, si utilizza in cantonese e nei dialetti correlati per riferirsi a entrambi). Invoco la parola “ghost” e l’espressione “ghost writer” per descrivere la mia posizione in quanto si rivolge all’esperienza di vita entro ciò che i teorici attuali descriverebbero come spazio postcoloniale cinese. Desidero chiarire che non sto cercando di “conferire potere” a me stesso col redimere un termine che è stato utilizzato in maniera offensiva. Semmai, preferisco che gwailo, o gwai jokje, resti ambiguo, inaffidabile, intraducibile; fors’anche, per certuni, inaccettabile, perché la mia esperienza di scrittura riguardo Hong Kong è stata tutte queste cose fin dall’inizio.

Ho vissuto a Hong Kong circa due anni, dall’agosto del 1997, il mese dopo il passaggio delle consegne, fino al maggio del 1999. Ho svolto un incarico di lettore d’inglese presso l’Università Cinese di Shatin, parte del programma Yale-Cina di borse di studio destinate all’insegnamento. Come sa chiunque abbia visitato il campus dell’Università Cinese, si tratta di un luogo di singolare bellezza e isolato, un campus universitario costruito sul fianco di una montagna che dà sul porto di Tolo; il mio appartamento era in un edificio sulla vetta della montagna con una vista magnifica. Quindi, fin dal principio, la mia vita a Hong Kong è stata molto diversa da quella dei tipici esuli occidentali, la maggior parte dei quali sta sull’isola di Hong Kong, nel cuore della città. Tranne i coinquilini, i vicini erano quasi tutti personale o studenti cinesi.

Molte delle memorie più tenaci del primo anno a Hong Kong sono di solitudine. Passavo parecchio tempo viaggiando in metropolitana e sul treno sopraelevato KCR per andare e venire dalla città; spesso (soprattutto nei Nuovi Territori) ero l’unica persona sul vagone. Non ho mai ricevuto quanto denominerei un’occhiata ostile da parte delle persone che mi circondavano, ma ho spesso avuto la sensazione di essere invisibile, di non essere del tutto reale. A volte i bambini piccoli mi fissavano o mi salutavano con le mani, ma i genitori li spostavano o li distraevano in silenzio e con rapidità. Ero arrivato a Hong Kong sapendo un po’ di cantonese e mi aspettavo di avere opportunità infinite di praticarlo, ma qualcosa di relativo all’atmosfera delle sotterranee mi tratteneva dai tentativi di parlare con chicchessia. Alla fine ho preso l’abitudine, propria di molti residenti di Hong Kong (e degli abitanti delle città ovunque), di portarmi dietro gli auricolari in qualsiasi posto andassi, in modo da avere sollievo dal silenzio opprimente o dal rumore incredibile.

Questo non lo dico per lasciar intendere che la popolazione di Hong Kong non sia sufficientemente accogliente. Ciò di cui ho fatto esperienza è stata la mia reazione psicologica al fatto di trovarmi a essere per la prima volta un “outsider”, un estraneo, uno proveniente da fuori. Ogni luogo in cui andavo possedeva un senso strano e misterioso di inappartenenza; anche gli alberi sul campus dell’Università Cinese, le acacie, gli ibischi, le piante della gomma, i cedri e i pini, mi colmavano di una sensazione di alienità, di differenza dai boschi dell’America nord-orientale che avevo conosciuto (senza sapere di conoscerli) fin dalla nascita. Ciò in parte aveva anche a che fare col fatto che alla mia partenza era rimasta negli Stati Uniti una donna che amavo; il nostro scambio continuo di mail, lettere e telefonate mi ricordava la sua assenza. (Non sono certo la prima persona a notare che i congegni e i sistemi tecnologici che consentono una comunicazione costante rafforzano anche, in molti modi, il nostro senso di assenza fisica da casa, dal nostro paese e dalle cose familiari).

Allo stesso tempo, naturalmente, penso di essere stato in larga misura nel giusto nel pensare che i cinesi che ho conosciuto, in un certo senso, fossero per lo più perspicaci nei miei confronti; cioè ero loro familiare eppure alieno, tanto che non servivo loro a niente. Vivevo ciò che molti studiosi e osservatori di Hong Kong descrivono come una specie di apartheid psicologico: una divisione tra la popolazione cinese – la stragrande maggioranza della città – e la comunità, minuta statisticamente, ma potente economicamente e culturalmente, di espatriati, stranieri e residenti stabili di origine anglo-europea. Cioè i gwailo.

(Come ho presto scoperto, l’invisibilità funziona in entrambe le direzioni. La maggior parte dei residenti di Hong Kong – anche chi vi abita da vent’anni – parla non più di poche parole di cantonese. La prima settimana in cui ero a Hong Kong sono stato a fare un giro in “giunca” - un’imbarcazione lignea di vecchio tipo – all’isola di Lamma con un ampio gruppo di espatriati e visitatori, e, incredibile, io, con due mesi appena di cantonese, ero l’unico in grado di dire al pilota dove venire a prenderci).

Tre aspetti del periodo trascorso a Hong Kong mi hanno consentito di superare questa divisione culturale, dapprima in modi superficiali e alla fine, penso, in maniere fondamentali. In primo luogo, come ho detto, c’è stata la distanza fisica dalla comunità degli esuli. In secondo luogo c’è stato il mio lavoro: tutti i miei studenti erano cinesi, naturalmente; ed è stato chiaro dal momento in cui li ho conosciuti che l’inglese era per loro una lingua funzionale, una lingua “ufficiale”, e che il cantonese era l’unica lingua che parlavano con sentimento o personalità. In terzo luogo c’è stata la mia appartenenza a una comunità religiosa, il Monastero Zen di Su Bong, parte di una scuola internazionale di Buddhismo Zen. Lo Zen, come sa la maggioranza delle persone, è fondato sul principio di una “trasmissione speciale delle scritture, non dipendente dalle parole o dal discorso”, e al Monastero (che era in realtà un appartamento sul lato opposto a un centro commerciale di Causeway Bay) sono stato accolto senza riserve e con gentilezza notevole.


[Recensione e traduzione di Roberto Bertoni]