26/12/07

Monica Ali e Sarah Gavron, BRICK LANE


[At the end of the lane a closed gate, a closed door. Foto di Marzia Poerio]





















Monica Ali, BRICK LANE (2003), Reading, Black Swan, 2007.
BRICK LANE, regia di Sarah Gavron., 2007; sceneggiatura: Laura Jones e Abi Morgan; fotografia: Robbie Ryan; con Naeema Begum, Tannishta Chatterjee, Satish Kaushik, Lana Rahman, Christopher Simpson


Trasferendosi dal Bangladesh, a diciassette anni, Nazneen sposa Chanu, un uomo di molti anni più anziano che risiede a Londra, scelto da suo padre, partito per far fortuna, ma costretto a vivere in condizioni economiche modeste nonostante gli studi universitari. Il matrimonio si svolge tra alterne vicende in una situazione tradizionale di esclusione della donna dalla sfera maschile (non sa nemmeno per un certo periodo di tempo quale sia la professione del marito). Le figlie Shahana e Bibi mostrano negli anni forme di integrazione nella società inglese, che resta in larga parte estranea alla popolazione di Brick Lane, dove vive la comunità cui la coppia appartiene. Si tratta di una storia di graduale emancipazione. Nazneen intraprende un’attività di sartoria domestica, pagata a numero di articoli tramite chi le porta il lavoro, il giovane Karim, col quale ha una storia, che si interromperà per decisione di lei di non sposarlo. Il marito torna al paese natale; Nazneen resta a Londra, luogo al quale, più che alle origini e nonostante l’emarginazione, ormai sente di appartenere assieme alle figlie. La verità ufficiale è che raggiungerà il marito prima o poi, ma si lascia intendere che resteranno dove sono. Come nei DUBLINERS di James Joyce, la storia si chiude sulla neve, che provoca qui però, a differenza che nello scrittore irlandese, liberazione piuttosto che costituire una cappa pesante. Frattanto, su una linea narrativa parallela, si è assistito alla sensibilizzazione verso il fondamentalismo di una parte della comunità islamica, mentre viene attraversato (e testimoniato con le immagini televisive) l’episodio dell’11 settembre.

Questo lo schema narrativo del film, che ripercorre con relativa fedeltà, più concisamente, com’è necessario, lo schema del romanzo, sebbene ne restino fuori la prima parte, la perdita del primo figlio, la storia iniziale di adattamento di Nazneen in Occidente, e le lettere scritte in un inglese sgrammaticato e interessante stilisticamente dalla sorella dalla madre patria.

Il romanzo è naturalmente più complesso e affronta temi su cui il film non insiste più di tanto, in particolare il destino, un concetto che fin dalla nascita segue Nazneen e implica una sua quieta rassegnazione fino al momento della fine dell'accettazione, della rottura e dell'autodecisione.

Ci sono piaciuti tanto il romanzo quanto il film: il primo perché è ben scritto; non ha niente di banale; denuncia le situazioni di oppressione con chiarezza, ma non suddivide il mondo in buoni e cattivi: Chanu è vanitoso e certamente oppressivo della moglie ma non malvagio, ad esempio. Il romanzo presenta maggiore impulsi ironici, ha il tempo della lentezza nella definizione dei sentimenti, che vengono resi nel film dalla magnifica interpretazione degli attori principali: Chatterjee (Nazneen) e Kaushik (Chanu). A noi è sembrata una storia ben narrata, utile, umana, intelligente.

Ha invece suscitato notevoli polemiche: sia nelle letture pubbliche, da parte di chi ha sentito la comunità del Bangladesh denigrata, sia al momento della proiezione del film. Nell’edizione del romanzo da noi utilizzata (alle pp. 494-511) è riprodotto un articolo di Ali già uscito sul “Guardian” del 13-10-2007, in cui la scrittrice parla delle controversie suscitate dalla sua opera e dalla proiezione cinematografica, mettendo in rilievo anche taluni anacronismi del dibattito, ma ribadendo l’autenticità di questo racconto che, sebbene sia di fantasia, nasce dall’esperienza di vita della madre dell’autrice, che compì in gioventù il tragitto inverso a quello della protagonista, andando dall’Inghilterra al Bangladesh per sposarsi. Ali rintuzza uno a uno gli argomenti dei denigratori che non appaiono in effetti molto solidi quando si legge questo saggio.

Un film da vedere, anche per i bei flashback sull’infanzia della protagonista e della sorella, la fotografia, la capacità di resa di un microcosmo.


[Renato Persòli]