08/11/07

Massimo Morasso, LE POESIE DI VIVIEN LEIGH. CANZONIERE APOCRIFO

LE POESIE DI VIVIEN LEIGH (Genova-Milano, Marietti, 2005) è un libro di versi scanditi, di intensità esistenziale, di correlativi di natura rapportati alla situazione di un osservatore non esente da momenti di haiku.

L'io osserva il mondo ed enuclea scatti di pena e dignità del dolore.

I sentimenti vengono tanto dichiarati quanto restano composti.

Il tempo passa, sedimentando il disamore e la caducità.

Quando "la notte è la notte" si dà "una coscienza che frena" (p. 53). Una forma di non rassegnazione "al pensiero della notte" anela verso la luce (p. 52).

Un "bisogno di cosmo" (p. 49), in attimi in cui "perfino gli universi / si sgranano" (p. 12), amplifica le sensazioni senza rovesciarle in improbabili romanticismi, mantenendole invece a contatto con gli umani, nell'ambito ribadito di una "piccola coscienza" (p. 49).

L'attenzione è nel rapporto del soggetto con l'oggettività e l'inevitabile che ci definisce, verso "ciò che è / e che non sa di essere. Il necessario / che ci certifica" (p. 22).

Le parole sono ferme, senza concessioni alla retorica vieta; talora "senza peso" (p. 41), talora "suoni / raggianti che mi ascoltano" (p. 38); sempre alla portata del lettore, nondimento scelte, distillate a comporre frasi in cui l'io si autointerroga rispetto al mondo, alla propria storia, all'individuazione di sé: "la memoria che confonde figure" (p. 38) e "mi perdo sul confine delle mie parole" (p. 33).

Lo scopo è indicato discretamente tra parentesi: "(Esistere. Testimoniare. Non / si va molto lontano col silenzio)" (p. 13).

Chi è, in questo libro, Vivien Leigh? Come si è trasformata: da attrice e persona tormentata è diventata un titolo, un percorso di versi, una serie di sequenze espositive e di dubbi sull'identità e sull'entità del vivere.



TRE TESTI DAL VOLUME


1.

È ancora lontana la pioggia
benché il temporale stia scoppiando
alto sulla cruna del lampo, nell'azzurro
che scava sotto le nuvole
e sulla terra spacca le radici.
Io non penso che basti
tutta la mia fatica
a dire lo splendore di una rosa.


2.

Mi sento viva, felice
di annullarmi in un ordine profondo
quando osservo le api al lavoro
sull'orlo dei calici. Rimarrei
per secoli a fissarle, come una che vede
sé da un qualche altrove
e resta lì, invisibile, a guardare
l'opera del mondo

bruciarsi poco a poco dentro il buio.


3.

Chi l'ha detto
che a un certo punto il male si ritira.
Non è più lì la speranza,
ma vive del suo stesso mistero,
nel calmo fervore del roseto
che fa più lieve il dolore.



QUATTRO DOMANDE A MASSIMO MORASSO

Come si è materializzata la poesia di Vivien Leigh nel tuo panorama culturale ed esistenziale?

Prima di avvicinarmi a Vivien Leigh, sapevo di lei quello che molti sanno, e cioè quanto ne tramanda la pseudo-mitologia dello star system. Fino ai miei trent'anni, Vivien Leigh era per me, prima di tutto, l'incarnazione di Scarlett O'Hara, l'eroina di VIA COL VENTO, e poi la grande interprete di UN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO. Inoltre, di lei sapevo che era stata compagna di vita del più grande genio attoriale del '900, Laurence Olivier, e poco d'altro. Ne fui colpito in modo che definirei irreparabile quando venni informato (durante una conversazione sviluppatasi, chissà perché, in margine a una ennesima replica televisiva di di VIA COL VENTO) delle patologie che la avevano afflitta per un lungo tratto della sua esistenza, portandola a morte in (relativamente) giovane età. Quell'accenno a una realtà biografica così anomala, scossa fin dall'adolescenza dalla tubercolosi e, nel tempo, da sempre più ricorrenti crisi maniaco-depressive, mi spinse a volerne sapere di più. Nella nota che ho aggiunto in fondo al libro, ho provato a tracciare le linee essenziali del mio percorso di avvicinamento, dando conto al contempo di alcune delle ragioni e sragioni di una così "stramba" voluttà di rispecchiamento. Ciò che mi sembra interessante ribadire, è che il mio singolare corpo-a-corpo con Vivien Leigh si è sviluppato intorno al fil rouge che lega quella figura tragicissima di donna ad alcune mie personali ossessioni. Nemico dell'io, posseduto da voci e immagini che mi chiamano a testimoniarle nel medium condiviso del linguaggio, ho trovato in Vivien Leigh un "corpo sottile" nell'aura del quale ho sperato di potermi avvicinare al nucleo più segreto di quelle ossessioni... Vivien Leigh si è materializzata in me, in effetti, come una specie di sostanza ectoplasmica capace di richiamarmi infallibilmente all'attenzione per una dimensione profonda dell'invisibile. A ripensarci con il senno di poi, la mia storia con Viv è stata tutta una storia di fantasmi, alla fine. Una storia la cui trama potrebbe, forse, essere riassunta anche così: un parassita di fantasmi che lo abitano (l'io di Massimo Morasso) che dà la caccia a un fantasma posseduto da immedicabili manie (il fantasma di Vivien Leigh, naturalmente, e insieme, senza dubbio, anche quello di Massimo Morasso). La poesia di Vivien Leigh è l'esito scritto di un percorso di auto-riconoscimento entro il quale cacciatore e cacciato (mi si perdoni la metafora un po' frusta) sono passati oltre il punto di una loro possibile con-fusione, "sfondando" a braccetto, per così dire, in un luogo impersonale, al di là dello psicologico: nel proscenio di un teatro mentale dove al posto degli uomini-marionetta (di rilkiana memoria) protagoniste sono diventate le maschere.


Fino a che punto Vivien Leigh è a tuo avviso protagonista di questi testi?

Mi è molto difficile dirlo. Se, a tratti, la mia cosciente o iper-cosciente volontà di spogliamento e di fuga da me stesso mi ha spinto nei pressi dell'idea di una perfetta sovrapposizione fra l'io scrivente e Vivien Leigh, più spesso, negli anni del mio lavoro con, su e come Vivien Leigh sono stato colto dal dubbio sulla legittimità di quell'idea. In realtà, non sono mai riuscito a capire fino a che punto Vivien Leigh mi abbia posseduto. Il libro apocrifo si chiude con alcuni versi che registrano anche graficamente un'ambiguità che mi sembra profonda in tal senso: "[...] E qui ogni nome / ha da cercare ancora la sua lingua. Non / ammutolire è il mio destino non / sono io che parlo eppure sono io". La doppia negazione in cesura lascia sospeso l'interrogativo su quale sia, alla fine, il soggetto di quell'io poetante, quell'io finzionale, cioè, che è lecito pensare possa essere l'io di tutto il libro... Ma non c'è vezzo, in quelle parole, secondo me. Lo spazio fisico ha tangenze e sovrapposizioni misteriose con lo spazio mentale. Io a un certo punto della mia vita mi sono lasciato letteralmente invadere da Viv, non le ho opposto più alcun freno inibitore, ma il nostro viaggio in comune, come deve, è stato sempre un viaggio "interattivo": un lungo, difficile sprofondamento interiore che ha presupposto e co-generato un crollo reciproco, un duplice abbandono. Dov'è l'uomo, nel mezzo del suo sogno? E dove, la sua maschera?


Al Festival di poesia di Genova, l'estate scorsa, hai curato una rassegna di poeti liguri. Ti senti tra di loro? Se sì come?

Nell'introduzione al mio primo libretto pubblicato, NEL RITMO DEL RITORNO (1997), Giorgio Luzzi, bontà sua, notava che io recavo "i connotati più incoraggianti dell'intelligenza lungamente distillata di una linea ligure". Io, per me, mi sento un poeta ligure nella misura in cui Genova è stata la capitale della poesia del '900 italiano (cosa che mi disse già Mario Luzi, con mia enorme sorpresa, quando, non ancora maggiorenne, lo andai a trovare nel suo appartamento sul Lungarno). Dei "grandi" liguri del secolo scorso, ho conosciuto di persona i soli Caproni e Giudici. Ma, vivendo a Genova, ho respirato l'aria e frequentato i luoghi che furono di Sbarbaro, poeta cui devo molto, e dei più bravi di tutti, Dino Campana ed Eugenio Montale. Faccio notare che quando dico di aver frequentato i luoghi, intendo proprio le piazze o i caruggi o le creuze in cui passarono, le fasce dalle quali guardarono, alcune delle case in cui vissero etc. Questi celeberrimi e altri miei corregionali (Campana è un poeta ligure benché sia nato a Faenza, come è noto) li ho studiati con puntiglio e, in certi casi, con passione. Tuttavia, mi sembra che oggigiorno la suggestione della "linea ligure" non abbia più ragion d'essere, dal punto di vista critico: non ha che un senso archeologico, che potrà interessare l'uomo che passa il suo tempo a ragionare di sociologia della letteratura, o di altre belle cose del genere. Con "Il passaggio di Enea", la rassegna di poeti liguri che ho ideato e organizzato per il Festival di poesia della mia città, ho semplicemente puntato a mettere insieme le forze migliori attive nel fare-poesia, oggi, in un determinato territorio, la mia regione, con l'obiettivo "generalista" di tastare il polso a quella piccola grande malata che è la poesia (non solo) ligure d'inizio secolo. Lungi da me l'idea di riproporre l'indicatore o, peggio, il paradigma geografico come asse portante di un discorso storicamente per quanto psicologicamente orientato. Per fortuna, il contesto socio-culturale invita, finalmente, a letture anti-strapaesane del factum testuale. Per tornare al mio caso, ben al di là delle circostanze biografiche che mi legano a Genova e alla Liguria, la mia tradizione è decisamente, convintamente internazionale. Come sa chi mi conosce bene, io mi sono formato più sui tedeschi, gli inglesi e gli spagnoli che sugli italiani. Mi sento un poeta ligure come immagino possa sentirsi poeta ligure un altro "grande" poeta attivo in Liguria a cavallo fra gli ultimi due secoli, l'amico Giuseppe Conte (magari Giuseppe mi smentisce, non lo so): come un uomo di pena, lo dico calibrando le parole, cui è dato di vivere in un punto determinato di un corpo celeste misteriosamente inscritto nella dismisura di una spazialità cui corrisponde una legge cosmica, oltreumana.


Qual è a tuo avviso oggi la funzione principale della poesia?

Penso che la poesia non abbia una funzione ben precisa. O meglio, penso che ne abbia così tante, di funzioni importantissime, da rendere impraticabile anche la sola ipotesi di un elenco. Azzardando una - piuttosto discutibile, me ne rendo ben conto - reductio ad unum di un insieme di qualità tanto eterogenee, mi ritrovo a pensare che la poesia sia un formidabile strumento di resistenza. Sul piano individuale a livello intrapsichico, naturalmente, dove può servire addirittura da argine a deflagrazioni psicotiche, e sul piano comunitario al livello di quanto, semplificando, si può definire "vita civile", dove al di là del circolo ristretto scrittore-lettore, quantitativamente quasi irrilevante, come è noto, gioca un ruolo fertile di testimonianza e opposizione allo strapotere del cosiddetto pensiero unico. Sottratto alla ricca essenzialità della parola poetica, chi potrebbe difendere l'uomo da quel pensiero banale che, abitandolo, lo affligge quotidianamente con la sua (tutt'altro che neutra, dal punto di vista politico) povertà linguistica e concettuale? Dal mio punto di vista, infatti, la poesia, quando è poesia, è insieme tanto uno strumento utile ad affilare e forbire il linguaggio - e, dunque, a tener saldo questo nostro scampolo residuo di civiltà - quanto un metodo a-sistematico di conoscenza. Quando Celan parla della poesia come di una stretta di mano, ci ricorda con un'immagine "forte" che poesia è coscienza in movimento verso l'altro-da-sé. Il fatto è che nel gesto poetico autentico resta sospesa un'interrogazione radicale del mondo (e, per alcuni, del suo oltre) che presuppone un ascolto, in sé, di qualcosa che trascende il sé, e che per così dire, perlomeno a mio parere, lo precede. Detto altrimenti, ragionandoci da un'altra angolazione, penso che la poesia sia l'apice concettuale e immaginativo del pensiero dialogico. In questo, mi sembra, sta soprattutto la sua necessità, e il suo debole, paradossale contropotere. È stato un sogno dell'idealismo credere che la poesia "cantasse il sacro". Un sogno, lo abbiamo capito da un pezzo, che al nostro occhio tardo postmoderno appare borioso e noioso insieme. Eppure, riconducendo le forme sensibili alle forme immaginali, la poesia resta ancora oggi il luogo del linguaggio (resta il modo dell'essere) dove viene sempre di nuovo rimesso in discussione ciò che i filosofi ci hanno abituati a chiamare la differenza ontologica. È un libero terreno di discussione, la poesia, un'agorà a disposizione delle voci. Uno spazio "laico", come piace sottolineare all'orda dei pasdaran del buon senso poetante. Ma è una spazio spalancato oltre la soglia del visibile, nell'oltremondo dove giocano a rincorrersi le Muse.


[COMMENTO E INTERVISTA A CURA DI ROBERTO BERTONI]