15/10/07

Gabriela Fantato, RITORNARE A LEOPARDI: LA POESIA NEL TEMPO DELLA MISERIA

Il "tempo della miseria" è compiuto, per questo è necessario - a mio avviso - ritornare a Leopardi e ritrovare la spietatezza del suo sguardo che seppe cogliere il "tragico vero" dentro e oltre la superficie del mondo, sentendo al contempo la "forza delle illusioni", quella potenza immaginativa che segna la vita umana e la poesia.

Credo che la lezione di Leopardi sia determinate, oggi più che mai, in quanto con lui ebbe inizio una poesia del chiasmo (intreccio/incontro) e penso a Merleau-Ponty, dove le parole nascono dalla relazione tra Io e mondo, per cui l'esperienza del reale, la riflessione e l'immaginazione si danno nei versi in un'unità inseparabile, così che nella parvenza del reale si coglie l'essenza, nella superficie la profondità.

Questo è proprio quel realismo intensivo di cui ho già scritto altrove [1] e che trova in Leopardi un grande maestro. Un'opera, uscita di recente, che ci riporta a Leopardi è SOTTO IL VULCANO [2], libro di Tiziano Salari, dove non solo sono ripresi i fili di una sterminata (e mai conclusa) lettura critica di questo maestro italiano, ma sono anche riproposti all'attenzione alcuni temi centrali di quella scrittura inesauribile che fu del recanatese.

Dalle intuizione di SOTTO IL VULCANO intendo partire per azzardare alcune domande (e tentare risposte) sulla poesia italiana contemporanea: "È possibile delineare una sorta di linea poetica 'leopardiana' in Italia che vada oltre Michelstaedter e Pavese", di cui scrive Salari stesso, "e oltre Montale?" E ancora: "Esiste oggi una poesia che - rifuggendo dal nichilismo, intimismo e minimalismo dilaganti - abbia in sé una tensione etica, tale da porsi nel solco de LA GINESTRA?".


IL SENSO DEL TRAGICO

Va sottolineato il rapporto tra Hölderlin e il giovane recanatese: tra i due grandi poeti, vi era al contempo vicinanza e distanza, infatti, Leopardi diceva che ogni illusione era stata allontanata dal mondo, tanto che il vuoto, il nulla sono condizione del presente (è quella che Hölderlin chiama "la povertà del presente"), ma era ben lontano dal provare nostalgia per il "tempo degli dei" e dal sentire la possibilità di un ritorno al tempo dell'armonia tra uomo e natura. Leopardi, prima di Nietzsche, sapeva che "dio è morto", che tutti gli dei sono morti: nessun nostos è possibile, la sacralità del mondo è perduta irrimediabilmente, tanto che l'eros è espunto dalla fusione panica con la Natura. Tuttavia vi è anche un legame tra i due, in quanto Hölderlin e Leopardi appartengono a quella che Tiziano Salari nel suo libro propone di definire "poesia pensante" invece che "pensiero poetante". E si noti che l'espressione era di Antonio Prete, relativa alle sue analisi acute sullo ZIBALDONE, ma essa crea secondo Salari un'ambigua commistione tra i due termini, sino a rischiare di presentare l'opera di Leopardi come "un ibrido" e annullarne la peculiarità.

Leopardi "non ha affatto bisogno del suo filosofo di elezione, in quanto il suo "canto" contiene già il suo "controcanto" filosofico", dice Salari, da ciò possiamo concludere che è possibile parlare di una "poesia pensante" che in Italia viene da Leopardi.

In SOTTO IL VULCANO Salari svolge un intenso colloquio interiore con Leopardi attraverso LA GINESTRA: il recanatese, davanti al Vesuvio, scrisse un vero "testamento estetico ed etico", in cui si rivela la particolare natura del suo pensiero e della sua poesia. Ne LA GINESTRA emerge il tema del deserto, svelando la sfiducia leopardiana nel progresso, con il conseguente rifiuto di ogni ideologia dominate a suo tempo, da cui consegue la critica all'antropocentrismo e la visione che attraversa quest'opera è simile - a mio parere - a quella della WASTE LAND di Eliot, in quanto il deserto rompe gli schemi temporale della modernità per diventare la forma pietrifica ed eterna dell'esistenza stessa, emblema della condizione ontologica dell'uomo.

L'attualità di Leopardi, dunque, è nella sua assoluta classicità: il recanatese fa proprio il senso del tragico che fu di Empedocle, dei tragici greci, di Petrarca e Shakespeare e che ritroviamo nelle opere di altri grandi poeti, artisti e filosofi di tutti i tempi, tra cui anche Rilke, Michelstaedter e Pavese.

Tale senso del tragico si fonda su un pessimismo che scaturisce però dalla consapevolezza dell'insuperabilità del male e dell'ineluttabilità del destino di dolore dei vivente, ma non cade mai in esiti "remissivi", in quanto non approda al nichilismo. Se per tutti i viventi il destino è di dolore e infelicità; se tutti sono parte della Natura - e lo sono persino LA GINESTRA e il vulcano - che cosa spetta al poeta, si chiede Leopardi? L'utopia etica che compare nella GINESTRA si fonda sull'ipotesi di una necessaria umiltà dell'Io, da cui trae origine un atteggiamento che coincide con la saggezza antica degli Stoici e dei tragici greci, sentimento di fratellanza nella debolezza, di cui il poeta di Recanati è portavoce.

Come LA GINESTRA è contenta dei deserti, tanto che la sua presenza è per tutti consolazione, possiamo dire che l'uomo (il poeta, soprattutto!) che accetta il destino e depotenzia il proprio narcisismo può "comunicare" agli altri l sua consapevolezza e, attraverso la poesia, realizzare una sorta di "resistenza solidale" tra gli umani.

Com'è possibile attuare l'umiltà dell'Io che annulli la "volontà di potenza" e come ciò incide sul ruolo del poeta e sul fare poesia? L'esistenza umana si dà come insanabile tensione tra desiderio e fine dello stesso, tra volontà dell'Io e accettazione del destino, tra spinta vitale e oblio dell'Io: proprio in questa tensione mai conclusa ha origine la poesia che, proprio per questo [3], è conoscenza liminare, parola che nasce "sul confine", dove si sospende il sapere noto e gli opposti (Io e mondo, interiorità e realtà esterna) si fronteggiano, si intrecciano e si contaminano. All'inizio poesia e filosofia erano un'unica cosa, annota Zambrano [4], e solo in seguito si sono separate, scindendo l'unità del rapporto tra uomo e mondo, tra sentire e pensare. Ma a quell'unità si può tornare.


L'UMILTÀ DELL'IO: LA POESIA

Salari nota che, pur con diverse vie, tutti i grandi i poeti superano la logica aristotelica del tertium non datur e vanno oltre il Logos (univoco e legislativo), così che "la Krisis dei fondamenti (diviene) apertura alla molteplicità attinta attraverso la riduzione o l'estinzione del principium individuationis dell'io", il che apre la strada alla comprensione dell'essere. È dunque l'umiltà dell'Io - la riduzione delle pretese interpretative e giudicanti del Logos sul mondo - che è limitazione della volontà di potenza che dà una conoscenza più profonda e la poesia nasce da questo. Ricordiamo Franco Rella che, citando la tesi di Marina Cvetaeva afferma che secondo la poetessa Rilke disegna con la sua opera "uno spazio che non è né vita, né morte, ma una terza nuova cosa": il culmine poetico raggiunto con le ELEGIE DUINESI e i SONETTI A ORFEO è stato possibile infatti solo dopo la "scoperta", nel MALTE, della precarietà del mondo. La poesia, la grande poesia, dunque, nasce a mio avviso dalla consapevolezza del limite umano, dall'accettazione del nostro essere fragili e caduchi. Ma nell'esperienza odierna l'oggetto dell'oblio è proprio la fragilità dell'umano: la morte, la malattia, la vecchiaia, ogni elemento che dica il nostro essere carnali e morituri è "espulso" dalla cultura, rimosso: la crisi dell'età contemporanea è la tracotanza che segna la cultura contemporanea e la lingua stessa, come direbbe Cristina Campo, tanto che regna l'hybris, con la sua potenza distruttiva la lingua stessa si snatura in chiacchiera e volgarità. Se la lingua è incapace di dire la profonda essenza del nostro essere umani - il nostro essere corpo tra altri corpi, diviene anche incapace di dire la realtà, le cose che ci circondano e il nostro rapporto con esse. Partendo dalla crisi del linguaggio ci si può avvicinare al pensiero della filosofa Maria Zambrano, che, in CHIARI DEL BOSCO [5], invita a sospendere la "funesta domanda che crediamo costitutiva dell'essere", abbandonandosi ai "chiari del bosco", dove forse può avvenire "un evento non cercato". È nel punto dove "non si dice e non si nasconde, ma dove solo si accenna" che - secondo la filosofa spagnola - può mostrarsi una conoscenza non dicotomica, ma unitaria eppure mobile, prossima alla complessa unità che è la vita stessa. Una conoscenza prossima, dunque, alla sapienza degli oracoli antichi? Vicina all'illuminazione di Rimbaud? No, non credo che oggi sia questa la via da seguire in poesia. Limitando la presunzione dell'Ego, il poeta si apre al mondo e alle cose e le coglie nella loro nuda presenza: nessuna "rivelazione", quindi, ma semplice esposizione del poeta al mondo. Zambrano in FILOSOFIA E POESIA definisce la poesia "pratica erotica del mondo": un sentire nel proprio corpo l'essere corpo del mondo stesso, il che ci riporta a Merleau-Ponty. In Leopardi tra pensiero ed esperienza c'è la potenza del corpo: il desiderio. Infatti, nella sua analisi dell'INFINITO [6], Antonio Prete vede che in Leopardi l'origine di uno "sguardo" che superi il limite del finito e il suo scacco conoscitivo sta nel desiderio, dove si radica l'esperienza simbolica e la forza immaginativa, avvicinandoci al piacere.


VERSO UN REALISMO INTENSIVO?

Mi soffermo sui due capitoli finali di SOTTO IL VULCANO, ricchi di spunti per la mia riflessione sulla poesia contemporanea, dedicati l'uno a Carlo Micheltstaedter e l'altro a Cesare Pavese. Il giovane poeta goriziano approda alla tragica consapevolezza che l'esistenza è dolore, non appartenenza e, dunque, mancanza di vita: solo chi ha accolto in sé il dolore e la morte non si dibatte, non perde se stesso, ma avverte una profonda comunanza con tutte le cose e sceglie, dunque, il suicidio come "verità di vita". La persuasione (la scelta di poter morire) per Micheltstaedter è vera vita, atto di libertà, vittoria sulle lusinghe e falsità della vita con le sue ideologie e i falsi miti della rettorica. La nota dominante dell'opera di Pavese, secondo Salari, è l'ansia, ma a me interessa mettere in luce come sia importante il "platonismo" di Pavese che, a partire da IL MESTIERE DI VIVERE, fa sì che il grande scrittore piemontese dica che conoscere è riconoscere: si conosce solo ciò che è parte della vita, per cui sono inscindibili vita e arte, poesia e pensiero. E questo emerge anche nel senso che Pavese diede ai simboli, intesi come intensificazione del vissuto in cui si svela la potenziale valenza universale di ogni esperienza individuale, allorché il dato concreto si fa simbolo e mito, acquisendo una forza insieme ontologica e gnoseologica.

La consapevolezza del "tragico vero" - che Leopardi aveva colto già nel 1824 - è di fatto divenuta patrimonio comune della cultura nel Novecento, soprattutto con l'esistenzialismo e il conseguente nichilismo che ha segnato (e segna ancora!) la cultura e la poesia italiana. Frutto di un impasto strano di ideologia e senso di impotenza, di cinismo e narcisismo che ha visto accomunati i più diversi pensatori, il nichilismo si è diffuso, generando un atteggiamento che, di fatto, è stato connotato dalla negazione della possibilità che arte e poesia avessero "diritto di parola", il che ha finito per essere - e lo dico con la lucida espressione di Franco Romanò - "un'apologia dell'esistente" [7], che ha determinato una "chiusura" di sguardo della cultura e il ripiegamento intimista di molta poesia su se stessa.

Che fare? Se la poesia è "educazione all'intensità", come afferma Giancarlo Majorino (e come credo anch'io!), solo un'attenta rilettura di Leopardi permetterà di lasciarci alle spalle le secche del nichilismo e dell'intimismo.

Occorre una poesia che colga il complesso rapporto tra Io e mondo, il legame tra esperienza del presente e memoria, tra visione e riflessione, mostrando ciò che nella vicenda individuale è universalmente condivisibile. Poesia di quello che ho chiamato da tempo realismo intensivo e che, secondo me, ha in Leopardi come in Dante grandi maestri, ma non solo. Anche altri poeti del passato ci chiamano a una poesia "di pensiero e sensi", e penso alle tesi di T.S. Eliot. Per andare oltre il Novecento forse… occorre tornare indietro…


NOTE

L'autrice avverte che questo scritto segue un altro (pubblicato in "La Clessidra", 1, 2007), più ampio e diverso, ma di argomento simile.

[1] G. Fantato, QUALI POETI, QUALI POETICHE OGGI? IN ATTI DEL CONVEGNO - POESIA: IL FUTURO CERCA IL FUTURO (FIRENZE, 4/5-3-2005), Firenze, Quaderni della Fondazione Il Fiore, Lieto Colle, 2006, p. 156.
[2] T. Salari, SOTTO IL VULCANO, Soveria Mannelli (CZ), Rubettino, 2005. Si precisa che tutte le pagine indicate nel saggio, se non riportata diversa indicazione, si riferiscono a questo libro.
[3] Come ho già sostenuto in vari editoriali della rivista "La Mosca di Milano".
[4] M. Zambrano, FILOSOFIA E POESIA, a cura di P. de Luca, Bologna, Pendragon, 1996.
[5] M. Zambrano, CHIARI DEL BOSCO, Milano, Mondadori, 2004, p. 36 sgg.
[6] A. Prete, IL PENSIERO POETANTE, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 53.
[7] F. Romanò, nel saggio REALTÀ VERO SOGNO. NOTE SULLA POESIA DI GUIDO OLDANI, "La Clessidra", 2, 2006, p 67 sgg.