[Perspectives (St Vincent's Private Hospital, Dublin, 2019). Foto Rb]
Per uno studente di Italianistica
dell’Università di Bologna il nome di Ezio Raimondi risuona come un’eco tra le
aule e corre veloce sotto i portici, un filo d’Arianna che conduce ai luoghi
del sapere. A poche settimane dal novantacinquesimo anniversario della sua
nascita una rilettura dell’eredità umana e culturale del Professore dai modi
delicati appare omaggio doveroso di chi si è formato all’ombra del maestro.
Ritenuto da Francesco Muzzioli il più
interessante critico di confine italiano[1],
Ezio Raimondi ha saputo divellere il conservatorismo dei metodi critici
novecenteschi che declamavano con una certa presunzione la scoperta di un
approccio ultimo per la decodifica del testo, opponendovi invece una lettura
che nella sua eleganza riusciva a inglobare prospettive opposte mostrando che “tout
se tient” dinanzi a un oggetto mai banale come l’opera letteraria. La ricchezza
del metodo critico di Raimondi, figlia della complessa formazione mai rilegata
a una dimensione nazionale ma espansa ai grandi nomi della letteratura
mondiale, gli permise riletture inaspettate di questioni da tempo consolidate.
Ne è data prova fin dall’ingegnoso Rinascimento
inquieto (1965), con il quale Raimondi capovolge, arricchendola, la
canonicità armonica e lussureggiante dell’età delle humanae litterae introducendovi il sentore strisciante di
un’inquietudine di fondo, tratto oscuro che affiorerà con costanza in tutta la
riflessione critica raimondiana.
Lo stato “inquieto et fosco” di Raimondi,
replica moderna dei lamenti del Petrarca, trova il suo motivo d’origine nella
constatazione che l’interpretazione del testo non potrà mai essere rassicurante
poiché conseguendola verrà scardinato un confine immaginario che obbliga a
ridiscutere perennemente la parola evocata. Tuttavia, il sospiro inquieto del
critico – uno dei più affettuosi tributi a Raimondi è intitolato proprio Ezio Raimondi. Lettore inquieto (2016) –
non è mai stato superficiale e, diluito con il fervore del filologo e dello
storico, ha posto Raimondi in una reverenziale disposizione nei confronti del
testo che veniva così coscientemente indagato. La vitalità della lettura
trovava doppia manifestazione nello stile sofisticato di una prosa finemente
articolata in digressioni, passaggi laterali e volgimenti conturbanti e
nell’eleganza argomentativa, vera ekphrasis
dialogica, tanto decantata dai suoi molti studenti. Un’umana e gentile
professionalità in cui la cinica e tecnica freddezza di tanti critici suoi
contemporanei non trovava affatto ricetto.
La costanza del citazionismo di Raimondi,
sospinta fino a un automatismo evocativo, non si è mai posta come improduttiva
pratica retorica bensì come testimonianza speculativa del tortuoso procedere
del discorso critico in un ammassamento di riferimenti e allusioni nascoste. Nella
solitudine dell’ascolto – “ho sempre concepito l’intellettuale come un
individuo solitario” confidava Raimondi agli allievi Alberto Bertoni e Giorgio Zanetti[2]
– rivolgeva l’orecchio al testo e ne formalizza i sussurri appena udibili.
La voce di Raimondi riaffiorava così da
un’immersione nelle voci dei libri che vibravano in un’ideale biblioteca,
totalità plurale e non chiusa in sé stessa, ma vitale e animata dal respiro
delle carte che custodiva. In Le voci dei
libri (2012) il paternalistico Raimondi svela la profondità sonora del
testo nella cui lettura echeggiano le voci del passato che, se accondiscese con
piglio risoluto, concorrono a definire gli accenti del futuro. Con metafore
libresche Raimondi non ha fatto altro che rivelare le condizioni per il
convergere di voci dissonanti verso una possibilità di formazione piena
dell’identità dell’uomo che avviene nell’incontro, nel dialogo, nello scambio
continuo di esperienze.
Luogo prediletto di formazione rimase sempre
la biblioteca, che oggi, dedicata alla sua memoria, continua ad assecondare gli
stimoli di ricerca degli studenti della sede bolognese del Dipartimento di
Filologia Classica e Italianistica.
L’archetipo raimondiano della biblioteca
asservita al sapere era privo di ordine rigoroso ma lasciato germogliare in un
caos benefico che costringeva il lettore ad avventurarsi nella “logosfera” –
come amava definire Raimondi le scaffalature ricolme di tomi – per passare in
rassegna gli elementi conservati e, nella ripetizione dell’incontro,
arricchirli con esperienze di lettura sedimentate nel profondo. Un’universale
selva tassiana – l’edizione critica dei Dialoghi
del Tasso è probabilmente l’esito migliore del lavoro filologico di Raimondi –
collocata in un luogo preciso.
La localizzazione spazio-temporale non era per
Raimondi un accessorio di corredo in sede interpretativa. Al contrario, la
parola ha sempre avuto una dimora storico-geografica dalla quale dover partire
per irradiarsi verso esiti riflessivi coerenti. Una regola ermeneutica che
Raimondi seppe applicare anche alla vita accademica che da Bologna lo portò, in
qualità di visiting professor, nei
più noti cenacoli universitari d’Europa e d’America. Esportò il pensiero manzoniano
a Los Angeles (avverso a una visione provvidenzialistica dei Promessi Sposi, in Il romanzo senza idillio del 1974 Raimondi mostra come l’opera di
Manzoni sia un disincantato organismo fatto di rapporti di forza e v’introduce
inedite riflessioni sull’uso linguistico del lombardo) e a Baltimora negli
amichevoli incontri con Singleton riconobbe tra i primi l’ipotesto biblico
della Commedia dantesca. In seguito,
lo spostamento fisico diverrà addirittura replica del viaggio della parola, del
dialogo interminabile che lega opere, autori e lettori.
L’occhio attento del professore troverà la formula teorica di quest’evidenza linguistica nella “dialogicità letteraria” del Bachtin di Estetica e Romanzo (1975) che Raimondi riuscirà a introdurre negli studi della critica letteraria italiana, dimostrando come l’interrogazione testuale implichi una formalizzazione del già detto rispetto al quale l’opera è una continuazione in divenire. Una configurazione comunicativa oggi non così astrusa per merito di mediatori come Raimondi che hanno saputo esemplificarla ricorrendo a compilazioni esaustive e accessibili che nulla hanno deformato dell’originale scenario teorico. La capacità di desacralizzare l’aura ultimativa e assoluta dei grandi pensatori novecenteschi, da Heidegger a Curtius, e di collocarli in formule funzionali e comprensibili anche ai profani della critica testuale è un merito affatto secondario del Raimondi esegeta[3].
L’occhio attento del professore troverà la formula teorica di quest’evidenza linguistica nella “dialogicità letteraria” del Bachtin di Estetica e Romanzo (1975) che Raimondi riuscirà a introdurre negli studi della critica letteraria italiana, dimostrando come l’interrogazione testuale implichi una formalizzazione del già detto rispetto al quale l’opera è una continuazione in divenire. Una configurazione comunicativa oggi non così astrusa per merito di mediatori come Raimondi che hanno saputo esemplificarla ricorrendo a compilazioni esaustive e accessibili che nulla hanno deformato dell’originale scenario teorico. La capacità di desacralizzare l’aura ultimativa e assoluta dei grandi pensatori novecenteschi, da Heidegger a Curtius, e di collocarli in formule funzionali e comprensibili anche ai profani della critica testuale è un merito affatto secondario del Raimondi esegeta[3].
Nell’orizzonte vitale dal dialogo tra le
opere, Raimondi rintraccia persino la valenza etica della letteratura,
palesatasi nell’atto di convergenza del giudizio estetico e del valore morale
che il lettore scopre combinati dopo essersi calato nelle pieghe silenziose del
testo e aver constatato l’incompletezza di un’interpretazione meramente
letterale. Inoltre, Raimondi insegnava che non vi era vergogna nel mancato
apprezzamento di un’opera se in dissonanza con il gusto del lettore: è
inverosimile la piena condivisione dei punti di vista di un autore, ma è bene
che la totalità degli stessi venga vagliata giudiziosamente per discernere
quanto di profondo e autentico la voce dello scrittore ha saputo delineare.
Rilevandolo, al lettore acuto sarà concesso di sperimentare in prima persona la
polifonia della cultura, oggi semplicisticamente catalogata come “intertestualità”
ma che Raimondi intendeva invece come istintivo legame esplorativo non ridotto
a innesti osmotici tra testi ma qualificata come processo di trasformazione
tangibile dell’habitus del ricevente
che partecipa alla trasmissione letteraria.
Un corollario più tecnico di questa
constatazione Raimondi l’espose con chiarezza nel saggio “L’interpretazione
come esperimento” (Il senso della
letteratura, 2008) dove è riscontrata l’inevitabile imperfezione e
parzialità dell’interpretazione letteraria che, in virtù dell’inespresso, corre
il rischio di essere incompleta o contraddittoria. Pertanto, la letteratura si
rivela attraverso quella che, rielaborando Wittgenstein e Schlegel, Raimondi
classificava come ermeneutica del segreto umano fatto di non-detto e
d’indicibile. Era proprio l’ineffabilità che per Raimondi costituiva lo sfondo
di possibilità dell’esercizio critico: lo studio della letteratura si
giustificava esattamente per dare voce a ciò che voce non aveva e che restando
ai margini veniva continuamente osteggiato.
Il discrimine tra il grande critico e il
millantatore delle parole risiede proprio nella riuscita di questo meccanismo
rivelatorio e Raimondi, come pochi altri, ha saputo svelare il suono nascosto
delle parole autoriali musicando dialoghi testuali prima di lui rivolti ad
ascoltatori sordi.
[1] F. Muzzioli, Le teorie della critica letteraria, Roma, Carocci, 2012, p. 201.
[2] Cfr. E. Raimondi, Camminare nel tempo, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 205.
[3] Cfr. E. Raimondi, Le metamorfosi della parola: da Dante a Montale, Milano,
Mondadori,
2004, pp. 246.