01/04/19

Roberto Bugliani, IL GRASSONE


In questo nostro mondo sempre più globalizzato anche l'obesità è divenuta globesità, come attesta il neologismo coniato dall'Organizzazione mondiale della sanità per indicare "la grande epidemia del XXI secolo".



Alfio era grasso. Grassissimo. Un obeso coi fiocchi. E aveva tre nemici mortali: Trigliceridi, Colesterolo, Iperinsulinemia, i quali facevano comunella nella Sindrome Metabolica. Oppresso da un dispotico senso di fame che flagellava a tutte le ore il suo nucleo laterale ipotalamico, Alfio era d'una voracità smisurata come il suo giro vita. Così che il povero nucleo ventromediale dell'ipotalamo, adibito a provocare la sazietà, non riusciva a inviare al centro dell'appetito i suoi impulsi inibenti, che restavano lettera morta, meno considerati del due di picche quando in tavola c'è briscola di denari da quei giocatori incalliti che erano gli adipociti e le catecolamine.

Quando Alfio, ossia quella quintalata di lardo, come lo apostrofavano gli amici che poi tanto amici non erano, giungeva al termine della sua giornata inattiva e andava a coricarsi, provocando un frastuono di cigolii di molle e di scricchiolii di doghe pari solo alla veemenza d'un ciclone caraibico, i suoi sogni s'impigliavano regolarmente nelle maglie raccapriccianti dell'incubo.

 Gli incubi che assediavano le notti madide di sudore e d'ambascia d'Alfio erano la diretta conseguenza d'un metabolismo sballato che per inviare alla corteccia cerebrale il suo messaggio allarmato prendeva la scorciatoia allegorica dell'immaginario. Nei suoi sogni allucinanti in cui non esisteva un prima né un dopo e da cui spesso si risvegliava gridando in piena notte con le dita delle mani a uncino ad artigliare l'aria, Alfio si ritrovava continuamente a dover fuggire, inseguito da mostri famelici con le lingue di serpente e il muso di coccodrillo che lo incalzavano lungo costoni di rocce taglienti come rasoi a strapiombo su un mare cupo e ringhioso, mentre i piedi regolarmente nudi subivano martìri inenarrabili nel tentativo di mantenere in equilibrio dinamico il corpo oltraggiato dalla pinguedine. Quei mostri sanguinari erano tre, che la scienza medica così definiva: Ipertensione, Diabete mellito, Coronaropatia, ma che per lui avevano un unico nome, quello dell'Inferno.



C'era tuttavia un sogno che per la sua serenità si differenziava nettamente dagli altri, un sogno che concedeva ad Alfio momenti di tregua dalla sua fuga infinita e che al risveglio non lo lasciava tremante e spossato in ogni sua fibra. Era un sogno parallelo, per così dire, una sorta di storia stramba e inafferrabile, in progress la definirebbero i narratologi, che per scenario aveva il verde smeraldo della foresta africana.



Alfio si vedeva camminare in compagnia d'un ragazzo dalla pelle color ebano, più sottile d'una acciuga e più leggero d'una foglia, lungo uno stretto sentiero che zigzagava con indolenza nel lussureggiante tappeto vegetale della selva. Ora, se quella d'Alfio si poteva a buona ragione definire obesità primaria, il suo silenzioso accompagnatore era invece affetto da magrezza atavica, che s'era incistata nel suo metabolismo attraverso gli stenti d'innumerevoli generazioni.

Nel sogno Alfio infilava i suoi passi pachidermici dietro quelli del ragazzo magro, ma non aveva la più pallida idea di dove la sua guida lo conducesse. Le volte che glielo domandava il pelle-e-ossa allungava il braccio scheletrico e con la mano accennava a un punto impreciso oltre la cortina impenetrabile degli alberi. Laggiù, diceva quello, al di là c'è... ma la curiosità d'Alfio restava immancabilmente senza risposta, perché il ragazzo andava in dissolvenza, il paesaggio s'anneriva come un fotogramma bruciato e lui si risvegliava di colpo, stupefatto, gli occhi impiantati nel buio. Insomma, proprio nel momento in cui l'enigma era sul punto di disvelarsi, il sogno lo lasciava bellamente a bocca asciutta: lo sguardo non riusciva ad aprirsi un varco nella verde barriera che lo fronteggiava, né l'accompagnatore riusciva a mostrargli, al di là di quella, la meta.

All'inizio, il ragazzo magro evitava d'entrare nei sonni che aggredivano Alfio a ore inconsuete, quando tutto il mondo era al lavoro e lui invece s'abbiosciava su poltrone e divani come afflitto da perenne catalessi. Ma la cosa non durò a lungo. In un giorno uguale ai tanti altri del calvario d'Alfio su questa terra, di soppiatto la sua giovane guida s'introdusse nello scenario lattescente dell'abbiocco postprandiale dell'uomo colorandolo di verde, il verde selvaggio e rigoglioso della selva, e in sonno lui fu costretto a seguire il ragazzo magro nella foresta profonda, affrontando l'intrico di rami spioventi, liane, bambù e felci arboree dietro il quale si poteva celare ogni sorta di pericolo che la foresta destinava all'incauto viandante.

Imporre al corpo un'andatura spedita era per Alfio un'impresa ciclopica che gli richiedeva uno sforzo possente e prolungato, ma se nella realtà tale stress fisico era causa di dolorose prostrazioni, nelle pieghe oniriche della sua avventura africana lui non si sentiva minimamente impedito nei movimenti, come se la foresta palpitante d'umori o la presenza rassicurante del ragazzo gli conferissero un vigore fino ad allora sconosciuto.



Un grande spiazzo circolare s'era aperto dinanzi a loro. Al suo centro troneggiava un enorme albero di cola circondato da una manciata di capanne putride come il fiume che scorreva lì nei pressi, mentre un gruppo di bambini dalle pance gonfie di parassiti inseguiva strillando un'iguana verde screziata di giallo.

Alfio s'era arrestato davanti alla spianata polverosa battuta dai raggi del sole che arroventavano i tetti di zinco delle capanne, e ai riflessi accecanti delle lamiere sbatté più volte le palpebre. Quando s'abituò alla crudezza di quella luce libera, Alfio s'accorse che la sua guida non era più accanto a lui. Strizzando di nuovo gli occhi verso la profondità senza prospettiva del villaggio, scorse il ragazzo magro unirsi all'allegria dei suoi coetanei e partecipare all'animata gazzarra per la scomparsa dell'iguana infrattatasi tra le felci e gli arbusti che contornavano la radura.



Adesso il ragazzo magro era ritornato da Alfio e gli mormorava parole incomprensibili. Dalla bocca usciva una litania cadenzata sul tono di sofferenze e privazioni che circumnavigò il corpo sproporzionato d'Alfio prima di scivolare lontano recata da un'aria umida e calda, densa d'aromi tropicali, che segnalava l'arrivo della pioggia. Facendosi largo tra il fitto fogliame della foresta, il vento piegò i ciuffi d'erba a sfiorare le caviglie d'Alfio, sbisciò tra le gambe del ragazzo magro, cinse con il suo abbraccio il perimetro delle capanne e razzolò vivace sullo spiazzo prima di mescolarsi agli scrosci di pioggia che presero a infradiciare gli abiti d'Alfio.



Dalla riva il ragazzo magro lo salutava con la mano. Il viso scolpito in una smorfia di stupore, Alfio lo guardava allontanarsi, ma in realtà era lui che s'allontanava a poco a poco dal ragazzo. Preoccupato, Alfio sguinzagliò lo sguardo intorno a sé: la canoa ondeggiava minacciosa sotto il peso tirannico del suo corpo, e il ragazzo seguitava a sventolare la mano ossuta come un fazzoletto.

Sospinta dalla corrente, la canoa solcava l'acqua rugginosa. Alfio si guardò le mani vuote, quindi perlustrò con gli occhi il fondo della canoa, ma non vide alcuna pagaia. Sulla riva il ragazzo era ormai un'ombra esile e tremolante avvolta dalla calura, mentre lui ispezionava con angoscia crescente la distesa increspata del fiume su cui guizzavano scaglie di luce argentata.



Allo sbando come quel continente fottuto, la canoa veniva trascinata da una forza ostile verso il fragore ovattato della cascata che s'udiva in lontananza, coperto a tratti dal grido dolente d'un tucano. Ma il fottuto a quel punto era lui, lui che traballava sempre più pericolosamente nel suo sogno a occhi aperti.