In questo nostro mondo sempre
più globalizzato anche l'obesità è divenuta globesità,
come attesta il neologismo coniato dall'Organizzazione mondiale della sanità
per indicare "la grande epidemia del XXI secolo".
Alfio era grasso. Grassissimo.
Un obeso coi fiocchi. E aveva tre nemici mortali: Trigliceridi, Colesterolo,
Iperinsulinemia, i quali facevano comunella nella Sindrome Metabolica. Oppresso
da un dispotico senso di fame che flagellava a tutte le ore il suo nucleo
laterale ipotalamico, Alfio era d'una voracità smisurata come il suo giro vita.
Così che il povero nucleo ventromediale dell'ipotalamo, adibito a provocare la
sazietà, non riusciva a inviare al centro dell'appetito i suoi impulsi
inibenti, che restavano lettera morta, meno considerati del due di picche
quando in tavola c'è briscola di denari da quei giocatori incalliti che erano
gli adipociti e le catecolamine.
Quando Alfio, ossia quella
quintalata di lardo, come lo apostrofavano gli amici che poi tanto amici non
erano, giungeva al termine della sua giornata inattiva e andava a coricarsi,
provocando un frastuono di cigolii di molle e di scricchiolii di doghe pari
solo alla veemenza d'un ciclone caraibico, i suoi sogni s'impigliavano
regolarmente nelle maglie raccapriccianti dell'incubo.
Gli incubi che assediavano le notti madide di
sudore e d'ambascia d'Alfio erano la diretta conseguenza d'un metabolismo
sballato che per inviare alla corteccia cerebrale il suo messaggio allarmato
prendeva la scorciatoia allegorica dell'immaginario. Nei suoi sogni allucinanti
in cui non esisteva un prima né un dopo e da cui spesso si risvegliava gridando
in piena notte con le dita delle mani a uncino ad artigliare l'aria, Alfio si
ritrovava continuamente a dover fuggire, inseguito da mostri famelici con le
lingue di serpente e il muso di coccodrillo che lo incalzavano lungo costoni di
rocce taglienti come rasoi a strapiombo su un mare cupo e ringhioso, mentre i
piedi regolarmente nudi subivano martìri inenarrabili nel tentativo di
mantenere in equilibrio dinamico il corpo oltraggiato dalla pinguedine. Quei
mostri sanguinari erano tre, che la scienza medica così definiva: Ipertensione,
Diabete mellito, Coronaropatia, ma che per lui avevano un unico nome, quello
dell'Inferno.
C'era tuttavia un sogno che
per la sua serenità si differenziava nettamente dagli altri, un sogno che
concedeva ad Alfio momenti di tregua dalla sua fuga infinita e che al risveglio
non lo lasciava tremante e spossato in ogni sua fibra. Era un sogno parallelo,
per così dire, una sorta di storia stramba e inafferrabile, in progress
la definirebbero i narratologi, che per scenario aveva il verde smeraldo della
foresta africana.
Alfio si vedeva camminare in
compagnia d'un ragazzo dalla pelle color ebano, più sottile d'una acciuga e più
leggero d'una foglia, lungo uno stretto sentiero che zigzagava con indolenza
nel lussureggiante tappeto vegetale della selva. Ora, se quella d'Alfio si
poteva a buona ragione definire obesità primaria, il suo silenzioso accompagnatore
era invece affetto da magrezza atavica, che s'era incistata nel suo metabolismo
attraverso gli stenti d'innumerevoli generazioni.
Nel sogno Alfio infilava i
suoi passi pachidermici dietro quelli del ragazzo magro, ma non aveva la più
pallida idea di dove la sua guida lo conducesse. Le volte che glielo domandava
il pelle-e-ossa allungava il braccio scheletrico e con la mano accennava a un
punto impreciso oltre la cortina impenetrabile degli alberi. Laggiù, diceva
quello, al di là c'è... ma la curiosità d'Alfio restava immancabilmente senza
risposta, perché il ragazzo andava in dissolvenza, il paesaggio s'anneriva come
un fotogramma bruciato e lui si risvegliava di colpo, stupefatto, gli occhi
impiantati nel buio. Insomma, proprio nel momento in cui l'enigma era sul punto
di disvelarsi, il sogno lo lasciava bellamente a bocca asciutta: lo sguardo non
riusciva ad aprirsi un varco nella verde barriera che lo fronteggiava, né
l'accompagnatore riusciva a mostrargli, al di là di quella, la meta.
All'inizio, il ragazzo magro
evitava d'entrare nei sonni che aggredivano Alfio a ore inconsuete, quando
tutto il mondo era al lavoro e lui invece s'abbiosciava su poltrone e divani
come afflitto da perenne catalessi. Ma la cosa non durò a lungo. In un giorno
uguale ai tanti altri del calvario d'Alfio su questa terra, di soppiatto la sua
giovane guida s'introdusse nello scenario lattescente dell'abbiocco postprandiale dell'uomo colorandolo di verde, il verde
selvaggio e rigoglioso della selva, e in sonno lui fu costretto a seguire il
ragazzo magro nella foresta profonda, affrontando l'intrico di rami spioventi,
liane, bambù e felci arboree dietro il quale si poteva celare ogni sorta di
pericolo che la foresta destinava all'incauto viandante.
Imporre al
corpo un'andatura spedita era per Alfio un'impresa ciclopica che gli richiedeva
uno sforzo possente e prolungato, ma se nella realtà tale stress fisico era
causa di dolorose prostrazioni, nelle pieghe oniriche della sua avventura
africana lui non si sentiva minimamente impedito nei movimenti, come se la
foresta palpitante d'umori o la presenza rassicurante del ragazzo gli
conferissero un vigore fino ad allora sconosciuto.
Un grande
spiazzo circolare s'era aperto dinanzi a loro. Al suo centro troneggiava un
enorme albero di cola circondato da una manciata di capanne putride come il
fiume che scorreva lì nei pressi, mentre un gruppo di bambini dalle pance
gonfie di parassiti inseguiva strillando un'iguana verde screziata di giallo.
Alfio s'era
arrestato davanti alla spianata polverosa battuta dai raggi del sole che
arroventavano i tetti di zinco delle capanne, e ai riflessi accecanti delle
lamiere sbatté più volte le palpebre. Quando s'abituò alla crudezza di quella
luce libera, Alfio s'accorse che la sua guida non era più accanto a lui.
Strizzando di nuovo gli occhi verso la profondità senza prospettiva del
villaggio, scorse il ragazzo magro unirsi all'allegria dei suoi coetanei e
partecipare all'animata gazzarra per la scomparsa dell'iguana infrattatasi tra
le felci e gli arbusti che contornavano la radura.
Adesso il ragazzo magro era
ritornato da Alfio e gli mormorava parole incomprensibili. Dalla bocca usciva
una litania cadenzata sul tono di sofferenze e privazioni che circumnavigò il
corpo sproporzionato d'Alfio prima di scivolare lontano recata da un'aria umida
e calda, densa d'aromi tropicali, che segnalava l'arrivo della pioggia.
Facendosi largo tra il fitto fogliame della foresta, il vento piegò i ciuffi
d'erba a sfiorare le caviglie d'Alfio, sbisciò tra le gambe del ragazzo magro,
cinse con il suo abbraccio il perimetro delle capanne e razzolò vivace sullo
spiazzo prima di mescolarsi agli scrosci di pioggia che presero a infradiciare
gli abiti d'Alfio.
Dalla riva il ragazzo magro lo
salutava con la mano. Il viso scolpito in una smorfia di stupore, Alfio lo
guardava allontanarsi, ma in realtà era lui che s'allontanava a poco a poco dal
ragazzo. Preoccupato, Alfio sguinzagliò lo sguardo intorno a sé: la canoa
ondeggiava minacciosa sotto il peso tirannico del suo corpo, e il ragazzo
seguitava a sventolare la mano ossuta come un fazzoletto.
Sospinta dalla corrente, la
canoa solcava l'acqua rugginosa. Alfio si guardò le mani vuote, quindi
perlustrò con gli occhi il fondo della canoa, ma non vide alcuna pagaia. Sulla
riva il ragazzo era ormai un'ombra esile e tremolante avvolta dalla calura,
mentre lui ispezionava con angoscia crescente la distesa increspata del fiume
su cui guizzavano scaglie di luce argentata.
Allo sbando
come quel continente fottuto, la canoa veniva trascinata da una forza ostile
verso il fragore ovattato della cascata che s'udiva in lontananza, coperto a
tratti dal grido dolente d'un tucano. Ma il fottuto a quel punto era lui, lui
che traballava sempre più pericolosamente nel suo sogno a occhi aperti.