09/11/18

Cristina Cona, MALEDETTE “VIRGOLETTE”


Nel suo spassoso ed istruttivo “Non se ne può più: Il libro dei tormentoni” [1] Stefano Bartezzaghi dedica alcune pagine all’uso sempre più spregiudicato che si tende a fare delle virgolette. «È evidente», scrive, «che le virgolette hanno preso (...) un significato che a volte corrisponde all’esatto contrario di quello tradizionale», e cita a mo’ di esempio i menu dei ristoranti. Quante volte, in effetti, ci è capitato di vederci offrire «il nostro “carpaccio di tonno”» oppure di leggere che il locale offre prodotti biologici «coltivati da “contadini” della nostra regione»? Se dovessimo interpretare questi messaggi alla luce delle regole grammaticali, che stabiliscono una casistica ben precisa per l’uso delle virgolette, dovremmo concludere, nel primo caso, che il tonno in realtà era il pesce rosso del proprietario, vivo e vegeto e pimpante fino a due giorni prima, ma ritrovato misteriosamente morto nella sua vaschetta quella mattina e di conseguenza riciclato alla bell’e meglio; nel secondo, che a coltivare i preziosi ortaggi non sono stati affatto contadini, bensì mafiosi al confino ai quali premeva trovare una copertura per i loro loschi affari. E invece, chiaramente (almeno speriamo!), in siffatti casi la funzione attribuita così maldestramente alle virgolette è quella che in buon italiano viene assolta dalla sottolineatura (o dal grassetto, o magari anche dal corsivo): enfatizzare una determinata caratteristica del prodotto o del produttore.

Stiamo poi attenti al momento di pagare il conto: su certi menu viene precisato che «non si accettano “assegni”». Be’, hanno anche ragione... (Va detto comunque che l’italiano non è l’unica lingua a massacrare in tal modo la logica e la grammatica: ci ha già pensato il francese. I menu d’Oltralpe sono zeppi di assurdità di questo genere, e devo ammettere che ogni volta che mi capita di leggerne una tendo per un attimo a dimenticare l’osservazione del bravo Bartezzaghi e ad interpretare letteralmente il messaggio. Così quando mi vedo proporre «notre “râble de lièvre”» la mia mente torna irresistibilmente agli immortali versi di Folgore: «Se potesse la lepre cucinata / lamentar la sua fine disgraziata / quest’oggi in trattoria dal piatto mio / salirebbe un leggero miagolio.»)

Qual è dunque (anzi: quale dovrebbe essere) il ruolo delle virgolette? Servono ad esprimere un discorso diretto, a delimitare una parola, italiana o straniera, non (ancora) entrata nell’uso, od un nomignolo («Ilona Staller, soprannominata “Cicciolina”»), oppure a mettere in rilievo l’accezione insolita o strana conferita ad un termine. Dardano e Trifone [2] citano come esempio la frase «il valore “politico” dell’opera d’arte», che potrebbe interpretarsi come «il valore che, forzando un po’ il significato, potremmo definire “politico” dell’opera d’arte». Servono poi, e qui torniamo al significato tradizionale cui allude Bartezzaghi, a far assumere la connotazione di “cosiddetto” o “sedicente”, se non addirittura truffaldino («il “miliardario americano” è stato arrestato qualche ora dopo dai carabinieri»).

Per quest’ultimo motivo non può non destare perplessità l’usanza (nata non si sa bene come, dove e perché) consistente nell’infiorare di virgolette i necrologi e i manifesti funerari, quali vengono affissi nei piccoli comuni, là dove si intende mettere in risalto una particolare attività o benemerenza e si ottiene invece, senza volerlo, il risultato di offendere sanguinosamente la memoria del defunto. Tizio, “capostazione FFSS”; Caio, “donatore di sangue”; Sempronio, “ex maestro di sci”: quale messaggio si intende comunicare? Dobbiamo escludere un uso improprio delle virgolette e intendere che Tizio fingeva di essere capostazione ma che in realtà frequentava quella stazioncina di frontiera per trafficare clandestini? Che Caio raccontava alla moglie di andare in ospedale a donare sangue mentre in realtà le sue visite celavano un’appassionata relazione con una vezzosa infermiera? Che Sempronio, quando si trovava al bar, raccontava di essere maestro di sci per rendersi interessante agli occhi delle turiste straniere, ma non sapeva fare un semplice spazzaneve neanche a pagarlo un milione? In tal caso, vien fatto di dire, ci troveremmo di fronte ad un modo perlomeno singolare di ricordare i poveri “morti”.


NOTE

[1] Stefano Bartezzaghi, Non se ne può più: il libro dei tormentoni, Milano, Mondadori, 2010.

[2] Maurizio Dardano e Pietro Trifone, La lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 1985.



Questo articolo è apparso per la prima volta il 19 dicembre 2011 sul sito http://comunicarepensieri.blogspot.com.