Nel
suo spassoso ed istruttivo “Non se ne può più: Il libro dei tormentoni” [1]
Stefano Bartezzaghi dedica alcune pagine all’uso sempre più spregiudicato che
si tende a fare delle virgolette. «È evidente», scrive, «che le virgolette
hanno preso (...) un significato che a volte corrisponde all’esatto contrario
di quello tradizionale», e cita a mo’ di esempio i menu dei ristoranti. Quante
volte, in effetti, ci è capitato di vederci offrire «il nostro “carpaccio di
tonno”» oppure di leggere che il locale offre prodotti biologici «coltivati da
“contadini” della nostra regione»? Se dovessimo interpretare questi messaggi
alla luce delle regole grammaticali, che stabiliscono una casistica ben precisa
per l’uso delle virgolette, dovremmo concludere, nel primo caso, che il tonno
in realtà era il pesce rosso del proprietario, vivo e vegeto e pimpante fino a
due giorni prima, ma ritrovato misteriosamente morto nella sua vaschetta quella
mattina e di conseguenza riciclato alla bell’e meglio; nel secondo, che a
coltivare i preziosi ortaggi non sono stati affatto contadini, bensì mafiosi al
confino ai quali premeva trovare una copertura per i loro loschi affari. E
invece, chiaramente (almeno speriamo!), in siffatti casi la funzione attribuita
così maldestramente alle virgolette è quella che in buon italiano viene assolta
dalla sottolineatura (o dal grassetto, o magari anche dal corsivo): enfatizzare
una determinata caratteristica del prodotto o del produttore.
Stiamo
poi attenti al momento di pagare il conto: su certi menu viene precisato che
«non si accettano “assegni”». Be’, hanno anche ragione... (Va detto comunque
che l’italiano non è l’unica lingua a massacrare in tal modo la logica e la
grammatica: ci ha già pensato il francese. I menu d’Oltralpe sono zeppi di
assurdità di questo genere, e devo ammettere che ogni volta che mi capita di
leggerne una tendo per un attimo a dimenticare l’osservazione del bravo Bartezzaghi
e ad interpretare letteralmente il messaggio. Così quando mi vedo proporre
«notre “râble de lièvre”» la mia mente torna irresistibilmente agli immortali
versi di Folgore: «Se potesse la lepre cucinata / lamentar la sua fine
disgraziata / quest’oggi in trattoria dal piatto mio / salirebbe un leggero
miagolio.»)
Qual
è dunque (anzi: quale dovrebbe essere) il ruolo delle virgolette? Servono ad
esprimere un discorso diretto, a delimitare una parola, italiana o straniera,
non (ancora) entrata nell’uso, od un nomignolo («Ilona Staller, soprannominata
“Cicciolina”»), oppure a mettere in rilievo l’accezione insolita o strana
conferita ad un termine. Dardano e Trifone [2] citano come esempio la frase «il
valore “politico” dell’opera d’arte», che potrebbe interpretarsi come «il
valore che, forzando un po’ il significato, potremmo definire “politico” dell’opera
d’arte». Servono poi, e qui torniamo al significato tradizionale cui allude
Bartezzaghi, a far assumere la connotazione di “cosiddetto” o “sedicente”, se
non addirittura truffaldino («il “miliardario americano” è stato arrestato
qualche ora dopo dai carabinieri»).
Per
quest’ultimo motivo non può non destare perplessità l’usanza (nata non si sa
bene come, dove e perché) consistente nell’infiorare di virgolette i necrologi
e i manifesti funerari, quali vengono affissi nei piccoli comuni, là dove si
intende mettere in risalto una particolare attività o benemerenza e si ottiene
invece, senza volerlo, il risultato di offendere sanguinosamente la memoria del
defunto. Tizio, “capostazione FFSS”; Caio, “donatore di sangue”; Sempronio, “ex
maestro di sci”: quale messaggio si intende comunicare? Dobbiamo escludere un
uso improprio delle virgolette e intendere che Tizio fingeva di essere
capostazione ma che in realtà frequentava quella stazioncina di frontiera per trafficare
clandestini? Che Caio raccontava alla moglie di andare in ospedale a donare
sangue mentre in realtà le sue visite celavano un’appassionata relazione con una
vezzosa infermiera? Che Sempronio, quando si trovava al bar, raccontava di
essere maestro di sci per rendersi interessante agli occhi delle turiste
straniere, ma non sapeva fare un semplice spazzaneve neanche a pagarlo un milione?
In tal caso, vien fatto di dire, ci troveremmo di fronte ad un modo perlomeno
singolare di ricordare i poveri “morti”.
NOTE
[1] Stefano Bartezzaghi, Non se ne può più: il libro dei tormentoni,
Milano, Mondadori, 2010.
[2] Maurizio Dardano e
Pietro Trifone, La lingua italiana, Bologna,
Zanichelli, 1985.
Questo
articolo è apparso per la prima volta il 19 dicembre 2011 sul sito http://comunicarepensieri.blogspot.com.