[Banquet (Hanoi 2017). Foto Rb]
Restava solo da chiedersi
quanto sarebbe durato. Lo so, pensare al fallimento di un matrimonio appena
concluso il ricevimento, quando i bicchieri ancora tintinnano nella
lavastoviglie e alcuni piatti inzaccherati di crema chantilly richiedono una
doppia passata di spugna, è un po’ prematuro. Ma io ci avevo già pensato molto
prima. Di norma sono una persona ottimista, che vede al di là delle situazioni
contingenti, che non esclude alcuna eventualità. Tutto è plausibile, nella vita:
io stesso mi reputo uno dei risultati più eclatanti in fatto di plausibilità.
Lavo i piatti di professione, ma proprio dal moto circolare del cesto in cui
ripongo, ormai con annoiata maestria, tutte le lavabili e anche, lo confesso,
alcune cristallerie “proibite”, da questo moto circolare ho maturato una sorta
di dote divinatoria. No, non leggo fondi di caffè, anche se ne ho un’esperienza
quasi quotidiana – se solo ci si rendesse conto di quanto zucchero rimane
incatramato sul fondo delle tazzine – e quando si rinsecchisce, che rottura! Ma
torniamo al matrimonio...
Vi chiederete come possa io
aver assistito al matrimonio essendo regolarmente relegato nelle retrovie delle
celebrazioni, ovvero la vaporiera del posto-lavaggio, il retro cucina o come volete
chiamarlo. In realtà, è plausibile che la finestrella della lavanderia dia
proprio sul giardino dove gli sposi si sottopongono al trito rituale delle foto
ricordo e che io, fra una terrina e una barchetta, abbia potuto intravvedere un
qualche gesto di stizza di lui, o uno sguardo indispettito di lei che, invece,
sembra flirtare con il fotografo. Circostanza plausibile, ma che non si è
verificata. Non vorrei attribuirmi meriti di cui non sono degno, ma le mie
capacità medianiche non si servono dell’osservazione oculare o, come meglio la
chiamerei, sbirciatina di sottecchi, tipo vicina di casa che sta di vedetta fra
le pieghe di una tenda sempre in tenue sventolio.
La prima avvisaglia che
qualcosa non stesse andando per il verso giusto fra i due, ve lo dico
chiaramente, è l’aspetto degli avanzi dei loro piatti di vivande. Non fate
dello spirito! Vorreste dire che il temperamento di una persona non si può
leggere, con un margine di attendibilità altissima, dal modo in cui abbandona
o, meglio, dispone, riordina i resti del suo fiero pasto? Chi mangia lascia
sempre un po’ di sé in quel che ha o non ha mangiato. Quante volte vi sarà
capitato di trovarvi di fronte una bella coreografia di cibarie disposte con
estro raffaelliano, dove carne o pesce, contorni e salse, foglie di coriandolo
sapientemente dislocate lungo i contorni del desco vi fanno esitare sulla
soglia del gesto blasfemo di distruggere, con una forchettata, tutte quelle
perfette geometrie. Oggi ci si illude di attenuare la gravità del gesto con un’istantanea
al cellulare, ma ben si sa che quel ch’è disfatto non si può più rifare. Allora
procediamo allo scempio, con polso cauto e dita melliflue ma, lo stesso, non
osiamo agire d’istinto, seguiamo una logica. Partiamo, ad esempio, dalla
vivanda che meno ci piace, quella che, forse, una volta eliminata, non sciuperà
poi troppo il quadro complessivo. Procediamo quindi con la seconda scelta della
portata meno appetibile, via via fino ad arrivare al piatto forte, il plat de
resistance come dicono i francesi, forse a riguardo del fatto che decidiamo di
addentarlo solo con una certa sacrale riluttanza.
Un’amica cui avevo raccontato
le mie abitudini alimentari in termini simili mi aveva zittito esclamando che
no, lei partiva proprio dal piatto forte, godeva a piene papille il gusto, lo
accoglieva sul palato come un ritorno a casa. Poi, saziatasi di quel che conta,
si adattava a sopravvivere sgranocchiando l’ultima foglia di lattuga lasciata
in un angolo, o un paio di inermi fagiolini insapori. Non vi nascondo che
questo approccio non mi è affatto congeniale: prima si prende quel che piace,
si consuma con ingordigia come quell’animale che deve affrettarsi sul suo
bottino prima che altri predatori se ne impadroniscano! Non sia mai! La gioia
di un bell’arrosto, di un carpione cucinato ad arte, di una fricassea fumante
di aromi è un piacere che va meritato! Non voglio fare della filosofia
spicciola, ma il piatto è come la nostra esistenza: dobbiamo calibrare pulsioni
e freni, usare al meglio le energie, non pensare, ad esempio, che la giovinezza
vada vissuta a velocità ultrasoniche perché poi la vecchiaia sarà soltanto uno
sguardo a ritroso. No. Sempre lasciare il boccone preferito per ultimo, in modo
da alzarsi da tavola con l’appagamento di questa meritata attesa. Ecco, almeno
io la penso così.
Alla luce di questa mia
modesta teoria, che non pretendo si estenda all’intero genere umano, ci si
aspetterebbe che gli sposi, pressati dai continui ammiccamenti di parenti e
amici, non possano far altro che sbafare
quanto di più appetibile compaia sotto mano. Eppure qualcosa nella disposizione
degli avanzi di questi nostri bravi sposi non mi ha convinto per nulla.
Ci sono banchetti di nozze,
diciamo così, ben riusciti, dove invitanti ed invitati se ne escono con i migliori propositi e la
certezza di aver assistito alla prima ed ultima unione di due anime
inseparabili; e, un sicuro indizio di questo sta negli avanzi degli sposi. Se
all’inizio i piatti di portata tornano in cucina pressoché intatti, vuol dire
che gli sposi sono impegnati nei loro giri di ricognizione fra i tavoli di
amici e parenti. E, per giunta, si spostano entrambi. Nel corso del banchetto,
invece, le energie e la diplomazia scemano in un tacito accordo fra i
convitati, dove il coniuge fino ad allora sbeffeggiato o persino diffamato, è
riuscito a conquistarsi un ruolo nella famiglia: che tale ruolo sia gradito o
meno, non è mia competenza stabilirlo. Però un dato empirico rimane: il livello
di rimescolamento, pungolamento o ripulitura dei piatti nuziali aumenta
esponenzialmente.
Cosa succede invece, di
norma, nei banchetti forieri di una disfatta matrimioniale? Si inizia con
piatti mezzi intatti, come nel caso dei banchetti ben riusciti, ma poi l’entità
dei piluccamenti, delle raschiate con la forchetta o, nei casi più drastici,
delle ditate, è assolutamente ininfluente.
Un elogio dello scempio! E la coppietta in questione non si sottrae
certo a tale semplice equazione. Ma perché questo dileggio per le nostre
rinomate pietanze? La mia conclusione al riguardo è la seguente: se gli sposi
non toccano cibo fino all’ultimo, compresa la consumazione rituale del dolce,
imboccato al rispettivo consorte, vuole dire che: 1) non amano troppo la loro
reciproca compagnia, e ben presto andranno per la loro strada; 2) sono talmente
occupati a convincere le opposte famiglie di essere loro il partner ideale del
figlio o figlia oggetto del connubio da perdere a poco a poco la fiducia in se
stessi come coppia. E non si pensi che la colpa del loro insuccesso sia da
attribuire alla famiglia; no, per niente, è in questa incertezza nel rapporto a
due che germina di lì a poco il seme della discordia e, se i coniugi sono
abbastanza fortunati, la separazione seduta stante. Che cinismo, direte voi! Ma
guardatevi attorno: quante scelte sbagliate facciamo nella vita, quanti
rimorsi; non aver preso quell’ultimo treno, non aver accettato un consiglio
scomodo, non aver dato retta al proprio istinto. Sbagliare un matrimonio
rientra nelle statistiche.
Alcuni indizi emersi da
successive “indagini” sembrano confermare in pieno la mia teoria sugli sposi
spreconi. Lei, ragazza di buona famiglia ridotta sul lastrico da qualche
investimento sbagliato e per certe irregolarità messe a tacere a caro prezzo.
Lui, figlio scapestrato di un giudice integerrimo presso la corte dei conti di
R., responsabile delle indagini sugli appalti truccati della recente
esposizione internazionale di M. Come faccio a sapere tutti questi dettagli? Il
maestro di sala ama sfoggiare agli occhi di noi poveri sciacquini le sue conoscenze
e maldicenze sugli ospiti di eventi e cerimonie – non si risparmia neppure
durante le festività natalizie o le feste comandate. È una sua etica
professionale, così la chiama lui, informarsi con dovizia di particolari su
indole, tenore di vita, legami e retroscena piccanti di un gran numero di
invitati. Ma una tessera mancava al complesso mosaico di queste indiscrezioni:
nulla poteva far pensare che quel connubbio di interessi e connivenze potesse
di lì a poco andare in frantumi come i due piatti da portata che la Delia ha
fatto cadere con fragore assordante, sul cotto fiorentino del salone delle
feste.
Delia, ma quanto sei
distratta! Ad ogni banchetto ne combini una, ma devo dire che con i tuoi colpi
maldestri mi risparmi sempre il lavaggio di un discreto numero di cristallerie
e stoviglie. Ma questa volta la cara Delia ha dimostrato un acume da Nero
Wolfe: infatti, poco prima di far cozzare al suolo quel che restava di un
quarto d’anatra alla cantonese con rispettivo recipiente, ha avvertito la sposa
pronunciare questa frase piuttosto lapidaria: “Quanto mi costerà tutto questo!”
A che cosa si riferiva? Al ricevimento? Allo sposo? All’anatra? Fatto sta che,
già prima dello sposalizio qualche segreto accordo doveva essere intercorso. Ma
il mio punto è un altro: come ho tratto le mie conclusioni sull’imminente
debâcle della coppia? Come già detto, dal particolare dei piatti intatti o
quasi. Ma ancora un indizio: da una delle due portate destinate ai coniugi
mancavano di volta in volta qualche foglia di insalata o un cetriolo, o un paio
di verdure grigliate. Quanto alla carne, cotta a puntino o al sangue, ribollita
o guarnita con ogni sorta di salsa, non si ri riscontravano tracce di
effrazione. Da qui il passo è breve: uno dei coniugi era marcatamente, inequivocabilmente
vegetariano! E chi se non la sposa, scandalizzata e adirata alla vista di quel
quarto d’anatra? E, ancora più indisponente per la giovane erbivora constatare
che ogni singola portata, ad eccezione di dolce e formaggi, era un tripudio di
filetti, affettati, cosce e stinchi, bocconcini e tagliate. Insomma: un defilé
intollerabile per un vegetariano, e pure per un animo sensibile come il mio. Da
qui la lecita conclusione: chi ha scelto il menù? Non certo la sposa. Ma come è
possibile che lo sposo non tenga in minima considerazione i gusti alimentari
della sua lei? Li ignorava? Le voleva fare uno sgarbo? Se torniamo indietro nei
secoli, lo sfoggio di carni di ogni tipo sulla tavola era un chiaro indizio di
opulenza e potere, soprattutto durante un banchetto. Le verdure
rappresentavano, invece, quanto di più ignobile e terreno si potesse mettere
sulla tavola. Non pare possibile dare una spiegazione antropologica al dispiego
di cacciagioni e bestiole macellate che affollavano le portate del ristorante,
ma forse tra i contendenti era in corso una prova di forza...
Mi ci è voluto un po’ per
trovare un nesso logico: e se dietro quell’esuberanza di polpe, nervetti e
ossibuchi si celasse una sorta di simbolismo esoterico? Non voglio spingermi
troppo oltre, eppure, come sempre, anche stavolta quel che c’è di più
irrazionale nell’animo umano, l’istinto, ha trovato la sua conferma in un dato
razionale; e, badate bene, non succederà mai il contrario! Comunque, vengo al
sodo.
Per pura curiosità, alla fine
delle celebrazioni, ho dato uno sguardo alla contabilità rilasciata per il
pranzo di nozze: nessuna menzione al banchetto; anzi, la descrizione riportava
una “somministrazione alimenti e bevande in occasione della sesta convention
agronomica”. Intestatario della fattura: Egregio Giudice Dott. Delio Scarpa, il
padre dello sposo. Una fattura commerciale per un matrimonio? Vallo a capire,
forse per scaricare le spese o recuperare qualcosa sulle tasse? Insolito! Non
devo essere stato solo io a nutrire dei sospetti perché, il mese dopo, la
guardia di finanza si presenta di buon mattino a casa del giudice chiedendo
spiegazioni. Capo d’accusa: presunta concussione ad opera della ditta Fattori
S.r.l. ai danni del giudice, nel corso dell’attribuzione di una commessa nella recente
esposizione agroalimentare di M. Il ricevimento doveva quindi fungere da
copertura per le connivenze criminali del giudice di sani e retti principi. Ma
andò veramente così?
Forse in parte, ma la
convention a base di carne era stata ideata, con ogni crisma, dall’unica
persona che non avesse il minimo interesse per nessuna delle pietanze esibite:
la giovane, intraprendente figlia dell’imprenditore agrario. Di comune accordo
con il novello sposo, che aveva preferito seguire gli eventi da dietro la tavola
imbandita, spazzolando fino all’ultimo boccone, la ragazza si era presa una
bella rivincita sul suocero, tanto zelante nel rivelare le irregolarità del di
lei padre. Il caso era stato ovviamente affidato ad un giudice esterno, per
motivi di conflitto di interesse, ma i giochi erano già avviati. Alla ragazza
non restava che trascinare nel fango chi per primo ce l’aveva sprofondata. La
vendetta si era consumata come un piatto di portata, tanto gradito agli ospiti
ignari, quanto indigesto al giudice e alla sua famiglia, ad eccezione,
ovviamente, del figlio, che nemmeno troppo segretamente gioiva
dell’incriminazione del padre, di cui conosceva la carriera opaca e tortuosa.
Inutile dire che il matrimonio, per quanto celebrato con ogni dettaglio, ebbe
vita o, restando in tema alimentare, scadenza molto breve.
Ed ora, cari amici, il
lavapiatti si congeda con un insegnamento: non smettete mai di sospettare se
qualcuno lascia avanzi nel piatto che con tanto amore gli avete propinato; se
metterete insieme una catena sufficientemente attendibile di supposizioni, non
guarderete più quella persona con gli stessi occhi!