[Hong Kong University Museum (2017). Foto Rb]
Abbiamo recensito il film Love Is a Many-Splendored Thing sul numero scorso di Carte allineate, notando una diversità dal volume di Han Suyin da
cui è tratto.
Qualche parola, ora, sul romanzo, in parte autobiografico, che certo contiene un’esperienza sentimentale come nel film, ma in
prevalenza s’impegna a definire un periodo storico, l’identità
personale e collettiva di chi vive tra culture diverse e la preoccupazione per
i venti di guerra e di ostilità.
Hong Kong è al centro di questo volume. Una città di profughi
occidentali e orientali, di culture autonome e incrociate, di bellezza
paesistica e speculazione finanziaria, di pregiudizi e sforzi di liberazione.
Interessanti a tale proposito, soprattutto, i capitoli 6 (“Hongkong Profiles”)
e 13 (“Starting Points”) della seconda parte del romanzo, che forniscono una
galleria di ritratti di abitanti della città, collegati marginalmente all’intreccio
principale, ma fondamentali per capire la varietà di atteggiamenti umani e
sociali della metropoli.
L’autoriconoscimento della protagonista del romanzo, come pure della scrittrice
che parla attraverso la voce del personaggio, implica da un lato la
constatazione che “being Eurasian is not being born of East and of West” (p.
242), con il corollario di appartenere a una categoria particolare di
intellettuali:
“Emotionally held to our own
land by sound and warmth of childhood, by sensuous unworded memories as
background to adult feelings, young Asians are [...] sent to mission
universities, and from there to Cambridge or to Columbia, to Paris or to Geneva, to be modernized and to be westernized. […] Back to our own worlds of
hunger, of unspeakable need, of flagrant corruption and blatant injustice […]
we acquire split, two layered souls” (pp. 272-273).
La protagonista viene per lo più riconosciuta fisicamente come cinese e
tale si ritiene in prevalenza sul piano dell’identità affettiva, emotiva,
nazionale:
“I am an Eurasian. It only means that my mother was European, my father
Chinese; in China no one ever thinks of me but as Chinese, but it is not the same
with your colonial English. The English of the colonies and the concessions
make it a shame to be Eurasian” (p. 189).
Han Suyin contesta vivacemente i pregiudizi e gli stereotipi sui cinesi,
rovesciandoli:
“Foreigners have such rigorous
ideas of how the Chinese should behave, speak, philosophize, display at all
times fatalism, inscrutability, serenity, these figments of Western imagination
so wrongly attributed to my earthy, extrovert race. They lose the reality of
China in the myth of a Cathay old enough to charm them” (p. 146).
Conserva al contempo un’indipendenza di giudizio e un’autonomia di
pensiero che ella stessa giudica occidentali.
Si schiera a favore della nuova Cina perché ritiene che la rivoluzione
abbia affrontato problemi millenari, oltre ad essere inevitabile date le condizioni storico-sociali:
“There would be bloodshed, and
waste, hatred and destruction, terror and brutality, madness trampling
everything down. Perhaps a new world would emerge, and perhaps not. But it was
useless to turn back, it was foolish to refuse knowledge of the flood, for the
flood was upon us already” (p. 132).
Si trova però immersa in un paradosso, come si legge in un dialogo con
un collega medico:
“‘You are completely feudal in
your personal, subjective approach to life. A reactionary, Han’.
‘But on the other hand, Sen,
in Hongkong, many call me a communist, because I love my country’” (p. 272).
Il capitolo 9 (“Land of Morning Calm”) della terza parte riproduce
lettere del fidanzato, giornalista inviato alla guerra di Corea in cui perirà.
Non c’è niente della banalità del film in questo troncone narrativo: intanto
Mark è inglese (non statunitense come nella pellicola) e critico di un’arroganza
americana che testimonia nel corso delle battaglie, inoltre è sconvolto dal
massacro, dal destino della popolazione civile, da quello che gli appare un
conflitto giustificato solo dalla contesa per la supremazia della guerra
fredda.
[Roberto Bertoni]