["It had a magic-like character, a door to the future or something"... (Paris 2017). Foto Rb]
Jean-Christophe Rufin, Le tour du monde du roi Zibeline. Paris,
Gallimard, 2017
Rufin rilancia, in forma
romanzesca, le memorie di viaggio avventurose, in parte forse non del tutto
corrispondenti al vero, ma in generale piuttosto ben note nell’epoca immediatamente
successiva della loro pubblicazione, di Maurizio Augusto Conte di Benjowski (così
nella grafia francese, o, secondo la grafia ungherese, Benyovszky), vissuto tra
il 1746 e il 1786. Dopo aver partecipato alla guerra di Polonia, venne
arrestato e deportato in Siberia, da dove fuggì per approdare in varie zone del
Pacifico, recandosi negli Stati Uniti e chiedendo l’aiuto, negatogli, di George
Washington per instaurare una colonia in Madagascar, il che ritentò col
sostegno austriaco, senza successo in quanto perì in un’imboscata tesagli dai
francesi.
Rufin, che oltre a essere scrittore,
è un militante di movimenti dei diritti umani e uno dei fondatori di “Medici
senza Frontiere”, trova nel Settecento elementi di confronto rispetto alle
proprie convinzioni anticoloniali, e
paragona le impostazioni di Diderot, Montesquieu e Voltaire sul rapporto che l’Occidente
dovrebbe tenere con popoli di altre culture, senza pedanteria, ma riferendo le
idee dell’Illuminismo nel vivo della discussione tra contemporanei del
Settecento; idee che spingono il suo protagonista a liberare il Madagascar nel rispetto
dei valori originari di chi lo popola e lo elegge re dell’isola. Il Settecento dell’autore
viene condensato così:
“Le XVIIIe
siècle est beaucoup plus libéral et avancé que ne l’a été le XIXe, positiviste,
siècle de la colonisation et de la soumission. Le XIXe a introduit la notion de hiérarchie entre les cultures et les
civilisations: on conquiert pour faire avancer les autres ou pour les écraser,
peu importe. Le XVIIIe, lui, est beaucoup plus divers. Il y a les marchands et
les missionnaires, mais aussi ceux qui, comme Benjowski, sont capables, et c’est
tout le sens de ce livre, de proposer un autre destin, celui de la Constitution
américaine. Et de faire de Madagascar un pays souverain avec des hommes
politiques qui s’inspirent de Montesquieu” [1].
La storia, che ha un epilogo in
terza persona, è in massima parte significativamente narrata da due voci, una
maschile e una femminile, quella di Benjowski e quella della sua compagna
Aphanasie, che si alternano nel racconto delle vicissitudini a Benjamin Franklin.
Rispetto alla verità storica, Rufin precisa:
“J’ai juste
opéré quelques transpositions romanesques: j’ai réuni la maîtresse russe d’Auguste
et sa femme en un seul et même personnage, Aphanasie, et, lors de son passage
aux Etats-Unis, je ne l’ai pas fait rencontrer George Washington, mais Benjamin
Franklin” [2].
In effetti, il protagonismo
prefemminista di Aphanasie e la fedeltà amorosa di Benjowski sono da attribuirsi
alla creatività dell’autore del romanzo, che si muove entro una dimensione
geografica globalizzata dall’Europa orientale, alla Siberia, all’Alaska, al
Giappone, a Macao, Madagascar, Francia e Stati Uniti, con una leggerezza del
racconto e una dimensione avventurosa che mai cade nella banalità
commercializzante delle storie di traversie e imprese contemporanee.
NOTE
[1] “Jean-Christophe Rufin: ‘Le monde est en train de redevenir opaque’”, intervista con Jean-Christophe Rufin, a cura di Marianne
Payot, L’Express, 9-4-2017.
[2] Ibidem.
[Roberto Bertoni]