[Not a bear, but Christmasy enough... (Paris 2015). Foto Rb]
La porta
del negozio si aprì di scatto e una scampanellata segnalò che era entrato un
cliente. Un formicolio di nevischio andò a depositarsi sul muso degli
orsachiotti che riempivano sino all’inverosimile la vetrina e una folata di vento
fece ondeggiare la tenda che divideva il negozio dal retrobottega. “Arrivo
subito!”. Dietro la tenda il signor Gotz
sollevò il piede dal pedale della macchina da cucire e preso un paio di forbici
tagliò il filo. Uscì con un balzo e si tirò dietro la tenda con un colpo
deciso, non voleva essere disturbato
mentre ricuciva i suoi orsi e tanto meno desiderava che qualcuno buttasse
l’occhio nel retrobottega. Vi regnavano un ordine e una pulizia assoluti che
davano al locale un’aria completamente
assetica. Non per niente l’insegna che aveva collocato sulla porta del negozio
riportava la dicitura “Clinica per orsi” e lui ormai si era abituato a lavorare
nel retrobottega indossando un camice verde.
Proprio
quel giorno si era dedicato a incorniciare l’insegna con festoni di rami di abete
e bacche rosse tenuti fermi da nastri dorati, e aveva faticato non poco perché
l’intestazione risultasse completamente leggibile. Ora era proprio soddisfatto
del lavoro, la decorazione poteva tenere testa agli addobbi del verduraio che
davanti al suo negozio esponeva merce carissima, ma in pile così precise da far
percepire i mandarini, i melograni, le mele e le pere come rarità assolute, e
al centro aveva piazzato una corona dell’avvento in cui bruciavano protette da
un alto cilindro di vetro le quattro candele, le prime tre ormai quasi
consumate mentre l’ultima era ancora a metà.
Vedendosi
comparire davanti il negoziante abbigliato come un chirurgo l’anziano signore che
era appena entrato stava per indietreggiare, ma Gotz gli fece un gesto
rassicurante e, mentre si liberava rapidamente dal camice, gli chiese se
volesse sedersi. L’altro girò lo sguardo verso la poltrona anni quaranta di
pelle nera occupata da una famiglia intera di orsetti, ma lui al volo lo
prevenì: “No, per favore, non si sieda lì, è la preferita dei miei orsi”,
disse, e poi con una risata aggiunse: “Sa, non è molto stabile, ma è un vecchio
ricordo, ma si accomodi qui” e gli porse la sedia di vimini bianca che teneva
dietro la cassa. Il vecchio si accasciò sulla sedia. Aveva un lungo cappotto
nero, portava ben calcato in testa un berretto di lana grigio e stava guardando
fisso il negoziante. Gotz si sentì a disagio vedendo che quegli occhi non
intendevano spostarsi dai suoi. Fu lui infatti a abbassare lo sguardo che andò
a posarsi sugli orsetti in costume tirolese che aveva piazzato in occasione
delle festività sul tavolinetto davanti alla vetrina.
L’anziano
cliente girò lievemente il capo soffermandosi su un orso, poi su un altro e su
un altro ancora, infine con voce rauca disse: “Anni fa c’era qui la bottega di
un mio amico, il macellaio Grübb. Lo ha conosciuto? Ha saputo che è morto
qualche giorno fa?”. No, non lo sapeva e non lo avrebbe mai voluto sapere, da
quasi vent’anni aveva rinunciato a mangiare carne e l’idea che proprio lì c’era
stato un tempo un bancone con tagli sanguinolenti di manzo o trippa e sanguinacci, gli stava facendo
venire una certa nausea. Il vecchio riprese a parlare non trattenendo un accesso di tosse: “Ma non sono venuto per questo. Mio nipote ha
espresso il desiderio di ricevere in regalo un orso, ma non ha saputo spiegarmi
esattamente come lo voleva. Vorrei portarlo qui e vorrei sapere se può dedicargli
un po’ di tempo da solo, insomma dovrebbe chiudere e non fare entrare nessuno”.
Non lo farò mai, si disse fra sé Gotz, ma gli riuscì di pronunciare solo una
frase: “Ma come faccio così sotto le feste…”. Nonostante l’affanno e i ripetuti colpi di
tosse, il vecchio disse risoluto: “Pagherò bene, non si preoccupi. Anzi, prendo
subito quel baule là in fondo, ne stavo giusto cercando uno di quelle
dimensioni. Me lo potrebbe recapitare oggi a casa? Abito qui vicino. Ha
presente il ristorante Schwänli, sto proprio nella casa accanto”. Avrebbe
dovuto dirgli di subito di no, fargli capire che non se ne parlava proprio, ma
con sgomento si rese conto che l’altro era sgusciato via dal negozio lasciando
accanto al registratore di cassa un biglietto con l’indirizzo. Si sentì completamente
oppresso dall’idea d’aver venduto il baule contro la sua volontà e ora gli
toccava pure svuotarlo. Lo aprì e spostando le buste di plastica che conteneva
afferrò la più grande, ma il sacchetto gli sfuggì di mano e rovesciò sul pavimento con un rumore di biglie
occhi di vetro di tutti i colori che si sparpagliarono finendo sotto il
tavolino, sotto il ripiano della vetrina, sotto le sediette in miniatura su cui
stava a sedere una famiglia di orsi in gonnellino scozzese. Dovette chinarsi,
inginocchiarsi e strisciare per recuperarli. Mentre compiva quell’operazione si
ricordò all’improvviso della testa a metà di un manzo con l’occhio ancora
aperto e le ciglia molto lunghe. O era una mucca? Dove l’aveva vista? In mostra
al Kunsthaus. Si mise a sedere per terra sprofondato nell’angoscia.
Quando
si riprese andò a recuperare una scatola che teneva nell’armadio a muro del
retrobottega su uno scaffale molto alto. Per arrivare sino a quell’altezza si
serviva di una sedia che si trasformava in scaletta e proprio in quel momento
l’aveva ribaltata per prendere la scatola, ma faticò a sollevare le braccia e
dovette fare attenzione per non cadere. “Poi penserò a queste imbottiture”, si
disse mentre svuotava la scatola in cui avrebbe riposto le buste con gli occhi
di vetro. Il suo sguardo andò a posarsi sulla cesta delle riparazioni, una
testa era praticamente staccata dal collo, un arto pendeva innaturalmente dalla
spalla, un occhio era uscito dall’orbita e penzolava sorretto da un lungo filo
da imbastitura, una pancia era squarciata da un taglio. Avvertì un moto di
ripulsa, non per le sue creature che aspettavano la cura delle sue mani, ma pensando
a che cosa era servita un tempo la sua bottega. Grübb, Grübb, Grübb, solo a pronunciare
il nome dell’antico inquilino il suo negozio pezzo dopo pezzo gli stava
crollando addosso. E se fosse stato come quel macellaio che per anni aveva
servito ai clienti la carne dei propri vicini di casa?
Una zona
elegante, il Neumarkt di Zurigo, affitti carissimi, prezzi alle stelle, non
lontano dal suo negozio un orologiaio esponeva rari modelli da collezione
sostenuti da omini di neve, un negozio di libri di viaggio con le cartine di
tutto il mondo, offriva le ultime novità sulle isole più esclusive da
raggiungere in pieno inverno. Una composizione di fiori rossi troneggiava
accanto al mattoncino di granito che sorreggeva un’unica collana dalle pietre
enormi.
Spingendo
il carrellino su cui aveva piazzato il baule, Gotz passò davanti al ristorante
dai soffitti bassissimi utilizzato da epoca immemorabile dagli studenti che vi
andavano a festeggiare il superamento degli esami con Bratwurst, Rösti e fiumi
di birra, lo avrebbe riconosciuto anche a occhi chiusi, ma ora trattenendo il
respiro imboccò il vicoletto che portava sino alla Predigerplatz. Intanto il
nevischio si stava trasformando in fiocchi di neve che cadevano sempre più fitti
cominciavano a depositarsi anche sul cigno che componeva l’insegna del
ristorante. La casa in cui doveva recapitare il baule era quella accanto.
Trovò
facilmente il campanello, suonò e aspettò parecchio tempo senza che ci fosse
alcuna risposta. Illudendosi di aver sentito scattare il pulsante
dell’apertura, si mise a spingere il portoncino, che cedette e si aprì. Avvertì
forte il profumo di bucato che proveniva dalla cantina, la Waschküche usata da
tutto il condominio, un odore che pareva rassicurante, ma che invece aumentò il
suo senso di nausea. Lasciò il carrellino sotto una rientranza delle scale e
cominciò a salire pensando che era stata una pessima idea vendere quel baule
che ora gli toccava trasportare sino al primo piano. Trovò la porta chiusa, “Ho
portato il baule!”, gridò, ma nessuno rispose, poi poggiò la mano sulla
maniglia e la porta si aperse. Non era stata chiusa a chiave, come in molte
case di Zurigo, sapeva però che proprio per questa abitudine non si doveva assolutamente entrare senza
permesso. Invece entrò. Si fermò nell’anticamera dove solo un lumino piazzato
su una mensola spandeva una luce giallognola e fece parecchia fatica per
adattarsi alla penombra di quella stanza. “Scusi, posso entrare?”, e intanto
aveva raggiunto quello che poteva forse essere un salotto perché era anch’esso
quasi al buio, il pesante tendaggio era stato tirato completamente. Lasciò lì
il baule e si diresse a tentoni verso una porta chiusa da cui filtrava un po’
di luce e da cui gli era sembrato che provenissero dei rumori. Non osò bussare
e accostò l’orecchio per sentire meglio.
Arrivava
sin lì una specie di rantolo interrotto da urletti incontrollati, poi un fischio,
un oggetto imprecisato trascinato sul pavimento, il rumore di qualcosa di
metallico battuto ripetutamente per terra, campanelli che squillavano con timbri
diversi, una scala musicale suonata su uno xilofoso e a tratti colpi di tosse
non come di qualcuno che volesse schiarirsi la gola, ma che stesse proprio soffocando.
E poi avvertì, non ne era completamente sicuro, un rumore che gli sembrava
familiare e che lì per lì non riuscì a decifrare. Sembrava un gocciolio
d’acqua, o meglio uno scrosciare insistente accompagnato da gridolini.
Gotz
si appoggiò alla porta che proprio in quel momento si spalancò. Il vecchio lo vide
barcollare verso l’interno. “Le ho portato il baule”, si giustificò, mentre
l’altro allungando le mani che stringevano due bacchette di legno lo fece
entrare. Su un tappetino, seduto per terra a gambe divaricate un bimbetto
circondato da oggetti di tutti i tipi teneva sollevato per il manico un
tegamino vuoto che lasciò cadere dentro una bacinella d’acqua. Con gli occhi rivolti
verso il soffitto lo ripescò cercandolo con le mani, lo riempì e dopo averlo
svuotato lo sollevò molto in alto e lo ributtò nella bacinella facendo
schizzare l’acqua e accompagnando i suoi gesti con gridolini, sospiri e versi incomprensibili.
L’acqua continuava a traboccare dalla bacinella bagnando il tappetino. Anche il
vestito del bambino era zuppo.
Ora
che gli occhi si erano abituati alla luce Grotz poté vedere gli altri oggetti, uno
xilofono era abbandonato accanto al bimbo, la locomotiva di un trenino, il
coperchio di una pentola a pressione e lì accanto la stessa pentola, piena
quasi fino all’orlo d’acqua calda, come si poteva capire dal fumo che si
sollevava, un cestino con una polvere bianca sparsa a metà per terra, scodelle
con lenticchie e ceci da cui era fuoriuscito parte del contenuto e si era riversato
sul tappetino. “È il medico degli orsi, disse il vecchio rivolto al
bambino. “E questo è mio nipote Marc”.
Gotz vide che il bambino volgeva la testa nella direzione della porta senza
sollevare lo sguardo. “È venuto a
prenderti”, disse il vecchio guardando fisso negli occhi il negoziante.
Era
la vigilia di Natale, Niderdorf risplendeva di luci anche se i negozi erano ormai
tutti chiusi. Soltanto l’insegna della Clinica degli orsi era ancora illuminata.
Sprofondato nella poltrona nera un bambino accarezzava, tastava, leccava e si strusciava sul viso un esercito di orsi.