Cina 2015
Ottimo dal punto di vista estetico, impegnato sul piano
sociale, con riferimenti letterari tra Oriente e Occidente, il film di Zhao
Liang, presentandosi sono in parte come documentario, piuttosto invece come
saggio artistico su una problematica [1], fa della lentezza e della profondità
stipiti di una poetica che impone attenzione allo spettatore, coinvolgendolo
non solo nelle emozioni visive, ma anche e soprattutto nella riflessione.
Il titolo è un riferimento alla Bibbia, di cui sono
citati i versetti. La struttura narrativa si svolge su due piani. L’elemento del
viaggio si richiama esplicitamente, nei titoli di coda, alla Commedia dantesca accompagnata da cenni
onirici e surreali. Il narratore in prima persona, con voce fuori campo,
immagina un sogno in cui incontra, come Ovidio, una guida che ha uno specchio
sulle spalle, allegoria in parte, si direbbe, della mimesi, e in parte richiamo
magico-rituale alla morte e all’aldilà. L’illusione del sogno è data da una
composizione dell’immagine in quadri paralleli, con i fori della celluloide di
una volta in alcune inquadrature, quindi un gioco metalinguistico complesso. Il
colore dominante della parte comparabile all’Inferno è il nero di una miniera di carbone oltre al rosso e al
fuoco di un’acciaieria. Il Purgatorio è
una dimensione ospedaliera che documenta le malattie derivate dal lavoro tra il
carbone e si risolve nel decesso di uno dei lavoratori, quindi fino a che punto
qui si tratti di Purgatorio è da determinarsi, e ovviamente un secondo Inferno.
Il Paradiso, ancora più nettamente, è
un falso Paradiso, che consiste nel raggiungimento di una delle molte città
fantasma costruite in Cina in vista di un popolamento urbano che non si è
realizzato se non in parte.
La parabola è una denuncia della devastazione della terra
e delle acque della Mongolia in seguito alla costruzione di miniere, con
sconvolgimento tanto del patrimonio naturale e delle attività pastorali
tradizionali quanto del panorama umano. Soprattutto è una denuncia della
condizione umana degradata cui la corsa al profitto costringe i lavoratori.
La telecamera inquadra ora volti tesi dalla fatica e
anneriti dal tipo di lavoro svolto; le famiglie che raccolgono la polvere di
carbone; una famiglia superstite di nomadi che allevano pecore tra ritagli di
verde ai confini della miniera, le file interminabili di camion che danno
un’idea dell’entità dello sfruttamento industriale, le offerte votive a Buddha
di una pianta verdeggiante, incongrua tra la miseria delle casupole e la
qualità crepuscolare del paesaggio industriale.
Non c’è riscatto. Non c’è futuro; e una delle
dichiarazioni della voce fuori campo è proprio che più terribile di tutto è il
desiderio privo di speranza per il futuro.
L’atmosfera da aldilà è in parte resa con riferimenti al
sogno del vulcano nel film Sogni di
Akira Kurosawa. Le riprese delle attività industriali sono paradossalmente di
una bellezza notevole, con i fumi delle esplosioni, il rallentatore dei
frammenti che si proiettano nell’aria, la discesa nel ventre della terra,
l’incandescenza dell’acciaio uscito dalla fusione. Interessante, nella colonna sonora, il
richiamo alla tradizione del canto gutturale mongolo.
In parte, l’esito artistico del film si basa sul silenzio, ovvero lamancanza di dialogo. Come spiega il regista: "The language of silence
contains a large power because the [...] characters are already carrying [...] powerful stories" [2].
Un film che mette alla prova la resistenza di chi lo
guarda, proprio per questo risultando più attivamente e letterariamente valido.
NOTE
[1] "It’s closer to art than film. It makes me feel more comfortable to call it that" (Zhao Liang's interview with Alex Suber, Slant, 16-3-2016).
[2] Ibidem.
[Roberto Bertoni]