In Christopher Lasch, La cultura del narcisismo (1979), Milano, Bompiani, 1995, pp. 15-66
Si tratta dei primi due capitoli del noto saggio
di Lasch, che contengono elementi premonitori, considerando la pubblicazione
ben trentasette anni fa
Lasch osserva la semplificazione del concetto di
narcisismo, ridotto solo a egoismo e individualismo in varia analisi
dell’epoca, compresa quella di Fromm (che a noi però appare piuttosto
corretta), rifacendosi invece alle origini del concetto nella modernità in
Freud e alla sua elaborazione come proiezione interiorizzata delle paure
infantili rispetto ai genitori oppressivi di Melanie Klein.
La parte più propriamente sociologica è
un’anatomia del comportamento di “miglioramento del proprio stato psichico” (p.
16) con una varietà si strategie personalistiche che vanno da abitudini
alimentari migliorate al culto del fisico e della bellezza: aspetti che abbiamo
visto crescere in tutti questi decenni.
Scrive Lasch: “vivere per il presente è
l’ossessione dominante – vivere per se stessi, non per i predecessori o per i
posteri. Stiamo perdendo rapidamente il senso della continuità storica, il
senso di appartenenza a una successione di generazioni che affonda le sue
radici nel passato e si proietta nel futuro” (p. 17).
Sul piano della rinascita della spiritualità, la
diagnosi è non quella di una dimensione religiose rinnovata, bensì una forma di
terapia: si ricorre alla spiritualità per la avere una “sensazione”, o meglio
un’“illusione momentanea di benessere personale” (p. 19). Tale è in effetti,
per esempio, ancor oggi, e sempre più, la diffusione dello Yoga a livello di
massa, con la corrispondente perdita di dimensione autenticamente spirituale,
di silenzio, di congiunzione con la divinità, che dovrebbe essere la lettera e
lo scopo della pratica dello Yoga.
“Per il narcisista il mondo è uno specchio” (p.
22), in cui muoversi verso la pura e semplice “realizzazione personale” (p.
37), adattandosi, perdendo in volontà e ideologia e acquisendo in direzione dei
compromessi messi in atto per esercitare influenza personale sull’ambiente e sugli altri, con perdita di collaborazione con gli altri, di fedeltà
alle imprese per cui si lavora e dei parametri etici tradizionali.
Ne consegue un “vuoto
interiore” (p. 33), accompagnato, nonostante la facciata di potenza, da
“solitudine” e “mancanza di autenticità” (p. 39).