[Arab Street (Singapore 2016). Foto Rb]
Hwee Hwee
Tan, Foreign Bodies. Londra,
Michael Joseph, 1997
Tenuto su un tono brillante e ironico, questo volume si
presenta a tutta prima come un resoconto picaresco delle avventure giovanili
dei protagonisti, che si alternano nella narrazione di capitolo in capitolo:
Mei, Andy ed Eugene. Poco per volta, tuttavia, ci si trova in un quadro
piuttosto cupo, nonostante la verniciatura stilistica allegra, dei rapporti tra
persone e delle persone con la realtà politico-sociale.
Andy, un inglese andato a Singapore su consiglio dell’amico
singaporiano Eugene, viene arrestato con l’accusa di avere condotto una bisca
clandestina. Chiede a Mei, appena laureatasi in legge, di cui si è invaghito,
di difenderlo. Lei propone un patteggiamento, che lui rifiuta, ma scopre infine
che a mettere le prove della colpevolezza a casa di lui è stato proprio Eugene
per incastrare Loong, un altro singaporiano, protetto dallo status sociale
elevato, che aveva di fatto ucciso un amico comune inducendolo a bere una
bevanda letale. Mei sceglie di attenersi alla legge dell’onore, non rivelando
la confessione che ha ricevuto da Eugene sotto giuramento di non renderla
pubblica, decisione in ragione della quale Andy viene condannato a una pena
pecuniaria elevata e ad anni di carcere.
Oltre alla sovversione della legalità istituzionale, si
assiste a un conflitto tra generazioni. Soprattutto a casa di Mei, gli usi cinesi
della vecchia generazione, rappresentata dalla madre, non valgono per i
giovani, proiettati in una modernità che ne fa a meno. Più a fondo, e in modo
più inquietante, la madre ha convissuto con atti sessuali illeciti commessi dal
padre nei confronti di Mei bambina e che ne hanno ovviamente influenzato tutto
lo sviluppo psicologico ulteriore.
Singapore è vista come un luogo di artificiosità: “There
is something exotic about Singapore. The only problem it’s all manifactured
by the Tourist Board” (p. 136).
Un luogo in cui la modernità si combina con la tradizione: “From my
office, I could see the Westin Stamford, the tallest hotel in the world. The
other skyscrapers towered above the green water, white light bouncing off dark
windows, a labyrinth of mirrored citadels, a city of glass. This was Singapore,
the centre of information technology in South-East Asia; this was Singapore, a
place where people still bowed down to idols, burnt joss sticks, consulted
mediums, exorcised demons and walked on coals” (p. 148).
[Roberto Bertoni]