“Non è detto che
Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città
visitate nelle sue ambascerie, ma certo l’imperatore dei tartari continua ad
ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro
suo messo o esploratore. Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue
all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato,
alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a
comprenderli ... è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che
ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né
forma” (5).
L’imperatore, infatti, “contempla un impero ricoperto di
città che pesano sulla terra e sugli uomini, stipato di ricchezze e d’ingorghi,
stracarico d’ornamenti e d’ incombenze, complicato da meccanismi e di gerarchie,
gonfio, teso, greve” (71) e “Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan
riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare,
la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti” (5).
L’impero di Khan si sta espandendo, ma è proprio tale
accrescimento la causa della sua precarietà e marcescenza. L’idea di crescita e
di sviluppo che inorgoglisce il Gran Kan conduce ad un appesantimento sia verso
il fuori che verso il dentro. Verso il fuori, con un ampliamento dei confini (l’ampiezza
sterminata dei territori conquistati), verso il dentro con l’accumularsi di
oggetti pesanti, di ricchezze, di costruzioni, ma anche di meccanismi di
distribuzione del potere che rendono le città grevi e pesanti, sia per l’impero
che per gli uomini. I sostantivi e gli aggettivi usati da Calvino rendono l’idea
di questa insostenibile forza di gravità che spinge l’impero verso il basso,
schiacciandolo. Ecco perché, dopo aver constatato che
“È il suo stesso
peso che sta schiacciando l’impero … nei suoi sogni ora appaiono città leggere
come aquiloni, città traforate come pizzi, città trasparenti come zanzariere,
città nervatura di foglia, città linea della mano, città filigrana da vedere
attraverso il loro opaco e fittizio spessore” (71).
C’è sin dall’inizio del romanzo, come mostrano i passi
succitati, una contrapposizione fra peso e leggerezza, un binomio caro a
Calvino che ci riporta immediatamente alla prima delle sei Lezioni americane intitolata per l’appunto Leggerezza. Da rilevare è la ricorrenza del termine “filigrana” che
indica un disegno diafano, un qualcosa quasi di incorporeo, ma nondimeno
resiliente ed inattaccabile dalle forze che su questo agiscono, come il morso
delle termiti. Riprendiamo questo passaggio: “Solo nei racconti di Marco Polo,
Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a
crollare, la filigrana di un disegno così sottile da sfuggire al morso delle
termiti” (5).
Cos’è quindi questa leggerezza? Per comprenderlo c’è
subito un distinguo da fare, come emerge dai termini “discernere” e “attraverso”:
il peso non è tanto nelle cose, ma nella visione di chi le osserva; la
leggerezza consiste allora nell’attraversare il peso estrapolando da esso la
filigrana che permette alle città di svilupparsi, di crescere in maniera
diversa. L’acquisizione di questa visione non avviene rifuggendo il peso, ma penetrandolo,
avendone esperienza. Come Perseo, così si legge nelle Lezioni Americane, che sa librarsi leggero, conscio della
pesantezza della pietra in cui la Medusa poteva trasformare chiunque
incontrasse il suo sguardo. Dopo essere riuscito a mozzare la testa del mostro,
Perseo non l’abbandona, la porta con sé; non vi è in lui “un rifiuto della
realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli
porta con sé, che assume come proprio fardello” (Lezioni americane, 9). Continua Calvino:
“Nei momenti in cui
il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei
volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o
nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare
il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di
verifica” (Lezioni americane, 11).
Si tratta quindi di scorgere in un fardello un
viatico per giungere a nuove possibilità, a nuova conoscenza. Marco Polo,
infatti, adotta un nuovo approccio per guardare l’impero del Gran Kan; egli non
descrive le città come sono, limitandosi all’esistente, ma si addentra in ciò
che sono state e si spinge verso quello che possono diventare, distinguendosi
cosi dagli altri emissari dell’Imperatore.
Emblematico è il seguente passaggio:
“Gli altri
ambasciatori mi avvertono di carestie, di concussioni, di congiure, oppure mi
segnalano miniere di turchesi nuovamente scoperte, prezzi vantaggiosi nelle
pelli di martora, proposte di forniture di lame damascate. E tu? – chiese a
Polo il Gran Kan. – Torni da paesi altrettanto lontani e tutto quello che sai
dirmi sono i pensieri che vengono a chi prende il fresco la sera seduto sulla
soglia di casa. A che ti serve, allora, tanto viaggiare?” (25).
Ai racconti degli altri ambasciatori, caratterizzati dall’attenzione
ad oggetti, intrighi, fattori monetari, Marco Polo contrappone la leggerezza
dell’uomo che alla sera, sulla soglia di casa, si immerge nei suoi pensieri,
uno sprofondamento che mi ricorda la visione che Giacomo Leopardi descrive ne L’infinito:
“Sempre caro mi fu
quest’ermo colle,
E questa siepe, che
da tanta parte
Dell’ultimo
orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e
mirando, interminati
Spazi di là da
quella, e sovrumani
Silenzi, e
profondissima quiete
Io nel pensier mi
fingo; ove per poco
il cor non si
spaura.
[…]” (62-63).
La siepe è ciò che dapprima non permette allo sguardo di
scorgere ciò che sta al di là, l’orizzonte. Tuttavia, sedendo e fissando lo
sguardo su tale ostacolo, il soggetto riesce a penetrarlo e ad immaginare gli
sterminati spazi al di là di essa, i silenzi che vanno oltre la comprensione e
una pace profondissima. Similmente, l’uomo che sta sulla soglia di casa la
sera, abitandola, si immerge in un nuovo spazio da cui, senza dimenticare ciò
che sta dentro e la sua pesantezza, riesce ad avere accesso ad una nuova
visione. Ciò che Marco Polo sta cercando di mostrare all’imperatore è che la
salvezza dallo schiacciante peso è possibile, ma richiede uno sforzo. Dove ora
egli vede solo decadenza, deve cercare il varco, lo spiraglio. Attraversando e
penetrando i racconti degli altri emissari, i quali si soffermano sugli oggetti
e sulle ricchezze materiali contenute nelle città visitate, senza cercare o
immaginare lo spazio fuori da esse e farne esperienza, Gengis Kan deve cercare “le
città invisibili;” deve cioè sforzarsi di trovare quel punto di luce da cui
poter scorgere l’intarsio che si cela dietro la concretezza del suo impero, quelle
“tracce di felicità che ancora si intravvedono […] aguzzare lo sguardo sulle
fioche luci lontane” (57), ampliarle e farle brillare. Solo così avrà accesso
ad altri mondi, ad altre dimensioni delle città che compongono il suo impero,
al loro passato ma anche al loro possibile futuro, immaginando e creando
relazioni fra loro. Il seguente passo, tratto dalla descrizione della città di
Zaira, elucida questa visione:
“Inutilmente,
magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni.
Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli
archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già
che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di
relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato: la
distanza dal suolo d’un lampione e i piedi penzolanti d’un usurpatore impiccato;
il filo teso dal lampione alla ringhiera di fronte e i festoni che impavesano
il percorso del corteo nuziale della regina; l’altezza di quella ringhiera e il salto dell’adultero che la scavalca
all’alba” (mia sottolineatura, 10).
Si prenda infatti la ringhiera nel passo succitato. La
ringhiera non è più solo un oggetto statico, ma diventa un elemento di congiunzione
fra due mondi, quello dell’adultero e quello della donna amata, fra il loro
presente e il loro passato. La ringhiera, da qualcosa di fisso e separatorio,
diventa “leggera” e in un certo senso mobile: il suo essere un oggetto con una
determinata altezza diventa inscindibile dal movimento del balzo dell’adultero
e dalla notte trascorsa con l’amata. Da uno spazio di staticità si passa dunque
ad uno spazio dinamico, di relazioni e ciò avviene con uno slittamento che è
ancora una volta rivolgendomi a Leopardi che mi piace elucidare:
“All’uomo sensibile
e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo
ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà
cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana;
e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna,
udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e
il piacevole delle cose (Zibaldone,
30 nov. 1a. Domenica dell’Avvento. V, 4502).
Marco Polo
vede la ringhiera doppia, con l’immaginazione compie uno slittamento che gli
permette di liberare gli avvenimenti di cui essa, come gli altri oggetti, sono
stati testimoni. E cosi:
“Di quest’onda che
rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata. Una
descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira.
Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano,
scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano
delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni
segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole” (10-11).
Le relazioni che si svelano fra presente e passato sono
innumerevoli e non sono lineari, ma rizomatiche, per usare un termine
deleuziano, come indicato dalla descrizione del passato in Zaira. ll passaggio da
una città all’altra, poi, non segna divisioni nette, ma frontiere labili e
porose, soglie appunto. La soglia non pone confini o limiti, non determina chiusure,
ma inevitabilmente ingenera una propulsione verso il fuori, sia spaziale che
temporale. Tali soglie permettono alle varie città visitate da Polo di incrociarsi e intersecarsi,
compresa la stessa Venezia. Polo spiega infatti che una nuova città lo aiuta a
capire quelle che ha appena visitato, così come gli svela qualcosa del
campiello di Venezia dove giocava da bambino. All’accusa, poi, di essere sempre
rivolto al passato, Marco Polo ribatte “che quello che lui cercava era sempre
qualcosa davanti a sé” e che “Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore
ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non
sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non
posseduti” (26).
Lo spazio cui si accede assumendo la prospettiva della
soglia è uno spazio non tracciabile, non delimitato e circoscritto, come quello
narrato dagli altri ambasciatori. È uno spazio che non potrà mai essere
posseduto o dominato. In quest’ottica, il viaggio che l’emissario veneziano
invita Kublai Kan ad intraprendere comporta un prezzo molto alto, per chi come
quest’ultimo anela al controllo e al completo possesso di tutto. E Marco Polo,
niente affatto intrappolato nel passato, è invece contemporaneo del suo tempo,
secondo l’accezione di Giorgio Agamben; egli scopre nel presente la componente che
sempre rimarrà estranea e fa di questo “varco,” di questa fessura, lo spazio in
cui poter far accadere inaspettati incontri. Afferma Agamben che “Ciò significa
che il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente,
ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il
tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri
tempi, di leggerne in modo inedito la storia” (24).
Kublai Kan deve
riuscire a vedere il suo impero e la sua storia con occhi diversi, estrapolando
da esso l’intarsio di relazioni che gli faranno scoprire città traforate e
leggere come quelle che popolano i suoi sogni, elevandosi così dal suo
schiacciante peso. È questa la filigrana che resisterà al morso delle termiti.
Ed è questo il dono più prezioso che Marco Polo offre all’imperatore di ritorno
dalle sue ambascerie.
BIBLIOGRAFIA
AGAMBEN, Giorgio. Che cos’è il contemporaneo. Roma,
Nottetempo, 2008.
CALVINO, Italo. Le città invisibili. Milano, Palomar e
Arnoldo Mondadori, 1996.
CALVINO, Italo. Lezioni americane. Milano Palomar e
Arnoldo Mondadori, 1993.
LEOPARDI, Giacomo. “L’infinito”,
in Canti. Torino, Tipografia Carlo
Accame, 1930, 62-63.
LEOPARDI, Giacomo. Zibaldone. Tomo secondo. Milano, Arnaldo
Mondadori, 1997.