25/01/16

Silvia Marchetti, VISIONI DI LEGGEREZZA NELLE CITTÀ INVISIBILI DI ITALO CALVINO

Nelle Città invisibili di Italo Calvino, l’imperatore dei Tartari Kublai Kan, alla testa di uno sconfinato impero, conferisce ad alcuni emissari, fra cui il veneziano Marco Polo, l’incarico di compiere dei viaggi e poi, al ritorno da tali ambascerie, di relazionare su quanto visto e sperimentato. Riguardo ai resoconti di quest’ultimo:

“Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l’imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore. Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli ... è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma” (5).

L’imperatore, infatti, “contempla un impero ricoperto di città che pesano sulla terra e sugli uomini, stipato di ricchezze e d’ingorghi, stracarico d’ornamenti e d’ incombenze, complicato da meccanismi e di gerarchie, gonfio, teso, greve” (71) e “Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti” (5).

L’impero di Khan si sta espandendo, ma è proprio tale accrescimento la causa della sua precarietà e marcescenza. L’idea di crescita e di sviluppo che inorgoglisce il Gran Kan conduce ad un appesantimento sia verso il fuori che verso il dentro. Verso il fuori, con un ampliamento dei confini (l’ampiezza sterminata dei territori conquistati), verso il dentro con l’accumularsi di oggetti pesanti, di ricchezze, di costruzioni, ma anche di meccanismi di distribuzione del potere che rendono le città grevi e pesanti, sia per l’impero che per gli uomini. I sostantivi e gli aggettivi usati da Calvino rendono l’idea di questa insostenibile forza di gravità che spinge l’impero verso il basso, schiacciandolo. Ecco perché, dopo aver constatato che

“È il suo stesso peso che sta schiacciando l’impero … nei suoi sogni ora appaiono città leggere come aquiloni, città traforate come pizzi, città trasparenti come zanzariere, città nervatura di foglia, città linea della mano, città filigrana da vedere attraverso il loro opaco e fittizio spessore” (71).

C’è sin dall’inizio del romanzo, come mostrano i passi succitati, una contrapposizione fra peso e leggerezza, un binomio caro a Calvino che ci riporta immediatamente alla prima delle sei Lezioni americane intitolata per l’appunto Leggerezza. Da rilevare è la ricorrenza del termine “filigrana” che indica un disegno diafano, un qualcosa quasi di incorporeo, ma nondimeno resiliente ed inattaccabile dalle forze che su questo agiscono, come il morso delle termiti. Riprendiamo questo passaggio: “Solo nei racconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana di un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti” (5).

Cos’è quindi questa leggerezza? Per comprenderlo c’è subito un distinguo da fare, come emerge dai termini “discernere” e “attraverso”: il peso non è tanto nelle cose, ma nella visione di chi le osserva; la leggerezza consiste allora nell’attraversare il peso estrapolando da esso la filigrana che permette alle città di svilupparsi, di crescere in maniera diversa. L’acquisizione di questa visione non avviene rifuggendo il peso, ma penetrandolo, avendone esperienza. Come Perseo, così si legge nelle Lezioni Americane, che sa librarsi leggero, conscio della pesantezza della pietra in cui la Medusa poteva trasformare chiunque incontrasse il suo sguardo. Dopo essere riuscito a mozzare la testa del mostro, Perseo non l’abbandona, la porta con sé; non vi è in lui “un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello” (Lezioni americane, 9). Continua Calvino:

“Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica” (Lezioni americane, 11).

Si tratta quindi di scorgere in un fardello un viatico per giungere a nuove possibilità, a nuova conoscenza. Marco Polo, infatti, adotta un nuovo approccio per guardare l’impero del Gran Kan; egli non descrive le città come sono, limitandosi all’esistente, ma si addentra in ciò che sono state e si spinge verso quello che possono diventare, distinguendosi cosi dagli altri emissari dell’Imperatore.

Emblematico è il seguente passaggio:

“Gli altri ambasciatori mi avvertono di carestie, di concussioni, di congiure, oppure mi segnalano miniere di turchesi nuovamente scoperte, prezzi vantaggiosi nelle pelli di martora, proposte di forniture di lame damascate. E tu? – chiese a Polo il Gran Kan. – Torni da paesi altrettanto lontani e tutto quello che sai dirmi sono i pensieri che vengono a chi prende il fresco la sera seduto sulla soglia di casa. A che ti serve, allora, tanto viaggiare?” (25).

Ai racconti degli altri ambasciatori, caratterizzati dall’attenzione ad oggetti, intrighi, fattori monetari, Marco Polo contrappone la leggerezza dell’uomo che alla sera, sulla soglia di casa, si immerge nei suoi pensieri, uno sprofondamento che mi ricorda la visione che Giacomo Leopardi descrive ne L’infinito:

“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura.
[…]” (62-63).

La siepe è ciò che dapprima non permette allo sguardo di scorgere ciò che sta al di là, l’orizzonte. Tuttavia, sedendo e fissando lo sguardo su tale ostacolo, il soggetto riesce a penetrarlo e ad immaginare gli sterminati spazi al di là di essa, i silenzi che vanno oltre la comprensione e una pace profondissima. Similmente, l’uomo che sta sulla soglia di casa la sera, abitandola, si immerge in un nuovo spazio da cui, senza dimenticare ciò che sta dentro e la sua pesantezza, riesce ad avere accesso ad una nuova visione. Ciò che Marco Polo sta cercando di mostrare all’imperatore è che la salvezza dallo schiacciante peso è possibile, ma richiede uno sforzo. Dove ora egli vede solo decadenza, deve cercare il varco, lo spiraglio. Attraversando e penetrando i racconti degli altri emissari, i quali si soffermano sugli oggetti e sulle ricchezze materiali contenute nelle città visitate, senza cercare o immaginare lo spazio fuori da esse e farne esperienza, Gengis Kan deve cercare “le città invisibili;” deve cioè sforzarsi di trovare quel punto di luce da cui poter scorgere l’intarsio che si cela dietro la concretezza del suo impero, quelle “tracce di felicità che ancora si intravvedono […] aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane” (57), ampliarle e farle brillare. Solo così avrà accesso ad altri mondi, ad altre dimensioni delle città che compongono il suo impero, al loro passato ma anche al loro possibile futuro, immaginando e creando relazioni fra loro. Il seguente passo, tratto dalla descrizione della città di Zaira, elucida questa visione:

“Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato: la distanza dal suolo d’un lampione e i piedi penzolanti d’un usurpatore impiccato; il filo teso dal lampione alla ringhiera di fronte e i festoni che impavesano il percorso del corteo nuziale della regina; l’altezza di quella ringhiera e il salto dell’adultero che la scavalca all’alba” (mia sottolineatura, 10).

Si prenda infatti la ringhiera nel passo succitato. La ringhiera non è più solo un oggetto statico, ma diventa un elemento di congiunzione fra due mondi, quello dell’adultero e quello della donna amata, fra il loro presente e il loro passato. La ringhiera, da qualcosa di fisso e separatorio, diventa “leggera” e in un certo senso mobile: il suo essere un oggetto con una determinata altezza diventa inscindibile dal movimento del balzo dell’adultero e dalla notte trascorsa con l’amata. Da uno spazio di staticità si passa dunque ad uno spazio dinamico, di relazioni e ciò avviene con uno slittamento che è ancora una volta rivolgendomi a Leopardi che mi piace elucidare:

“All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose (Zibaldone, 30 nov. 1a. Domenica dell’Avvento. V, 4502).

Marco Polo vede la ringhiera doppia, con l’immaginazione compie uno slittamento che gli permette di liberare gli avvenimenti di cui essa, come gli altri oggetti, sono stati testimoni. E cosi:

“Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole” (10-11).

Le relazioni che si svelano fra presente e passato sono innumerevoli e non sono lineari, ma rizomatiche, per usare un termine deleuziano, come indicato dalla descrizione del passato in Zaira. ll passaggio da una città all’altra, poi, non segna divisioni nette, ma frontiere labili e porose, soglie appunto. La soglia non pone confini o limiti, non determina chiusure, ma inevitabilmente ingenera una propulsione verso il fuori, sia spaziale che temporale. Tali soglie permettono alle varie città visitate da Polo di incrociarsi e intersecarsi, compresa la stessa Venezia. Polo spiega infatti che una nuova città lo aiuta a capire quelle che ha appena visitato, così come gli svela qualcosa del campiello di Venezia dove giocava da bambino. All’accusa, poi, di essere sempre rivolto al passato, Marco Polo ribatte “che quello che lui cercava era sempre qualcosa davanti a sé” e che “Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti” (26).

Lo spazio cui si accede assumendo la prospettiva della soglia è uno spazio non tracciabile, non delimitato e circoscritto, come quello narrato dagli altri ambasciatori. È uno spazio che non potrà mai essere posseduto o dominato. In quest’ottica, il viaggio che l’emissario veneziano invita Kublai Kan ad intraprendere comporta un prezzo molto alto, per chi come quest’ultimo anela al controllo e al completo possesso di tutto. E Marco Polo, niente affatto intrappolato nel passato, è invece contemporaneo del suo tempo, secondo l’accezione di Giorgio Agamben; egli scopre nel presente la componente che sempre rimarrà estranea e fa di questo “varco,” di questa fessura, lo spazio in cui poter far accadere inaspettati incontri. Afferma Agamben che “Ciò significa che il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia” (24).

Kublai Kan deve riuscire a vedere il suo impero e la sua storia con occhi diversi, estrapolando da esso l’intarsio di relazioni che gli faranno scoprire città traforate e leggere come quelle che popolano i suoi sogni, elevandosi così dal suo schiacciante peso. È questa la filigrana che resisterà al morso delle termiti. Ed è questo il dono più prezioso che Marco Polo offre all’imperatore di ritorno dalle sue ambascerie.


BIBLIOGRAFIA

AGAMBEN, Giorgio. Che cos’è il contemporaneo. Roma, Nottetempo, 2008.
CALVINO, Italo. Le città invisibili. Milano, Palomar e Arnoldo Mondadori, 1996.
CALVINO, Italo. Lezioni americane. Milano Palomar e Arnoldo Mondadori, 1993.
LEOPARDI, Giacomo. “L’infinito”, in Canti. Torino, Tipografia Carlo Accame, 1930, 62-63.            
LEOPARDI, Giacomo. Zibaldone. Tomo secondo. Milano, Arnaldo Mondadori, 1997.